Siria, Aziz Biro: “Federalismo e curdi nel nuovo governo”

Il prossimo primo marzo potrebbe essere una data storica per la nuova Siria del dopo Assad: come annunciato dal ministro degli Esteri ad interim Asaad Hassan al-Shibani alla Conferenza di Parigi, la terza dopo Aqaba e Ryiad in cui si discute del futuro del Paese, per quel giorno si arriverà alla costituzione del nuovo governo. Nonostante le rassicurazioni su una transizione inclusiva dei curdi e delle altre minoranze che compongono la società siriana, parte della società civile teme comunque di essere esclusa dal processo, col rischio che riaffiorino dinamiche di potere economico e politico proprie di quella dittatura che la Siria si è lasciata alle spalle.

Aziz Biro, avvocato e attivista curdo-siriano, è una delle voci critiche del governo di transizione nato dalla vittoria dei gruppi di opposizione. Costretto a lasciare il Paese nel 2006 per aver preso parte a diverse manifestazioni contro il regime di Assad a Damasco e a Qamishli, ha trascorso cinque anni nel Kurdistan Iracheno, per poi rientrare in Siria con l’inizio della rivoluzione del 2011. Da allora ha continuato a fare attivismo per i diritti dei curdi e delle altre minoranze, e dal 2017 ha collaborato a diversi programmi internazionali di assistenza alla popolazione colpita dalla guerra civile.

“Quando il regime è caduto tutti i siriani ne sono stati felici, poiché è stata scritta la parola fine a una dittatura andata avanti decenni – spiega Biro – è stato un momento di grande entusiasmo, ma la felicità è durata poche settimane. Poi abbiamo capito che molti cittadini rischiano ancora di essere marginalizzati ed esclusi dai ruoli istituzionali, come storicamente è sempre avvenuto nel nostro Paese”.

 

Da cosa nasce questa preoccupazione?

Innanzitutto dobbiamo ricordare che la caduta di Assad è stata frutto di un’azione militare e non di una transizione pacifica e civile, e se guardiamo alla storia, nessun cambio di governo fatto con le armi ha portato a trasformazioni positive nel lungo periodo, né alla costruzione di un sistema democratico. Basti guardare all’esperienza dei nostri vicini iracheni dopo il crollo del regime Baath, che è stata un’escalation di violenza con conseguenze nefaste nel lungo periodo.

 

A proposito di Iraq: è possibile ipotizzare un sistema federale simile per il futuro della Siria, e in particolare del Rojava, ancora sotto il controllo delle Syrian Democratic Forces?

La Siria è un Paese multietnico, multiconfessionale e multiculturale, quindi credo che il migliore sistema per il suo governo sia quello di implementare il federalismo. Abbiamo diversi modi di pensare e di agire, anche se siamo cittadini dello stesso Stato. Ogni regione ha le sue caratteristiche, e per un solo governo centrale sarebbe comunque impossibile tutelarle e valorizzarle in modo equo; non possiamo risolvere i nostri problemi pensando che Damasco arrivi ovunque e nello stesso modo. Un sistema federale consentirebbe invece di includere tutte le minoranze nella partecipazione politica ed economica, ed evitare disuguaglianze e gravi forme di sfruttamento.

 

Qual è secondo lei un esempio di grave sfruttamento avvenuto in Siria fra una regione e l’altra?

Pensiamo alla regione di Jazira, la più estesa delle tre che compongono la Regione autonoma del Nord Est della Siria, il Rojava: quest’area produce da sola il 65 per cento delle risorse dell’intero Paese, e ciononostante detiene il record di numero di residenti che vivono al di sotto della soglia di povertà. Qui non esistono industrie e filiere produttive, tutti i prodotti agricoli che vengono coltivati sono stati finora esportati verso le zone controllate dal regime. Ad esempio, il cotone si coltiva qui e si lavora altrove, perché non è mai stato consentito costruire delle fabbriche per la filatura. Lo stesso vale per il petrolio, che qui si estrae ma che poi viene portato via per la raffinazione. Le infrastrutture della Jazira sono le più povere, mancano le strade, le università, e gli studenti che avevano le possibilità si spostavano a Damasco se volevano avere un’opportunità. Non siamo pronti a ritornare a queste dinamiche ora che il regime è caduto, quello che serve è un’equa distribuzione del potere e delle risorse.

 

La Siria è uno dei Paesi che a causa della guerra degli ultimi tredici anni ha prodotto il maggior numero di rifugiati nel mondo e di sfollati interni da una regione all’altra: quale potrà essere in un prossimo futuro il ruolo dei cittadini siriani che sono fuggiti all’estero?

Tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la Siria in questi anni hanno appreso nuovi modelli di governo e nuovi modi di pensare, e per questo possono giocare un ruolo fondamentale per il Paese, da esterni o rientrando fisicamente, dal punto di vista diplomatico: possono essere un ponte con la comunità internazionale e aiutare a fare pressione affinché siano garantiti i diritti umani, l’uguaglianza, la democrazia. Il presidente ad interim Al Sharaa ha dichiarato da poco che serviranno quattro o cinque anni per predisporre quanto necessario a organizzare le elezioni in Siria, proprio per dare il tempo ai rifugiati di tornare a casa e partecipare. Purtroppo penso che si tratti di una scusa per allontanare quella che sarebbe la prima vera sfida democratica di questa formazione. I metodi per far votare i cittadini residenti all’estero esistono, e anche delle elezioni imperfette sono sempre da preferire a un governo non eletto.

 

La prima visita all’estero del presidente ad interim Ahmed Hussein Al Sharaa è stata in Turchia, dove lo scorso 4 febbraio ha incontrato Recep Tayyp Erdogan: come valuta uno sviluppo nelle relazioni fra Ankara e Damasco?

La Turchia è risultata vincitrice dalla caduta di Assad, mentre il potere di Russia e Iran in Siria è stato ridimensionato dagli eventi. Erdogan guarda a Damasco come un’opportunità, ma la Regione autonoma del Nord Est, il Rojava, continua a essere la sua “spina nel fianco”, perché è terrorizzato dalla possibilità, seppure remota, che un giorno i curdi divisi fra quattro Stati riescano a unificarsi sotto un intero Kurdistan.

Non dimentichiamo che la Siria Autonoma del Nord Est rappresenta un esempio unico nell’area sin dal 2011, quando si è costituita una forma di autogoverno a guida curda approfittando del vuoto di potere creatosi con la guerra. In questo territorio si è cominciato a parlare per la prima volta di società multietnica, di uguaglianza di genere e pluralismo religioso. Per questo proprio i curdi potrebbero diventare un fattore di unificazione e pacificazione dell’area, se solo fossero inclusi nelle istituzioni nazionali.

 

Quale potrebbe essere il ruolo dei curdi nel nuovo governo?

La Siria è un paese multietnico, e persino la Costituzione in vigore dal 2012 fino alla caduta di Assad, nata da un tentativo del regime di riportare l’ordine dopo l’inizio delle proteste, fa riferimento al pluralismo come elemento fondante. Vogliamo che questo principio sia inserito anche nella nuova Costituzione che verrà redatta dopo la formazione del nuovo governo. Su questa base dovrebbe poi esserci una ripartizione del potere centrale fra arabi, curdi, assiri, in modo che tutti abbiano una rappresentanza nelle istituzioni a Damasco in base alla presenza nel Paese. Solo così le diversità potranno essere rispettate e tutti i cittadini trattati in modo equo. Ovviamente la Siria autonoma del Nord Est dovrebbe mantenere la sua indipendenza, ma sempre all’interno della stessa nazione.

 

Abbiamo ascoltato importanti dichiarazioni di intenti dalla Conferenza di Parigi: quanto può incidere la presenza della comunità internazionale in questa transizione?

Il ruolo della comunità internazionale, e dell’Unione Europea in particolare, è fondamentale: serve che i Paesi europei facciano pressione sul nuovo governo ad interim affinché fornisca garanzie reali di uguaglianza per tutti i siriani, e si evitino nuove forme di sfruttamento e prevaricazione contro alcune parti della popolazione a favore di altre.

Non possiamo dimenticare il background del presidente Al Sharaa: la sua storia personale e quella del suo movimento contano numerose violazioni dei diritti umani. Per questo credo che il suo governo nato dalla rivoluzione abbia paura dei modelli democratici e di applicarli. L’attuale ministro della Giustizia fu coinvolto in passato nell’uccisione di due donne accusate di relazioni sessuali illegali, e lo stesso presidente risulta implicato nella morte di civili. È vero che sono state prese le distanze da quel passato, ma non vorrei che si trattasse di un’operazione di facciata costruita soprattutto per rendersi accettabili all’estero, e coltivare migliori relazioni internazionali.

Le attuali istituzioni sono dominate da arabi sunniti, e finora tutte le altre componenti della società non sono state incluse. Aspettiamo il primo marzo per capire cosa si celi dietro a questa nuova facciata da moderati, ma non possiamo dimenticare i rischi di un governo radicalizzato, soprattutto in un Paese come il nostro che vive una gravissima crisi economica. Spero che la comunità internazionale sia in grado di supportare i siriani, prima ancora che il nuovo governo. In fondo, il problema non è solo della Siria o del Medio Oriente, perché tutte le questioni che riguardano l’area, come insegna la storia, si ripercuotono direttamente sull’Europa, che si tratti di flussi migratori o di terrorismo.

 

 

Immagine di copertina: il presidente ad interim siriano Ahmed Hussein Al Sharaa (centrale a sinistra) e il ministro degli Esteri Asaad al-Shaibani (centrale a destra) a La Mecca, il 3 febbraio 2025 (foto di AFP).

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