Mentre il livello delle violenze del conflitto tra Israele e Hamas si intensifica e i suoi effetti si misurano sulla portata delle violazioni del diritto internazionale umanitario e penale, è di vitale importanza mantenere la capacità intellettuale di fare un passo indietro rispetto agli orrori dell’attuale confronto e riflettere su due fondamenti che devono definire qualsiasi conversazione su qualsiasi tipo di accordo nel lungo periodo. Uno è il diritto di Israele di esistere all’interno di confini sicuri secondo il diritto internazionale; l’altro è l’altrettanto sacrosanto diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. La recente richiesta di un parere consultivo da parte della Corte internazionale di giustizia sui Territori palestinesi occupati (TPO) contribuirà certamente a fare luce sulle implicazioni di questi parametri.
Ma per quanto ovvie, sia dal punto di vista legale che politico, queste idee riflettono anche delle realtà più ampie, spesso trascurate nel dibattito politico di breve termine.
In primo luogo, è un dato di fatto che il prolungato conflitto israelo-palestinese coinvolge uno Stato consolidato – Israele – contro un’entità, il “popolo palestinese”, che ha il diritto di diventare uno Stato in nome della liberazione nazionale. Il conflitto riguarda – e ha sempre riguardato – gli Stati e la creazione di nuovi Stati. Si tratta di una notevole e tragica riaffermazione della necessità di una statualità più forte e più stabile come elemento costitutivo dell’ordine mondiale, non di un appello al suo smantellamento. È una riaffermazione del bisogno di confini ragionevolmente radicati e di patrie rispettate, non un appello alla loro distruzione. Il Piano di spartizione dell’ONU del 1947 è stato costruito senza riserve attorno al riconoscimento di uno Stato “arabo” e di uno Stato “ebraico”, che vivessero fianco a fianco e in pace l’uno con l’altro. Qualunque cosa si pensi di quel piano (quasi immediatamente respinto dalla Lega Araba e da altri leader arabi per motivi di unità araba), la prospettiva di una “soluzione a due Stati” innescata dagli accordi di Oslo del 1993 era (ed è tuttora) intrisa dell’idea del 1947 di uno Stato che porta con sé un senso distintivo di identità nazionale, al di là delle istituzioni puramente politiche. La logica di fondo del Piano del 1947 derivava dagli accordi “nazionali” del dopoguerra raggiunti a Versailles nel 1919, compreso il rispetto dei diritti delle minoranze all’interno degli Stati di nuova costituzione. In breve, il caso israelo-palestinese coinvolge la statualità e l’integrità territoriale e ci costringe a riflettere sulla dimensione “nazionale” di tale statualità. Paradossalmente, il caso sfida le richieste di un ordine giuridico e politico “post-nazionale”, in un momento in cui, ironia della sorte, si dice che le visioni di un tale ordine stiano vincendo.
In secondo luogo, è un dato di fatto che il movimento palestinese sia profondamente diviso e che l’identificazione di un chiaro nucleo politico e pratico a sostegno dell’autodeterminazione palestinese rimanga altamente problematica. È altrettanto chiaro, però, che i palestinesi hanno il diritto all’autodeterminazione secondo il diritto internazionale e che questo diritto significa innanzitutto porre fine all’occupazione israeliana. In che modo dovremmo procedere? Gli indicibili attacchi deliberati e su larga scala di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre non sono nient’altro che un crimine contro l’umanità. È una scomoda verità che gli attacchi, influenzati in non poca parte dal fondamentalismo religioso, si sono aggiunti a una strategia complessiva volta a distruggere la controparte, a distruggere lo Stato di Israele, non a costringere quest’ultimo a tornare al tavolo dei negoziati. È una regola fondamentale del diritto internazionale che nessun diritto può essere esercitato annientando il diritto della controparte, anche se entrambe le parti possono dover accettare ragionevoli limitazioni ai propri diritti individuali per effetto di un accordo negoziale. Gli attacchi criminali di Hamas non sono solo inutili dal punto di vista militare, non avendo alcuna possibilità di cancellare Israele dalle mappe geografiche, ma sono anche inutili dal punto di vista dell’autodeterminazione palestinese, intesa come processo politico ed istituzionale.
In terzo luogo, è un dato di fatto che il diritto all’autodeterminazione esterna non è una richiesta di un sistema politico specifico, a condizione che le regole minime del diritto internazionale siano rispettate dal detentore del diritto. Nel 1947, la soluzione dei due Stati prevedeva inequivocabilmente la creazione di due Stati democratici, ciascuno con una costituzione democratica. Sebbene il processo di Oslo abbia impegnato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (a differenza di Hamas) a garantire una forma di ordine democratico in un futuro Stato palestinese universalmente sostenuto e abbia riconosciuto il diritto di Israele a esistere all’interno di confini sicuri, è certamente vero che Israele non può subordinare l’autodeterminazione palestinese a uno stato finale degli OPT definito o manipolato unilateralmente. Storicamente, il processo di decolonizzazione non ha mai subordinato l’indipendenza (o altri status) al consenso del colonizzatore o alla natura democratica dell’unità di autodeterminazione, anche se ciò ha spesso significato che il giogo straniero è stato sostituito da dittature o da un controllo autoritario. Isaiah Berlin ha detto bene quando ha osservato che “tutte le oppressioni sono odiose, ma essere comandato da un uomo della mia stessa comunità o nazione, o classe o cultura o religione, mi umilia meno che se fosse fatto da estranei”. L’obiettivo e la legittimità dell’autodeterminazione esterna – della liberazione dal dominio straniero nella legge o nella pratica – devono venire prima che qualsiasi cosa che assomigli a una democrazia di tipo occidentale (o addirittura di qualsiasi tipo) sia presa in considerazione o concepibile dagli stessi palestinesi. Ciò può essere inferiore al nazionalismo democratico e liberale che era alla base del Piano di spartizione del 1947, ma è pienamente coerente con la prassi successiva che non ha permesso che la liberazione fosse sospesa a tempo indeterminato.
Mentre la spirale di violenza continua, con Hamas che tiene ancora prigionieri più di 200 israeliani e il governo israeliano che viene criticato duramente per i suoi prolungati attacchi aerei a Gaza, per lo sfollamento di civili palestinesi, per la violenza dei coloni e per l’ulteriore alienazione della società palestinese in un contesto geopolitico già instabile, qualsiasi discorso su un possibile ripristino del processo di pace appare decisamente fuori dall’agenda. Tuttavia, quando quest’ultimo ciclo di violenza sarà terminato, sarà responsabilità dei leader globali e delle istituzioni internazionali lavorare non solo per ottenere la responsabilità penale per le atrocità attuali, ovunque siano state commesse, ma anche per promuovere un senso di realismo politico e istituzionale – un senso della storia – nel modo in cui si inquadra il conflitto, si offre sostegno e si cercano soluzioni.
Immagine di copertina: il presidente americano Bill Clinton in piedi tra il leader dell’Organizzazione per la liberazione palestinese Yasser Arafat and l’allora primo ministro israeliano Yitzahk Rabin, in una foto storica, con la prima stretta di mano tra i due. 13 settembre 1993. (Foto di J. DAVID AKE / AFP).