Adriano Aprà, di cui piangiamo la scomparsa, è stato, tra molte altre cose, attore, regista, organizzatore culturale, saggista e soprattutto un indimenticabile critico cinematografico. E dal 1993, fin dalla fondazione e per tanti anni è stato il critico di “Reset”. Per la collana dei Libri di Reset ha pubblicato anche la raccolta Per non morire hollywoodiani. Notizie dal cinema di fine millennio del 1999. Ha scritto di lui Paolo Mereghetti sul Corriere.it che “nonostante le sue prese di posizione spesso radicali e le battaglie critiche che lo videro in prima fila, per esempio confrontandosi con i nemici/amici dell’altra rivista di tendenza di fine anni Sessanta, Ombre rosse, Aprà non è mai stato un critico settario. Anzi, il suo impegno è stato sempre attraversato da un deciso spirito didascalico: voleva far capire, voleva mostrare, voleva confrontarsi con gli altri (e lo posso testimoniare personalmente, io che ero cresciuto sulla «barricata» di Ombre rosse). Lo ha fatto magnificamente quando ha diretto il Salso Film & Tv Festival (1977-1989) e la Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro (1990-1998), quando ha insegnato all’Università di Roma Tor Vergata dal 2002 al 2008, dopo aver diretto per quattro anni la Cineteca Nazionale. Gli rendiamo omaggio pubblicando uno dei suoi tanti articoli, questo “Elogio del cinema italiano degli anni Novanta” e un ricordo personale dell’amico Bruno Gravagnuolo. Altri articoli si trovano online nell’archivio digitale di “Reset” e di Caffeeuropa. Questo saggio fa parte del volume Il cinema della transizione a cura di Vito Zagarrio pubblicato da Marsilio.
Va detto con chiarezza, fuori dall’insopportabile – e insopprimibile? – rumore di fondo mediatico, che gli anni Novanta sono stati uno dei decenni più fecondi e creativi per il cinema italiano, dopo gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Non saranno in molti a essere d’accordo, lo so bene. Diversamente dagli altri decenni citati (per quel che valgono queste scansioni), uno dei maggiori problemi del cinema italiano recente è la forbice che si è prodotta fra autori di talento da una parte e produttori-distributori-esercenti, pubblico e critica – o giornalismo – dall’altra. Facciamo un bel cinema ma questo cinema non è né condiviso né capito. È un cinema di crisi, nato da quella degli anni Settanta e Ottanta, che ad essa vuole reagire resistendo e opponendosi, o casomai ignorandola; da più parti lo si sollecita invece a imitare il nostro passato o a guardare in direzione di Hollywood. Entrano in gioco ipocriti orgogli (“Una volta sì che eravamo bravi!”) o provinciali invidie (“Gli americani sì che sanno come fare il cinema!”) che rimuovono i colpevoli egoismi di un’industria che, illudendosi di salvare solo se stessa, ha distrutto le basi su cui poggiava e di una critica che, per non mettersi troppo in questione, ha guardato con sospetto ai rinnovamenti che dagli anni Sessanta il cinema internazionale sta sperimentando, non solo al livello estetico ma anche, congiuntamente (il cinema è arte-industria), a quello tecnico e produttivo.
È normale e logico che chi resiste e si oppone venga messo in minoranza; ma se un tempo potevamo dire con Cocteau che “le minoranze di oggi saranno le maggioranze di domani”, oggi non ne sarei più così certo. Quanti classici del cinema sono stati ignorati dal pubblico e, talvolta, persino dalla critica! Eppure il tempo ha giocato a loro favore, così come ha giocato a sfavore di tanti successi di breve respiro. Potremo dire lo stesso di alcuni dei migliori film italiani degli anni Novanta? Il ciclo di vita-e-morte è così breve nelle sale che non basta la qualità estetica a salvarli, e poi l’estetica è un valore contro il quale troppe pistole sono puntate. Resta a illuderci il paradosso di una comunicazione porta a porta fatta con i mezzi che l’industria audiovisiva mette a disposizione, dai vecchi vhs ai nuovi dvd, fino a internet; a meno che non si debba tornare a un cineclubismo riorganizzato come un partito della qualità.
