La “nuova normalità” di Erdogan
contro gli oppositori politici turchi

In Turchia le massime organizzazioni per i diritti umani, come l’İnsan Hakları Derneği (İHD), sostengono che i tribunali osservano la regola dell’obbedienza alla presidenza della Repubblica. Questa sembra essere la norma del sistema giudiziario turco vigente nel regime dell’uomo solo al comando. Recentemente, il filantropo turco Osman Kavala, tramite i suoi avvocati, ha diffuso una breve dichiarazione dopo la sentenza di conferma della sua condanna all’ergastolo aggravato. “La decisione della Corte Suprema di confermare la mia condanna in primo grado è il prodotto di un’intesa che non dà alcun valore ai principi giuridici e alla vita umana – ha detto Kavala – Questa decisione è l’indicatore più evidente del fatto che condannare persone senza prove è diventata la norma nel sistema giudiziario”. Il filantropo e attivista per i diritti umani è rinchiuso nel carcere di Silivri, cosiddetto degli intellettuali, dal 16 novembre 2017.

Osman Kavala aveva subito una condanna in primo grado all’ergastolo aggravato in un processo farsa in cui era accusato assieme ad altri 15 esponenti dei diritti umani, tra i quali anche alcuni noti avvocati, di sovversione contro i poteri dello stato e di spionaggio. Il 18 febbraio del 2020 il filantropo turco fu assolto perché scagionato dall’accusa di sovversione, ma non scarcerato perché solo sei ore dopo fu raggiunto da un altro capo di imputazione. La sua assoluzione fu solo apparente, quasi come quella descritta da Kafka nel suo romanzo, Il Processo.

La conferma da parte della Corte d’appello turca della condanna per Kavala e delle condanne pesantissime a 18 anni di reclusione degli intellettuali Can Atalay (parlamentare dell’HEDEP), Tayfun Kahraman (accademico, presidente della Camera degli Urbanisti), Çiğdem Mater (produttrice cinematografica), Mine Özerden (documentarista, ecologista), tutti ritenuti colpevoli di coinvolgimento nelle pacifiche proteste antigovernative di massa di Gezi del 2013, “è la prova del persistente e mostruoso abuso del sistema giudiziario”, ha scritto  Emma Sinclair-Webb di Human Rights Watch su X.

 

I casi Kavala e Demirtaş e la sentenza di scarcerazione della Corte Cedu

Le accuse contro Kavala sono a dir poco surreali e senza alcuna prova. È accusato di aver tentato di rovesciare il governo durante le pacifiche proteste antigovernative di Gezi Park del 2013, diffusesi poi in tutta la Turchia. Il teorema di Erdoğan è che le manifestazioni di Gezi non erano altro che un’operazione criminale per sovvertire l’ordine istituzionale e rovesciare il suo governo e che dunque bisognava punire coloro che le avevano orchestrate e finanziate.

L’assoluzione avrebbe reso questo teorema infondato e indirettamente si sarebbero legittimate quelle proteste antigovernative spontanee, partite dal basso, sganciate dai partiti e da qualsiasi ideologia e a cui presero parte larghi strati, trasversali, della popolazione che si opponevano all’autoritarismo di Erdoğan.

Ankara ora rischia l’espulsione dal Consiglio d’Europa. La Turchia, pur essendone ancora parte, non ha ancora ottemperato alla sentenza di scarcerazione emessa della Corte europea dei diritti umani (Corte Cedu) con la quale si chiedeva in maniera perentoria la liberazione di Osman Kavala e dell’oppositore curdo Selahattin Demirtaş.

Il Consiglio d’Europa nel febbraio del 2022 aveva avviato una procedura di infrazione contro la Turchia per la mancata attuazione della sentenza della Corte Cedu del 2019 che chiedeva in modo perentorio il rilascio del filantropo turco, descrivendo il caso come motivato politicamente e progettato per mettere a tacere la sua voce e quella della società civile del paese. La procedura di infrazione potrebbe portare alla sospensione del diritto di voto della Turchia presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa o la stessa appartenenza a questa importante istituzione.

L’intero processo a cui è stato sottoposto Kavala è un susseguirsi di manovre giudiziarie per tenere in galera il massimo esponente della società civile turca nel totale disprezzo degli standard del processo equo.

Il fatto che uno dei giudici membri della Corte che lo ha condannato fosse stato candidato nel 2018 al Parlamento per il partito di Erdoğan è solo un altro esempio sconcertante di come questo caso sia stato segnato da ingerenze politiche.

