Qaraqosh, la fragile rinascita della città dei cristiani d’Iraq

Fratello Wissam sta guidando il suo pick-up verso il convento che condivide con altri frati francescani. Sta rientrando da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, dove è atterrato il nipote Francius, che ha 19 anni e per la prima volta è venuto in Iraq da solo per le vacanze. “È il figlio di mia sorella – spiega – ed è nato a Londra dove lei si è trasferita ormai vent’anni fa. Molti della mia generazione sono emigrati in Europa in quegli anni, e molti vorrebbero farlo oggi, perché la vita delle minoranze in questo paese non è mai stata semplice”.

Wissam, come molti altri connazionali che hanno preso i voti e che oggi fanno parte della galassia dei cristiani iracheni, ha studiato all’estero per alcuni anni, ma non ha mai pensato di lasciare definitivamente il suo paese. La sua città è Qaraqosh (nel nome siriaco), o Baghdida (in arabo), a trenta chilometri da Mosul, diventata nel 2014 il simbolo della furia dello Stato Islamico contro i cristiani.

 

Il convento dei container

“Io e i miei confratelli abbiamo scelto di tornare qui subito dopo la liberazione, nel 2017 – racconta – ma volevamo farlo in un luogo tranquillo, immerso nel verde, non all’interno della città. Non solo per noi, ma anche per dare alle persone un posto in cui godere della pace, fuori dal traffico, dal cemento, dalle difficoltà della ricostruzione”. Oggi i quattro frati che vivono qui hanno riciclato alcuni container che prima erano stati utilizzati per ospitare gli sfollati, e hanno creato gli alloggi per loro e per eventuali ospiti volontari, gli spazi ricreativi comuni, e una chiesa con l’altare di legno in cui celebrano la messa tutte le mattine.

Nel frattempo stanno portando avanti i lavori di un “vero” monastero, fatto di mattoni e cemento, qualche decina di metri più in là, nel grande appezzamento dove oggi sono stati piantati alberi di ulivo, si coltiva la terra e si allevano mucche e galline. “Puntiamo all’autosufficienza – dice Wissam – mangiamo le verdure che coltiviamo e produciamo il formaggio dal nostro latte. Con pazienza andremo avanti sempre meglio”.

All’ingresso di questo complesso c’è ancora la guardia armata 24 ore su 24. Ma non si tratta più di membri delle Plan Protection Unit, le milizie cristiane nate durante la guerra allo Stato Islamico, ma delle Popular Mobilization Forces, le milizie filo-sciite, nate nello stesso periodo e oggi integrate nell’esercito iracheno. “Oggi la situazione è molto più tranquilla – dice Wissam – questa zona è sicura e ben sorvegliata. Ma le precauzioni non sono mai troppe, in un paese dove tutto può cambiare nel giro di poche ore.”

 

Il museo di comunità

Qaraqosh si è trasformata in questi sette anni: le strade sono state riasfaltate, le chiese ricostruite, spesso grazie a sovvenzioni internazionali. Anche molte case sono state rimesse in sesto, soprattutto quelle che non avevano subito troppi danni, e per le quali i proprietari hanno deciso di investire di nuovo gli ultimi risparmi. Ci sono giovani che hanno riaperto piccole botteghe, come Ahmed, che oggi gestisce una cioccolateria con vetrine luminose e tavolini nel patio, o come Martin, che ha deciso di recuperare la memoria storica della città attraverso la creazione di un piccolo museo che sta crescendo con l’aiuto di tutta la comunità.

“Dopo la liberazione abbiamo trovato una città che non riconoscevamo più – ricorda Martin – in ogni angolo c’era stata distruzione, saccheggi, tutti noi avevamo perso non solo le nostre cose ma le tracce della storia collettiva. Così, grazie agli anziani sopravvissuti, abbiamo cominciato a mettere insieme le storie private e gli oggetti che ognuno era riuscito a portare con sé, che si trattasse di un ricordo di famiglia, di un libro, di un’immagine sacra, di un utensile del mondo contadino. Abbiamo cercato un posto dove tutto questo potesse essere catalogato, esposto e poi messo a disposizione di tutti, cittadini e visitatori. Un uomo che oggi vive all’estero si è offerto di lasciarci questa casa che era dei suoi nonni, così abbiamo cominciato”.