In attesa di elaborare strategie pratiche in difesa di un cinema che c’è ma che pochi vedono e apprezzano, proviamo intanto a fare il catalogo dei film e degli autori, senza distinguere fra giovani e vecchi, da proporre per una distribuzione alternativa, sia pure stando al gioco dei decenni e quindi limitandomi a quanto prodotto dal 1990 nel campo del lungometraggio (quello del corto, nonché quello delle arti elettroniche – ma voglio almeno ricordare Gianni Toti e Cane CapoVolto –, è troppo vasto e incerto, e seminato di equivoci, perché possa avventurarmici con sufficiente conoscenza; e voglio rammentare poi qualche straniero che ci affianca, più stabilmente e esemplarmente come Huillet-Straub, o più occasionalmente come Lucian Segura, l’autore del “bolognese” Alta marea, Raúl Ruiz, Amos Gitai, Jon Jost).
Catalogando, e inevitabilmente schematizzando, distinguerei gli sperimentatori dai narratori, o per meglio dire coloro che sentendo la crisi della finzione (o del documentario) si concentrano su un rinnovamento del linguaggio, da coloro che credono nella forza del racconto e mettono in secondo piano la ricerca sul linguaggio o utilizzano modelli relativamente tradizionali.
Sperimentatori (in ordine alfabetico): Silvano Agosti, Raffaele Andreassi, Michelangelo Antonioni, Gian Vittorio Baldi, Paolo Benvenuti, Giuseppe Bertolucci, Antonio Capuano, Daniele Ciprì e Franco Maresco, Pappi Corsicato, Tonino De Bernardi, Antonietta De Lillo, Davide Ferrario, Marco Ferreri, Giuseppe Gaudino, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Stefano Grossi, Giovanni Davide Maderna, Pasquale Misuraca, Nanni Moretti, Franco Piavoli, Alberto Rondalli, Gianfranco Rosi, Alessandro Rossetto, Sergio Staino, Gianluca Maria Tavarelli, Roberta Torre.
Narratori (sempre in ordine alfabetico): Gianni Amelio, Carla Apuzzo, Francesca Archibugi, Marco Bechis, Marco Bellocchio, Alessandro Benvenuti, Bernardo Bertolucci, Claudio Caligari, Mimmo Calopresti, Sergio Castellitto, Enrica Colusso, Peter Del Monte, Vittorio De Seta, Anna Di Francisca, Luciano Emmer, Fiorella Infascelli, Armando Manni, Mario Martone, Gianfranco Pannone, Giuseppe Piccioni, Salvatore Piscicelli, Michele Placido, Pasquale Pozzessere, Marco Risi, Daniele Segre, Silvio Soldini.
(Naturalmente ci sono film e registi “giovani” che non ho visto, o che non mi sono stati credibilmente segnalati; film e registi meno giovani che ho – per pregiudizi? – trascurato, come Dario Argento, Pupi Avati, Tinto Brass, Fabio Carpi, Liliana Cavani, Maurizio Nichetti, Carlo Vanzina; registi che, almeno con i loro film degli anni Novanta, non mi hanno convinto, ma con simpatia, come Sergio Citti, Francesco Calogero, Luigi Faccini; e registi di cui mi è piaciuto qualche film ma non gli altri, come Aurelio Grimaldi, Le buttane, Ettore Scola, Il viaggio di Capitan Fracassa e Mario, Maria e Mario, Lina Wertmüller, Io speriamo che me la cavo).
