Il cessate il fuoco tra Israele e Libano, in vigore dal 27 novembre scorso, è stato “pensato come permanente” – o almeno così Joe Biden ha annunciato il provvedimento. Il sud del Libano continua però a essere colpito. Solo qualche giorno fa Tel Aviv ha dichiarato un parziale ritiro delle truppe, posticipando quello totale previsto dalla tregua. In questo fragile contesto di pace, aggravato dalla grave crisi economica e politica del Paese, Reset ha raggiunto Mona Harb, docente di Studi urbani e Politica presso l’Università Americana di Beirut.
Professoressa Harb, come valuta questo accordo? Crede che reggerà? Alcuni analisti sostengono che sia tratti di una pausa, c’è chi dice in attesa di un cambio della leadership statunitense.
Nei primi giorni del cessate il fuoco c’era la paura che non reggesse. Ora, dopo più di due settimane, c’è un po’ più di stabilità. Da ciò che posso osservare, il governo libanese ha iniziato alcuni lavori di ricostruzione, soprattutto la rimozione delle macerie, il che suggerisce che l’accordo stia tenendo. Ci sono state molte violazioni, è vero. L’ultimo conteggio ne riporta oltre duecento totali tra cui raid aerei e attacchi, soprattutto nel sud del Libano, che hanno causato vittime. Dall’annuncio della tregua sono 24 le persone morte negli scontri. Sentiamo ancora i droni che sorvolano diverse aree qui a Beirut.
E Hezbollah ha risposto a queste violazioni…
Sì, ma le loro azioni sono state minime. Non sembrano voler intensificare gli attacchi, almeno per ora. E questi restano nel sud del Libano. Lì le forze israeliane hanno emesso ordini di evacuazione per oltre 60 villaggi. La cosa interessante è che solo pochi giorni fa li hanno riconfermati, chiedendo alle persone di non tornare. Questo suggerisce che restano cauti rispetto alla situazione nel sud. Tuttavia, pochi giorni fa, l’esercito libanese è entrato a Khiam, città di confine dove i combattimenti sono stati pesanti. È un segnale positivo; c’è un cauto ottimismo sul fatto che il cessate il fuoco reggerà e che l’esercito libanese continuerà a riprendere il controllo di altre città di confine.
Qual è la situazione attuale di Hezbollah? Nel corso di questo ultimo anno ha perso il suo leader, Nasrallah, ha subito l’esplosione di centinaia di cercapersone, che hanno ucciso o mutilato diversi suoi membri, per non parlare della guerra. Come è stato colpito il gruppo a livello militare e politico? Ha ancora un forte controllo in Libano?
Poco prima e subito dopo il cessate il fuoco, abbiamo visto che Hezbollah era ancora in grado di lanciare missili in Israele e molto in profondità. Questo significa che la sua capacità militare non è stata indebolita come Israele sperava. Inoltre, il gruppo dispone di un arsenale operativo, che è il motivo per cui Israele si sta concentrando sulle rotte attraverso cui Hezbollah si rifornisce di armi, soprattutto in Siria. A questo punto il tema è: fino a che punto Hezbollah sarà in grado di riarmarsi?
A livello politico, la leadership di Hezbollah è uscita destabilizzata dall’attacco con i cercapersone e dall’assassinio di diversi leader di alto livello, tra cui Nasrallah. Hezbollah però non è solo un partito politico; è un’istituzione su larga scala, con numerose organizzazioni non profit registrate presso il governo libanese che si occupano di molti aspetti della vita sociale, culturale, ricreativa e urbana di numerose comunità sciite. Queste istituzioni sono ancora ampiamente operative, come Al-Qard al-Hasan, l’organizzazione di microcredito di Hezbollah, che è diventata un target durante la guerra. Hezbollah ha anche rappresentanti eletti in Parlamento, ministri nel governo e guida molti municipi, che oggi sono i primi attori nelle operazioni di riparazione e ricostruzione.
Quali sono le divisioni tra i libanesi al momento? Molti membri della comunità sciita credono di aver vinto la guerra perché Israele non ha attraversato militarmente il fiume Litani e continuano a usare una retorica di “resistenza” contro Tel Aviv. Quanto è diffuso questo sentimento e come vedono le altre comunità questa tregua?
Il Libano si trova in una condizione di profonde divisioni. Da un lato una parte significativa della comunità sciita – in particolare nel sud del Libano, nella valle della Bekaa e a Dahieh, nel sud di Beirut – si sente minacciata dall’agenda espansionista e coloniale di Israele, che osserva anche nel sud della Siria e nelle Alture del Golan. Per loro, questi sviluppi confermano preoccupazioni di lunga data sulle intenzioni sioniste. Avendo subito aggressioni israeliane dal 1978 e vissuto sotto occupazione per 22 anni, percepiscono la minaccia israeliana come costante e credono che la resistenza armata sia necessaria per impedire invasioni e occupazioni dei territori meridionali del Libano. Dall’altro lato, c’è una narrativa opposta secondo cui queste aggressioni avvengono a causa dell’esistenza di Hezbollah, che rappresenta una minaccia per Israele, e quindi deve essere disarmato per fermare gli attacchi israeliani e garantire stabilità.
Il conflitto come ha trasformato il Libano?
Si potrebbe dire che esistono due “Libani”: uno colpito da Israele e l’altro che non lo è stato. Questa guerra è stata molto specifica in tal senso: Israele ha inflitto una punizione collettiva alle comunità sciite, colpendole nelle aree dove erano più concentrate – incendiando le loro terre, uccidendo civili e bombardando infrastrutture civili nei loro quartieri, perché Hezbollah è radicato in queste comunità. Oggi Beirut Sud (Dahiya) somiglia a un patchwork: quartieri che funzionano normalmente sono accanto a quelli ormai distrutti e inabitabili. L’entità della distruzione rende molto difficile condurre una vita normale in questo contesto urbano, anche se la propria casa non è stata distrutta.