“La condanna di Kavala è stata decisa dal palazzo, egli non è stato processato da giudici, né tantomeno da un tribunale, perché questi giudici hanno operato per conto del presidente turco e non in nome della legge e del diritto”, aveva sostenuto l’ex parlamentare del Partito democratico dei popoli (HDP), Garo Paylan.

 

La loro storie

Kavala ha la colpa di essersi ribellato sin da subito alle istituzioni fortemente repressive del paese, ma tuttavia è rimasto all’interno di esse gestendo una serie di imprese e donando molti dei suoi proventi a degne cause. È un ardente campione della riconciliazione turco-armena e ha speso gran parte del suo impegno filantropico per i diritti delle minoranze e per la risoluzione della questione curda. La sua filantropia, infatti, aveva nutrito una vasta gamma di progetti che vanno dai diritti dei curdi, degli alevi e dei cristiani, alla difesa dell’ecologia e dell’ambiente.

Sia Kavala che Demirtaş nel 2015-16 si opposero al progetto di riforma costituzionale che fu poi approvato col referendum dell’aprile del 2017 e che sancì il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo dell’uomo solo al comando. Kavala e Demirtaş avevano capito il grave pericolo in cui stava precipitando il paese, cioè verso una autocrazia. I due oppositori dissero che avrebbero impedito al presidente di operare quella riforma e questo Erdoğan non glielo ha mai perdonato. Si può dire che Kavala sia diventato un capro espiatorio additato come un esempio negativo e che la sua detenzione serva da monito e da intimidazione per chiunque voglia opporsi a Erdoğan e al suo regime.

 

Erdoğan alla conquista dei grandi centri urbani

Intanto anche il sindaco di İzmir, Tunç Soyer, è finito nel mirino del presidente turco che ha così iniziato la corsa alla conquista delle grandi metropoli turche in vista delle elezioni locali del marzo 2024. Il Ministero degli Interni ha aperto una indagine contro il sindaco Soyer per “insulto agli ottomani e al sultano Vahdettin”. Mehmed Vahdettin, noto come Mehmet VI, trentaseiesimo e ultimo sultano dell’Impero ottomano, costretto a scappare a bordo di una nave da guerra britannica subito dopo la soppressione del sultanato, è molto caro al presidente tanto che il 29 ottobre, nelle celebrazioni del centenario della Repubblica, ha salutato la marina turca, composta da cento navi, dal palazzo Vahdettin e non da quello di Dolmabahçe, già residenza di Atatürk, come sarebbe stato più consono.

Secondo il quotidiano kemalista Sözcü, il ministero degli Interni ha nominato due ispettori per indagare sul discorso pronunciato dal sindaco Soyer nel giorno della celebrazione della liberazione di İzmir dall’occupazione greca, avvenuta il 9 settembre 1922. Soyer avrebbe preso di mira lo Stato ottomano e i suoi amministratori, commettendo il reato di “insulto alla memoria del sultano e di incitamento all’odio e all’ostilità”. Gli ispettori stanno esaminando le registrazioni del suo discorso nel quale citava Atatürk dicendo: “Coloro che governarono queste terre furono negligenti, ingannevoli e infidi. Non pensarono mai alle donne, ai bambini o al futuro. Gettarono nel fuoco un’intera nazione solo per proteggere il loro potere. Calpestarono la dignità umana”.

Erdoğan intende completare la sua “rivoluzione silenziosa” per soppiantare i valori fondanti della Repubblica laica con quelli che definisce “locali e nazionali”, “turchi e islamici”, per completare il percorso di creazione della “Nuova Turchia”, come ama definirlo e per questo ha necessità di riconquistare i grandi centri urbani a partire dalle tre maggiori metropoli come Istanbul, capitale culturale ed economica, cuore dell’Islam politico, la capitale Ankara e la perla dell’Egeo, la laica İzmir, la città più europea della Turchia. Istanbul e Ankara dal 2019 sono amministrate dal maggior partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp) fondato dal padre della patria.

 

La detenzione di Can Atalay e lo scontro nella Magistratura 

In questi giorni abbiamo assistito a uno scontro all’interno della Magistratura turca iniziato con l’anello più debole delle istituzioni del paese, quello della Corte costituzionale. Le crepe si stanno allargando ed emerge una faida all’interno dell’amministrazione turca e del partito del presidente, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp); uno scontro tra chi vuole una Corte costituzionale eterodiretta dalla presidenza della Repubblica e chi invece ne difende la sua indipendenza.

Lo stato di diritto in Turchia ha recentemente subito un altro durissimo colpo, senza precedenti. Il mese scorso la Corte di Cassazione non ha riconosciuto la sentenza della Corte Costituzionale che aveva stabilito che la detenzione continuata del deputato Can Atalay, eletto al parlamento a maggio, costituisce una violazione dei suoi diritti.