Così classificando, ho eliminato quelli che mi sembrano, e che altrove ho definito, i “perbenisti”: registi “che si muovono soddisfatti e compiaciuti entro i canoni della correttezza realistica, rifacendosi spesso, tardivamente e mimeticamente, più che al neorealismo alla commedia all’italiana (che non sempre merita tali eredi), attenti ad andare incontro a un pubblico, un’industria e una critica che si rispecchiano nell’esistente, rappresentanti di un regime estetico fatto di medietà e di mediazioni, privo di forma e di sguardo, dedito a trascrivere sceneggiature e a consacrare attori” (“Reset”, 47, aprile 1998; ora nel mio Per non morire hollywoodiani, Reset, Roma, 1999).
Sono: Roberto Benigni, Giacomo Campiotti, Cristina Comencini, Alessandro D’Alatri, Roberto Faenza, Daniele Luchetti, Carlo Mazzacurati, Gabriele Muccino, Francesco Nuti, Leonardo Pieraccioni, Sergio Rubini, Gabriele Salvatores, Ricky Tognazzi, Giuseppe Tornatore, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Paolo Virzì, e altri che ho seguito meno o che hanno appena debuttato. Sono cioè i registi che – non tutti, naturalmente – sono stati apprezzati di più da pubblico e critica, che ci hanno fatto conoscere all’estero e che si vorrebbe portare a modello di ciò che il cinema italiano potrebbe o dovrebbe essere. Sono i rappresentanti della maggioranza rumorosa.
Discorso diverso andrebbe fatto per registi delle precedenti generazioni che sembrano, chi più chi meno, avere esaurito le cose da dire e i modi per dirlo, come Dino Risi, Mario Monicelli, Ermanno Olmi, Francesco Rosi, Ettore Scola, Alberto Sordi, Paolo e Vittorio Taviani o Lina Wertmüller; mentre all’inizio del decennio si sono fermati Luigi Comencini col bel melodramma incompreso Marcellino pane e vino e Federico Fellini con La voce della luna.
Questa drastica suddivisione ha bisogno di un minimo di sfumature. Per esempio, fra gli sperimentatori (va da sé che uso il termine in maniera soft, perché oggi in Italia il modello narrativo più tradizionale è così canonizzato che anche semplici scarti dalle regole suonano sperimentali) ho messo Ferrario, che è anche un narratore sapiente, perché apprezzo il modo quasi unico con cui sa coniugare ricerca linguistica e ricerca narrativa; di Staino mi aveva colpito l’originalità comica di Non chiamarmi Omar, ma non ho visto il precedente Cavalli si nasce (1989) e non sono seguiti altri film; di Tavarelli mi ha convinto l’impiego funzionale e metodico del piano sequenza in Un amore (che è oltretutto una bella storia d’amore fra adulti, cosa di per sé insolita), ma non ho visto il precedente Portami via, mentre ho visto il bel corto Dimmi qualcosa di te (1989), che lo farebbe collocare fra i narratori.
In questa seconda categoria ho messo Amelio, che in Così ridevano (per me il suo miglior film) ha sperimentato come non mai, ma che nei precedenti film è stato soprattutto narratore; la Apuzzo, che con Rose e pistole ha fatto una commedia disinvolta e inventiva, ma il genere quasi esige un certo rispetto dei canoni del racconto, e lo stesso si può dire della Di Francisca, e per entrambe un solo film è poco per giudicare bene; Alessandro Benvenuti, ancora troppo attratto dai diktat dei produttori e dalle sirene del successo per mantenere con coerenza la linea comico-sperimentale di Zitti e Mosca e Ritorno a casa Gori, ma anche di Benvenuti in casa Gori e Belle al bar; Bellocchio, uno dei rari sperimentatori della generazione degli anni Sessanta ancora attivo, che sembra aver abbandonato gli impulsi irrazionali della Condanna e soprattutto del Sogno della farfalla accedendo a una razionalità adulta con Il principe di Homburg e La balia, senza convincermi del vantaggio; De Seta, grande documentarista sperimentatore, che ha preferito, rossellinianamente, la chiarezza all’allusione tornando al cinema con In Calabria; Marco Risi, regista che mi coinvolge e mi irrita, a volte come nel Branco in maniera intollerabile, altre come nell’Ultimo capodanno con attrazione un po’ perversa, ma di cui riconosco la forza espressiva, che non è necessariamente una qualità; Segre, che nei suoi documentari, più che in Manila Paloma Blanca, dimostra un indubbio savoir faire in una tradizione della nonfiction poco incline a ibridazioni più moderne.