Oggi il museo di Baghdida ha anche una pagina Facebook e ha raccolto il favore dei cittadini e dei turisti, che cominciano ad arrivare qui dal resto dell’Iraq, e alcuni, ancora pochi, anche dall’estero.

 

I rientri dopo l’esilio della guerra

Gli abitanti attuali di Qaraqosh sono all’incirca la metà di quelli di dieci anni fa, e dai 60mila di allora sono passati a 30mila. Molti di coloro che hanno trascorso “l’esilio” nel Kurdistan iracheno durante la guerra sono riusciti a ricrearsi una stabilità, hanno trovato un lavoro, mandato i figli a scuola, preso una casa in affitto. Tornare indietro dopo anni, senza risparmi e in assenza di prospettive occupazionali diventa sempre più difficile. Nella zona non ci sono aziende, fabbriche, e le uniche possibilità sono nel commercio o in agricoltura. Chi ha subito danni alla propria casa non ha ricevuto aiuti per la ricostruzione privata, e quindi deve arrangiarsi con le sue forze. Molti hanno rinunciato, altri sono tornati e vivono in condizioni di estrema povertà.

 

Sarah e il quartiere Sheqaq

È il caso degli abitanti dello Sheqaq, una zona periferica di Qaraqosh dove gli alloggi sono di proprietà della Chiesa assiro-caldea e per l’affitto è richiesta una cifra simbolica di poche migliaia di dinari. Per molti è l’unica soluzione per avere un tetto sulla testa: persone con disabilità, madri vedove con figli, famiglie numerose con lavori saltuari.

Subito dopo la liberazione, in questo quartiere era tornato uno dei primi gruppi di residenti insieme a padre Jalal, un sacerdote cristiano che aveva trascorso a Erbil gli anni dell’Isis, dopo essere riuscito a fuggire mettendo in salvo i testi sacri più antichi e preziosi che aveva. Jalal, che oggi vive in Italia, ha lasciato qui un segno del suo passaggio: il campanile che gli era stato donato da alcuni italiani e dalla congregazione dei Rogazionisti per il “suo” campo profughi di Ankawa, sobborgo cristiano della capitale del Kurdistan iracheno, che oggi è stato portato a Qaraqosh, dove la campana ha ripreso a suonare.

Fra queste case ogni giorno arriva Sarah, una donna di sessant’anni, che insieme a un gruppo di residenti ha creato un’associazione di volontariato per aiutare i concittadini più vulnerabili.

“Conosco uno per uno queste donne e questi uomini, e insieme ad altre amiche della comunità cerchiamo di raccogliere per loro beni di prima necessità, alimenti, vestiti, giocattoli per i bambini, attrezzature per la scuola – spiega – aiutiamo come possiamo, a volte anche solo con una visita di conforto, una chiacchierata in amicizia. In molti qui stanno perdendo la fiducia, perché si sono resi conto che ricominciare tutto da capo era come scalare una montagna. Non ci sono servizi, né opportunità di lavoro. Ci si aiuta l’un l’altro ma è comunque difficile pensare al futuro”.

Oggi Sarah è andata a trovare una famiglia con tre figli. La più grande farà la prima comunione domani, ma il padre non potrà andare a vederla perché ha una malattia che lo costringe a letto. Sua moglie Hanna deve badare a lui giorno e notte, e appena può cerca di guadagnare poche migliaia di dinari con le pulizie, ma non può allontanarsi da casa a lungo. Sarah si occupa della spesa, che gli consegna a domicilio. Oggi ha portato loro della carne surgelata e dei cibi in scatola. Si informa sulle medicine di cui ha bisogno l’uomo, e lascia alla donna qualche spicciolo che ha raccolto fra i contatti della sua rete. Non basteranno a lungo ma sono pur sempre un aiuto.