Nel sud la situazione è ancora peggiore. La scala della devastazione – l’annientamento della vita urbana e rurale, la devastazione della terra attraverso il fosforo bianco e le bombe a grappolo, gli attacchi mirati su ospedali, scuole e infrastrutture critiche – ha reso molte località e città inabitabili, almeno nel breve periodo. Ancora oggi, nonostante il cessate il fuoco, ci sono membri della comunità sciita che rimangono sfollati perché i loro quartieri non sono più vivibili; tuttavia, molti sono tornati a vivere vicino alle loro case.
Ci sono state forme di solidarietà?
Durante la guerra si è registrata una solidarietà significativa, un notevole senso collettivo di unità, persino nei quartieri cristiani dove ci si aspetta un’opposizione al conflitto. Ad esempio, città e villaggi sul Monte Libano e nella valle della Bekaa, governati dal partito Forze Libanesi, sono stati molto accoglienti verso le persone sfollate da Baalbek o dal sud di Beirut. Queste comunità li hanno ospitati in scuole pubbliche designate per questo scopo e hanno persino affittato loro delle abitazioni. Ovviamente ci sono anche storie di persone che si sono rifiutate di offrire ospitalità, complessivamente però la generosità è stata molto forte, ha superato le divisioni. Molti hanno detto: discuteremo del ruolo di Hezbollah dopo la fine della guerra, risolveremo questa questione politicamente in Parlamento e nel governo. Per ora, siamo un solo Paese attaccato da un nemico comune, e ci uniamo.
Il Libano è senza un presidente della repubblica dall’ottobre 2022, con il Parlamento paralizzato da profonde divisioni. Tuttavia, subito dopo il cessate il fuoco, è stato annunciato che l’organo legislativo si riunirà il 9 gennaio per eleggerne uno – che, secondo il sistema politico settario libanese, dovrebbe essere un cristiano maronita. Quali sono i nomi che circolano al momento?
La discussione sul prossimo presidente libanese è in corso tra i leader delle diverse confessioni religiose. Come spesso accade, la scelta del prossimo presidente non avviene attraverso processi istituzionali, ma viene negoziata “sottobanco”, come diciamo in arabo. Tra i riformisti circola il nome di Ziyad Baroud, avvocato ed ex ministro, noto per le sue posizioni più laiche, anche se molti ritengono che non abbia molte possibilità.
Dall’altro lato, ci sono i nomi legati a questi leader. Una delle figure spesso menzionate è Sleiman Frangieh, vicino a Hezbollah. Tuttavia sembra essere stato escluso, sia a causa della guerra sia per i suoi forti legami con Bashar al-Assad. Un altro nome divisivo è quello di Samir Geagea, capo del partito Forze Libanesi. Si parla poi di Neemat Frem, parlamentare, industriale e imprenditore, che ha proposto la sua candidatura. C’è anche il generale Joseph Aoun, il comandante dell’esercito libanese. Al momento, però, queste sono solo voci, non candidature confermate. È probabile che il processo prenda slancio dopo le feste.
Cosa potrebbe aiutare il Libano a recuperare la propria sovranità e a liberarsi dal ruolo di terreno di scontro tra potenze esterne, a libersi dalle “guerre d’altri”?
Perché ciò avvenga, sarebbe necessaria una forte opposizione politica in grado di affermare la propria autorità sul territorio, ma siamo ben lontani da questo. I tentativi di costruire un’opposizione politica sono stati sistematicamente ostacolati nel corso degli anni, in particolare dopo la repressione delle rivolte del 2019. L’emigrazione di molti attivisti e organizzatori a causa del collasso economico non ha aiutato. Idealmente servirebbe un’opposizione organizzata, capace di competere nelle elezioni e offrire un’alternativa valida all’attuale panorama politico.
Sfortunatamente, gli scenari esistenti sono profondamente polarizzanti. Da un lato, c’è la resistenza armata guidata da Hezbollah, che manterrebbe il Libano nella posizione di Paese appartenente all’“Asse della Resistenza”. Dall’altro, c’è lo scenario della normalizzazione con Israele, in cui il Libano si disarmerebbe e potrebbe avvicinarsi a negoziare accordi con Israele, come hanno fatto altri Stati arabi negli ultimi anni, tra cui Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti e, forse, in futuro, l’Arabia Saudita.
Quali sono i principali problemi legati a questi due scenari?
Entrambi presentano gravi problematiche. Nello scenario della normalizzazione, il Libano sarebbe essenzialmente alla mercé dell’agenda espansionista e delle ambizioni di Israele, già evidenti in Giordania ed Egitto, soprattutto attraverso progetti energetici e forme di “colonialismo verde”. Dall’altro lato, lo scenario neoliberale islamista è altrettanto preoccupante. Entrambi sono guidati da interessi geopolitici che servono principalmente patroni stranieri, piuttosto che i bisogni del popolo libanese, che cerca di sopravvivere e costruire una vita dignitosa per sé e per le proprie famiglie. Quello di cui c’è bisogno, invece, è un progetto politico incentrato sugli interessi collettivi delle persone, un progetto capace di costruire una democrazia inclusiva, garantire responsabilità politica e promuovere la giustizia sociale e ambientale.
Immagine di copertina: una foto aerea scattata il giorno dopo il cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah. Ritrae la città libanese di Tiro, nel sud, il 28 novembre 2024. (Foto di AFP)