Parlo di autori, ma a volte dovrei limitarmi a parlare di film. In alcuni casi dietro un singolo film realizzato negli anni Novanta c’è una lunga attività a confermarne il valore: è il caso di Andreassi, grande documentarista misconosciuto (I lupi dentro), Antonioni (Al di là delle nuvole), Baldi (Il temporale), De Seta, Emmer (che si è presentato a Venezia con un film dal titolo “paterno”, Basta! Ci faccio un film, uscito poi nelle sale con la variante “filiale” Basta! Adesso tocca a noi); in altri casi il singolo film, con tutte le sue qualità, attende conferma: Gaudino (Giro di lune tra terra e mare, decurtato dal distributore di mezz’ora, dietro cui ci sono comunque alcuni video), Grossi (Due come noi, non dei migliori), Maderna (Questo è il giardino), Gianfranco Rosi (Boatman), Torre (Tano da morire, e anche per lei ci sono video di conferma, mentre si aspetta Sud Side Story), Apuzzo, Castellitto (Libero Burro), Colusso (Fine pena mai), Di Francisca (La bruttina stagionata), Manni (Elvjs & Merilijn); in altri casi ancora è soprattutto un film a darmi fiducia: Agosti (La seconda ombra, ma, oltre a Quartiere e a vari video, c’è l’etica della sua molteplice attività extrafilmica), Giuseppe Bertolucci (al cui Troppo sole si aggiungono, a parte film precedenti, video degli anni Novanta come Il pratone del Casilino e In cerca della poesia), Archibugi (Il grande cocomero, in attesa di Domani), Del Monte (La ballata del lavavetri, che spero confermato da Controvento), Piccioni (Fuori dal mondo, che mi fa ricredere su un autore che, dopo il piacevole Il grande Blek, mi aveva così irritato con le carinerie di Chiedi la luna da convincermi a non vedere Condannato a nozze e Cuori al verde), Soldini (che sembra aver cambiato pelle con Le acrobate e soprattutto con Pane e tulipani).
Il pubblico non ha sempre ragione. La massima contraria di Adolph Zukor, che poteva avere un suo significato nell’epoca d’oro di Hollywood, oggi da noi non ha alcun senso, se non ipocrita. Il pubblico è drogato: dalla propaganda cinematografica e televisiva americana, o all’americana, che rende davvero l’opera un intervallo tra due pubblicità (o, come nel multiplex romano Warner Village, un intervallo – sia pure comodo – anche tra fast food, pop corn, trailer e rock a volume assordante, che il film del giorno, finalmente proiettato dopo tante imposizioni, non fa spesso che mimare). Alla mercè della dittatura mediatica, il pubblico di massa sembra felice di venire drogato e non vuole (non può più?) rendersi conto che lo si rincretinisce per ridurlo a bestia da mercato, dove lo si vende inducendolo a comprare. Non vedo perché ci si debba sentire minorizzati se si proclama che l’uomo deve tendere sempre a diventare più di ciò che le condizioni circostanti lo limitano ad essere, e che l’arte, in questo caso il cinema, è uno degli strumenti che egli ha inventato proprio per questo fine di liberazione e di riscatto.