“Occuparmi di queste persone è diventata una routine – racconta – abbiamo cominciato nel 2017, quando chi rientrava a Qaraqosh cercava di recuperare materiali e forza lavoro per la ricostruzione delle case. La maggior parte di noi si era ritrovato i tunnel nelle abitazioni, scavati tra un muro e l’altro. I miliziani dello Stato Islamico avevano costruito una rete di cunicoli per spostarsi in città senza mai uscire allo scoperto, sventrando le nostre case. Alcune erano state usate come deposito di armi, di medicinali, come prigioni o come basi militari. Il lavoro da fare è stato enorme e ancora oggi non siamo tornati alla normalità. Chi non ha trovato un impiego, o ha problemi di salute, continua a fare una vita ai margini. Per questo in tanti stanno pensando di andare via nuovamente.

 

Restare o ripartire

L’eredità più pesante della guerra è il senso di insicurezza, che permane anche in coloro che hanno ricostruito, imbiancato, riempito di fiori la propria casa. L’incubo di dover fuggire da un momento all’altro per evitare di essere uccisi, o fatti prigionieri, è ancora impresso nella memoria di tutti. Soprattutto dei giovani.

Joseph è uno studente di medicina che oggi è tornato a frequentare l’università di Mosul. “Ricordo ancora come se fosse ieri la notte in cui siamo scappati – racconta – eravamo io, mio fratello più piccolo e i miei genitori; non c’è stato il tempo nemmeno di pensare a cosa portarci dietro, siamo usciti di casa con quello che avevamo addosso. Abbiamo camminato per ore, al buio, in mezzo ai campi perché le strade non erano sicure. Ci siamo salvati per una questione di ore, poco dopo abbiamo saputo che i miliziani erano arrivati e avevano cominciato a distruggere tutto. Eravamo terrorizzati. Quando la guerra è finita non vedevo l’ora di tornare a casa, ma le condizioni di vita restano molto difficili, e spero di laurearmi presto per andarmene in Europa, perché qui non vedo un futuro. È un mio grande rammarico, ma credo che per un ragazzo della mia età l’unica soluzione oggi sia emigrare.

 

Radio Salam, pace e inclusione

Il 26 settembre del 2023, quasi un anno fa, un’altra tragedia ha segnato questa comunità che già faticava a ritrovare una stabilità nel post conflitto: durante una festa di matrimonio, un incendio divampato nella sala ricevimenti ha fatto 114 vittime. E da allora le partenze sono aumentate.

“È stato un duro colpo per tutti – dice Said Dawud, direttore di Radio Salam, la radio cristiana di Qaraqosh – quasi ogni famiglia ha pianto almeno un parente o un amico, un conoscente, ed è stato come tornare ai tempi della guerra, ma supereremo anche questa prova”.

Dawud non si è mai arreso. Quando nel 2014 ha dovuto abbandonare gli studi radiofonici insieme ai suoi collaboratori, ha spostato parte del lavoro a Erbil, e da lì ha continuato a trasmettere e a raccontare le storie dei profughi, della comunità cristiana perseguitata dall’Isis.

Nel 2017 è stato fra i primi a tornare, a rimettere in sesto la sala di registrazione, a cercare fondi per ricomprare i computer, i mixer e le attrezzature per le trasmissioni.

“Oggi andiamo in onda non solo via etere, ma anche in streaming – spiega – e i programmi non riguardano solo la religione ma pure temi sociali, inclusivi. La cosa che più ci rende felici è che la maggior parte degli ascoltatori ci segue dal sud del Paese, da Bassra, ed è musulmana. Facciamo da ponte fra il nord e il sud, perché i problemi che viviamo spesso sono più simili di quanto si immagini. La crisi economica, la crisi ambientale, la stabilità sempre fragile del nostro paese. E finché riusciremo a parlare a tutti, da una città considerata luogo di minoranza, avremo una ragione per restare”.

 

 

Foto di copertina: il monastero di San Benham di Karemlesh, sobborgo alle porte di Qaraqosh, danneggiato dall’Isis e ora ristrutturato. Foto di Ilaria Romano, tutti i diritti di riproduzione sono riservati.

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