Urne aperte in Tunisia per l’elezione dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, cioè quella che, in virtù delle ultime modifiche costituzionali, è diventata la Camera bassa del Parlamento tunisino. Questo sarà il primo voto da quando la nuova Carta è stata adottata mediante referendum lo scorso 25 luglio e, a settembre, il sistema elettorale ha subito un profondo rimaneggiamento.
Il Parlamento uscito dalle urne dell’ottobre 2019 – allora ancora monocamerale – non ha potuto completare il proprio ciclo quinquennale: dapprima è stato ‘congelato’ nelle sue funzioni nel luglio 2021, poi è stato definitivamente sciolto nel marzo di quest’anno dall’attuale presidente della Repubblica Kais Saied. Quanto alla Camera alta, denominata Assemblea nazionale delle Regioni e dei distretti, essa sarà nominata in modo indiretto – cioè dai consigli regionali eletti – successivamente. Non è ancora dato sapere quando.
La data individuata dalla presidenza per il voto legislativo è altamente simbolica, da dodici anni a questa parte: proprio il 17 dicembre del 2010 ha avuto inizio la rivoluzione popolare che ha condotto alla destituzione del presidente-dittatore Zine el-Abidine Ben Ali appena quattro settimane dopo.
Ma quale cambiamento rivoluzionario potrebbe scaturire da queste elezioni, nelle intenzioni del nuovo inquilino del palazzo di Cartagine?
Fin dagli albori della campagna elettorale dell’estate 2019, il ‘Savonarola’ tunisino ha dichiarato guerra ai partiti, denunciandone corruzione, incompetenza e ignavia. Cavalli di battaglia che gli hanno assicurato il sostegno di un’ampia e trasversale fascia della società, fra cui pure i più giovani, esasperati dalla mancanza di prospettive per il futuro.
Nel primo biennio di mandato, tuttavia, Saied non sembra essere riuscito nell’intento di raddrizzare né la politica né l’economia del Paese: più che protagonista di una rivoluzione etica con riflessi socio-economici, il presidente rischia di essere l’artefice di una involuzione totalitaria. O peggio ancora di un’esplosione di violenza.
Ecco alcune modifiche introdotte alla legge elettorale del 2014 che avranno conseguenze determinanti sull’assetto dell’Assemblea dei rappresentanti (che saranno 161 e non più 217, di cui 151 eletti nelle circoscrizioni nazionali e dieci nei territori fuori dal Paese): nelle liste, è stata eliminata l’alternanza obbligatoria fra candidati uomini e donne; inoltre, non vi sono più quote fisse di candidati under 35 anni né di persone disabili.
Il primo risultato è un pugno allo stomaco per i difensori della parità di genere: a fronte di un rapporto iniziale fra donne e uomini ‘iscritti’ alle elezioni di 1 a 9, la commissione elettorale ha poi avallato circa 16 donne ogni 100 candidati. Un crollo verticale se si pensa che proprio l’alternanza obbligatoria fra uomini e donne nelle liste dei candidati produsse, alle elezioni municipali dell’agosto 2018, il 47 per cento di rappresentanti donne.
Il sistema elettorale con cui i tunisini andranno a votare ora sarà uninominale, con due turni in caso di mancato raggiungimento della maggioranza assoluta al primo turno. Niente più proporzionale, responsabile di una polverizzazione politica morbosa: tre anni fa, i candidati alle elezioni legislative erano più di 15mila, presentati da liste civiche, una trentina di partiti, qualche migliaio di indipendenti. Ne scaturì un’Assemblea paralizzata dalle divisioni, specchio di una ventina di sigle politiche in rissa fra di loro.
Ed è proprio per questo che ai candidati non è stato permesso di correre per un partito, ma solo di presentarsi in modo indipendente (anche se ovviamente, per quanto riguarda i nomi già conosciuti al grande pubblico, l’appartenenza politica è cosa risaputa). L’obbligo di presentare almeno 400 firme di cittadini aventi diritto al voto per potersi candidare ha creato non poche difficoltà agli aspiranti deputati meno abbienti, più giovani, magari anche alle prime armi in politica.
Vige il divieto più totale di rilasciare interviste ai media stranieri, che sono quelli con maggiore audience e seguito in Tunisia come in altri Paesi nordafricani. Basti pensare alla qatarina al-Jazeera o all’emiratina al-Arabia, per quanto concerne le emittenti televisive, e al saudita edito a Londra Shark El-Awsat o al turco al-Hurriyet, per citare giusto una manciata di siti web, al pari delle radio, molto seguiti.