Per gli sperimentatori, ma anche per molti narratori, il pubblico sono piuttosto gli spettatori, individui non supini alle logiche di massa, ai quali ci si rivolge da pari a pari, dialogicamente. Ciò corrisponde anche a una trasformazione produttiva e distributiva del cinema e della televisione verso forme meno generaliste e più diversificate, secondo modelli che l’industria discografica ha già sperimentato e che la digitalizzazione sollecita. Lo “sguardo morale” che ritrovo in quasi tutti gli autori citati è un segno di rispetto verso se stessi, verso ciò che si filma e verso coloro ai quali si vuole parlare; e se lo virgoletto è perché ne constato la emarginazione in un universo mediatico che si oppone con violenza alle forme individualizzate della comunicazione. Bisogna rivendicare con orgoglio questo margine di sopravvivenza dell’espressione artistica, e semmai lottare per ampliarlo senza compromessi umilianti.
La critica non fa certo il suo dovere. Suddivisa fra propaganda giornalistica, arida speculazione accademica e compiacimenti cinefili, raramente si pone domande sulla funzione dell’arte oggetto del suo interesse, e ancora più raramente ambisce alla qualità di una autentica scrittura saggistica. La critica storico-filologica ha valore se getta le fondamenta di una riflessione di più alto profilo, ma è questa fase successiva a mancare: al di là dell’amore per il cinema, che è essenziale se sa distinguere, al di là dello studio teorico, che dovrebbe cogliere il valore filosofico dell’opera d’arte, al di là della cronaca periodica, che dovrebbe ritrovare il senso della militanza, fare critica è fare riverberare l’opera nel mondo, aiutare chi è in ascolto a intenderne il senso profondo e spesso celato, o disturbato da rumori di fondo, condurre l’una e l’altro al loro destino di rinascita. Un film vale se è un contributo alla crescita culturale, al di là del cinema: se ci dice qualcosa su ciò che siamo, su ciò che è il mondo, non solo qui e ora; se ci aiuta ad abitarlo e a conoscerci.
Gli autori sono molto più avanti dei critici in questa ricerca. Dialogare con loro è più produttivo che scambiarsi opinioni fra colleghi. Sopravvivono a condizioni ostili con ammirevole perseveranza, guidati da scelte di vita più forti delle contingenze pratiche, ironicamente alteri e severamente aerei. Se esagero è perché vorrei che si sentissero un po’ meno soli.
La commedia è diventata il genere malefico del cinema italiano. È sempre stata un po’, nelle varie epoche, il sicuro rifugio da ricerche dissidenti, anche se retrospettivamente meno improduttivo di oggi (“telefoni bianchi” vs esperimenti di realismo; farsa vs Neorealismo o neoesistenzialismo rosselliniano, antonioniano o felliniano; commedia all’italiana vs Nouvelle vague…). Dagli anni Ottanta sembra l’unico modo nostrano per conciliare industria, pubblico e critica, vieppiù confortati dalla morte di Troisi o dall’Oscar di Benigni (attori che, diretti da altri, si dimostrano assai superiori alle loro velleità di registi). A dimostrare la produttività variegata dei “marginali” c’è anche il modo divergente di fare commedie, fuori dalle tentazioni di un naturalismo mimetico, sopra le righe e dentro l’inconscio, che ha rari precedenti nella nostra tradizione di genere: Troppo sole, Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, Libera e I buchi neri, Figli di Annibale, Caro diario e Aprile, Non chiamarmi Omar, Tano da morire, Rose e pistole, Zitti e Mosca e Ritorno a casa Gori, Libero Burro, La bruttina stagionata, Pane e tulipani. Riso e sorriso non sono sempre segno di gioia, si nasconde o si disvela una commedia nera fra questi titoli, ma quasi mai viene meno la vitalità.