La Cassazione non solo ha ordinato ai tribunali inferiori di non rispettare la sentenza, ma ha anche presentato denunce penali contro nove suoi membri. Si è giunti dunque al punto più basso nello stato di diritto: le sentenze della Corte costituzionale non gradite al potere sono rigettate da tribunali inferiori.

Erdoğan ripete ad ogni occasione la sua intenzione di riscrivere una nuova Costituzione per superare la repubblica laica di Atatürk. Qui potrebbe scomparire il riferimento alla Cedu, riferimento questo che era stato inserito con l’articolo 90 sulla spinta dell’agenda europeista di fine anni ’90 e inizio 2000, come sappiamo agenda definitivamente abbandonata dal 2016. Funzionari dell’Akp parlano di costituire un sistema giudiziario locale, con una magistratura nazionale contro gli innesti “occidentalisti” e contro la presunta “concezione neoliberista della magistratura”.

 

L’opposizione divisa e l’arresto di İmamoğlu

L’opposizione turca si ribella alla distruzione dello stato di diritto in Turchia, ma è divisa. Ancora sotto shock per la sconfitta elettorale subita, lacerata dalle lotte di potere al suo interno, non riesce a trovare punti di coesione necessari per ricostituire un’ampia alleanza da contrapporre a quella di Erdoğan prima delle cruciali elezioni locali del marzo 2024.

Il partito d’opposizione conservatore, l’İYİ Parti (Il Partito Buono) di Meral Akşener, si rifiuta di ricostituire l’alleanza elettorale con la principale forza d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) e intende presentare propri candidati alle prossime elezioni locali del 2024 e lo stesso intende fare la terza maggiore formazione d’opposizione, il filocurdo Partito della Democrazia e dell’Uguaglianza dei popoli (HEDEP). Se non vi sarà alcun ripensamento sulla decisione di correre individualmente nelle elezioni municipali della primavera del 2024, le forze politiche d’opposizione rischiano, quasi certamente, di andare incontro ad una sonora sconfitta e di riconsegnare tutti i maggiori centri urbani del paese, conquistati nel 2019, all’Akp di Erdoğan.

Intanto il leader turco ara il terreno cercando di eliminare dalla competizione elettorale i concorrenti più pericolosi. Il presidente ha spesso usato l’arma giudiziaria per liberarsi dei suoi avversari più insidiosi, lo ha fatto con il leader curdo Demirtaş e con l’attuale sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, accreditato nei sondaggi di percentuali largamente superiori a quelle del presidente e impossibilitato a candidarsi nelle elezione presidenziali tenutesi nel maggio scorso perché condannato in primo grado a 2 anni e 7 mesi di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per tutta la durata della pena per sospetto insulto ai giudici del Consiglio supremo elettorale (YSK). İmamoğlu è anche accusato di aver assunto 1.668 persone sospettate di essere affiliate a ben otto diverse organizzazioni terroristiche, tra queste, il partito autonomista curdo Pkk e altri gruppi estremisti non meglio specificati.

Il presidente è convinto di avere una missione storica: imporre una “nuova ideologia ufficiale”. Secondo questa ideologia, il processo di modernizzazione e di secolarizzazione operato negli ultimi duecento anni (con l’eccezione dell’epoca di Abdülhamid II) non è stato altro che un tradimento storico contro l’identità musulmana della nazione e per questo intende scrivere una nuova Costituzione per “correggere i mali della storia’’ e archiviare per sempre la Repubblica laica di Atatürk.

L’attuale criminalizzazione di tutte le opposizioni, accusate di minare la sicurezza nazionale, non è solo dunque una strategia elettorale mirante a rafforzare il potere di Erdoğan, ma costituisce la pietra angolare di questa nuova ideologia ufficiale. Dal momento che “l’interesse nazionale” è definito sulla falsariga di una “missione storica”, semplicemente non può esserci spazio per l’opposizione politica. Questa è la “nuova normalità” in Turchia a cento anni dalla sua fondazione.

 

Foto di copertina: da sinistra verso destra gli ex prigionieri politici Deniz Yücel, Zehra Dogan, Can Dündar, Asli Erdogan e Peter Steudtner chiedono il rilascio di altri attivisti dei diritti umani ritratti sui poster. Tra questi anche Osman Kavala. Sono state invece annullate le condanne ad altri tre attivisti qui ritratti: Hakan Altınay, Yiğit Ali Ekmekçi e Mücella Yapıcı. Foto di Annette Riedl/dpa Picture-Alliance via Afp.

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