Fra le conseguenze di questo nuovo ‘approccio’ alla politica voluto dal presidente Saied, a ottobre, al momento di raccogliere le candidature, si è faticato a tal punto che il periodo in cui registrare il proprio nome è stato allungato di alcuni giorni. E di fatto, nonostante ciò, alcune circoscrizioni sono rimaste ‘scoperte’: in sette su dieci, all’estero, il voto non si terrà per mancanza di candidati. In altre dieci, in patria, ci sarà un solo candidato.
Ma torniamo indietro al grande e unico protagonista della scena istituzionale tunisina del momento: il presidente Kais Saied, ex professore universitario di diritto costituzionale in pensione. Dall’estate del 2021 in poi, il raìs ha progressivamente concentrato in sé tutti i poteri dello Stato, ‘svuotando’ gli organi suoi competitor di prerogative loro attribuite dalla Costituzione.
Licenziato il Governo di Hicham Mechichi – con il sostegno dei servizi segreti egiziani, secondo ricostruzioni giornalistiche né confermate né completamente smentite – dopo essere già entrato in rotta di collisione con il precedente primo ministro Elyes Fakhfakh, Saied si è mosso lungo due binari paralleli. Quello della lotta senza quartiere contro i partiti, in particolare quelli che nel dopo Primavera tunisina hanno guidato il Paese, attraverso indagini su corruzione e riciclaggio di denaro sporco che sono ancora in corso e hanno provocato la fuga all’estero di esponenti di spicco dell’élite politica ed economica. E quello per assicurare a se stesso o a chi verrà in futuro un sistema presidenziale blindato.
Così, mentre in modo unilaterale il presidente proponeva una riforma di legge elettorale da lui stesso elaborata, i vertici del partito islamista Ennahda venivano messi sotto accusa per l’amicizia scomoda con i cugini islamisti del Qatar. Cugini ricchi e influenti, che amano sostenere la causa della Fratellanza musulmana nel mondo arabo.
Ma l’accanimento di Saied non risparmia nessuno: se gli islamisti di Ennahda e i liberali di Nidaa Tounès scontano – anche di fronte all’opinione pubblica – di non aver saputo governare il Paese e di aver anteposto l’interesse personale a quello della nazione, i nostalgici dell’ancien régime (il Partito Desturiano Libero di Abir Moussi) sono presi di mira per le loro simpatie manifeste per le oligarchie industriali.
E Qalb Tounès, fondato dal tycoon Nabil Karoui e solo parzialmente coinvolto nelle responsabilità di governo, è accusato di aver fatto propaganda diffondendo notizie false sui social e in rete. Cioè lo strumento privilegiato di una forza politica di matrice populista che proprio grazie al web ha costruito il consenso.
I principali partiti tunisini, sia coloro che nel precedente parlamento erano in maggioranza sia le opposizioni di sinistra, hanno al momento in comune solo l’appello a boicottare il voto, già lanciato in occasione del referendum sul make-up costituzionale e rivelatosi inutile, visto che non era previsto un quorum.
Sabato scorso, 10 dicembre, centinaia di tunisini sono scesi nelle strade della capitale per rivendicare i diritti delle donne, tema cui la società tunisina è particolarmente sensibile e sempre in allerta.
La cronica assenza della Corte costituzionale è un altro motivo di forte tensione fra la presidenza – che pure conserva un sostegno diffuso da parte di chi teme il dilagare dell’islamismo – e i suoi avversari: in tre anni di mandato, proprio il costituzionalista Saied non si è adoperato per favorirne la formazione. D’altronde, una volta operativa proprio la Corte potrebbe arginare l’azione del presidente.
Ma è sul contesto economico che il palazzo di Cartagine rischia la (non) sopravvivenza. Troppo serie la svalutazione del dinaro (attualmente 1 dinaro tunisino vale 0,30 euro), l’inflazione (la media anno su anno è oltre il 9 per cento, ma quella degli alimentari ha punte del 27-30 per cento), la disoccupazione (al 18 per cento quella media, oltre il 40 per cento fra i giovani), la migrazione verso l’Europa (verso l’Italia, ha superato i 17.500 sbarchi nell’arco del 2022).
Per Saied, in visita ufficiale a Washington in occasione del summit Usa-Africa, la situazione potrebbe peggiorare rapidamente, non avendo sponde europee e americane di supporto: proprio alla vigilia del voto, il Fondo monetario internazionale ha annunciato che il prestito da 1,9 miliardi di dollari richiesto da Tunisi non è neanche inserito nell’agenda degli argomenti da trattare nella sessione del 14-22 dicembre.
Qualsiasi Assemblea uscirà dalle urne, e il conseguente esecutivo, rapidità d’intervento ed efficacia delle prime misure finanziarie saranno indispensabili per garantire la stabilità di una democrazia oggi più che mai fragile e sfiduciata.
Foto di copertina: Un ritratto di Kais Saied dopo la vittoria alle elezioni del 13 ottobre 2019, di Fethi Belaid/AFP.