Lavorare ai margini non vuole più dire, specie negli anni recenti, incupirsi ripiegandosi su se stessi e sulle proprie ossessioni. Il piacere sperimentale della distruzione sta lasciando il posto alla costruzione. C’è una dimensione positiva della vita che si afferma al di là dell’isolamento, e che non si concilia tuttavia con l’esistente. Ce lo dicono Agosti con i matti della Seconda ombra, Andreassi con i pittori freak dei Lupi dentro, Baldi con i sopravvissuti del Temporale, Paolo Benvenuti con i briganti e le streghe di Tiburzi e Gostanza da Libbiano, Capuano con i suoi “diversi”, De Bernardi con il suo allegro Carro di Tespi, la De Lillo con la vittoria dei suoi malati, Ferreri con i suoi viziosi, Gaudino con i suoi terremotati, Piavoli con i suoi danzatori di campagna, Tavarelli con i suoi ostinati innamorati, Amelio con i suoi immigrati, la Archibugi con i suoi medici non conciliati, Bechis con i suoi resistenti, Calopresti con gli angeli del suo teorema, la Infascelli con le sue figlie ribelli, Placido con la sua maestra comunista… C’è anche una dimensione spirituale, quando non religiosa, latente o patente in Confortorio, Piccoli orrori e Appassionate, Pianese Nunzio 14 anni a maggio, Questo è il giardino, Voci nel tempo, Quam mirabilis e Padre Pio da Pietralcina, La ballata del lavavetri, Fuori dal mondo, e in Ciprì e Maresco. E c’è per converso una attenzione (una tensione) al corpo, che avvolge la persona indivisa, in Gostanza da Libbiano, Guardami, Diario di un vizio, L’odore della notte, L’amore molesto, Il corpo dell’anima e, chissà, forse anche nei troppo energici personaggi di Marco Risi.
Operando una selezione prioritaria di tipo estetico (i bei film, e i loro autori, contro i brutti film), e partendo dal presupposto che è la qualità estetica a dare senso alle opere e a farle durare nel tempo, a lavorare in profondità oltre la superficie, mi tolgo un po’ la possibilità di ampliare il reticolo di assonanze stilistiche che si producono tra film e film, tra autori e autori (o semplici “registi”), guadagnando però quella di evidenziare linee di forza che, guardando troppo altrove, finirebbero per annacquarsi e dissolversi. Il reticolo non individua tendenze e tantomeno scuole (salvo forse, e in parte, quella napoletana) ma solo similitudini probabilmente involontarie, perché resta vero (e non so se è un limite, un sintomo o un vantaggio) che ciascun autore, e ciascun film, fa storia a sé: a causa dell’isolamento culturale e produttivo in cui ci si trova a operare, del venir meno di radici e tradizioni, della necessità di interrompere una ingannevole continuità, elementi che accompagnano un cinema di resistenza e di opposizione; per potere affermare così quel nuovo che sorge da più punti e da più stimoli, bisogno latente e troppo a lungo compresso, figlio indesiderato e colpevolizzato che finalmente si scopre maturo senza essere obbligato a fare gruppo. Il cinema italiano degli anni Novanta, ma anche, in forma meno evidente, più incerta e insicura, quello degli anni precedenti, è un cinema di monadi che vanno a costituire una tappezzeria variegata – un patchwork ha detto giustamente un critico in due libri recenti – la cui qualità sta proprio nella differenza delle proposte.
Al di là delle sintomatiche alternanze di formati, di destinazioni e di generi (35 e 16 mm, pellicola e video, lungo, medio e cortometraggio, cinema, televisione e home video, finzione e documentario); al di là della ricca mappatura geografica e linguistica, che fa risaltare il decentramento rispetto all’eterna Roma, la riscoperta di Torino, di Napoli e del sud, le traversate d’Italia fuori dalle convenzioni del road movie, il radicamento in realtà, paesaggi, linguaggi locali (fino alla necessità dei sottotitoli), preludio concreto a una apertura verso orizzonti più ampi; al di là di queste prove di svincolamento dalle stabili procedure tradizionali, vedo proprio nella diversificazione delle tendenze stilistiche il segno della proposta nuova e della raggiunta maturità del nostro cinema. La macchina da presa è rigorosa, selettiva, ascetica, secondo una tensione estetica e morale che il postmoderno non ha mai potuto smentire, in Antonioni, Paolo Benvenuti, Ciprì e Maresco, Maderna, Rondalli, e in maniera più morbida nei documentari di Gianfranco Rosi e di Rossetto.
Il montaggio rompe l’unità dell’inquadratura e della scena, confonde e mescola, incide e spiazza in Capuano, Corsicato, Ferrario, Gaudino. Documentario e finzione si incrociano produttivamente in Agosti, Andreassi, Baldi, Moretti, Caligari, Pannone. Luci, décor, costumi e attori entrano in tensione, fino all’incandescenza, in Giuseppe Bertolucci, Corsicato, De Bernardi, De Lillo, Staino, Torre, Apuzzo, Alessandro Benvenuti, Castellitto, Di Francisca, Marco Risi; i loro film mettono in crisi la nostra tradizione realistica, che è invece per altri versi rispettata, a riprova del suo forte radicamento culturale, non solo dai “documentaristi di fiction” prima citati, nonché dagli autori di fiction quando, sempre più spesso, sentono il bisogno di confrontarsi con la nonfiction, ma anche da Archibugi, Bechis, Calopresti, Colusso, De Seta, Emmer, Infascelli, Manni, Martone, Piccioni, Piscicelli, Placido, Pozzessere, Segre, Soldini. Il racconto si fa diario, autobiografia, colloquio a tu per tu con lo spettatore in Agosti, Andreassi, De Bernardi, Ferreri, Grossi, Misuraca, Moretti, Piavoli, Tavarelli, Pannone.
Il compilation movie trova con Gianikian-Ricci Lucchi degli inventori di nuove forme; nel fare a loro modo anche un cinema saggistico si ritrovano in compagnia di Andreassi, Ferreri, Misuraca, e di molti autori delle recenti serie tv Alfabeto italiano e Risvegli. Piegano il racconto alle istanze private del politico Baldi, Moretti, Amelio, Archibugi, Bechis, Calopresti, Placido, Pozzessere, Segre. Bellocchio e Bernardo Bertolucci fanno i conti, da opposte esperienze, con i loro percorsi psicoanalitici, mettendo a tacere l’inconscio o tornando a farlo circolare. Nessuno è davvero attratto da quel gusto postmoderno del riciclaggio che domina a quanto pare a Hollywood e altrove, e che tanti critici nostrani vedono come la forma, o la moda, emergente. C’è ancora nel nostro cinema il senso vitale della scoperta. E se i miei tentativi di delineare assonanze non denotassero che una nostalgia degli schieramenti, l’isolamento innegabile in cui operano questi autori potrebbe essere interpretato allora come sintomo di un metodo nuovo di contrapporsi alla globalizzazione.
Il cinema italiano ha bisogno di essere difeso, ma ha bisogno soprattutto di essere elogiato, senza farsi troppo condizionare da insuccessi e incomprensioni, che forse si riveleranno contingenze momentanee. Non è solo sopravvissuto, per l’ostinazione di alcuni, a una crisi strutturale dell’industria che abbiamo vissuto più tardi e peggio che in altri paesi. Sa dire qualcosa di nuovo e in maniera nuova a noi italiani, anche se perlopiù abbiamo ascoltato con disattenzione e sufficienza; avrebbe potuto dire qualcosa anche all’estero, più di quanto non sia avvenuto comunque in alcune occasioni festivaliere meno chiassose. Dobbiamo opporre orgoglio e fiducia all’arrendevolezza e all’autolesionismo che ci circondano, proporre col cinema un discorso più dolce, più caldo, più ambizioso sugli uomini e sul mondo, pensare in positivo anche se minacciati dalle macerie: sapendo dei nostri limiti di individui e perciò sospinti a superarli.