Guerra senza apparente fine/vie d’uscita, e relative atrocità; prezzi alle stelle; gas razionato; siccità dei fiumi ed acqua razionata; virus dello scorso biennio sempre tra noi, e altri nuovi autoinvitatisi. Ma per non farci mancare nulla, anche madri che uccidono figli, uomini che uccidono compagne presenti o passate, squilibrati che compiono massacri fai da te in scuole o supermercati. Per completare il menù delle dieci piaghe ci mancherebbe solo l’invasione delle cavallette – e invece no, ci ricorda strappandoci un sorriso amaro Francesco Costa: ecco servita anche questa, proprio dietro casa. Se quella del primo semestre del 2022 che sta per chiudersi fosse la sceneggiatura di un film, gareggerebbe agevolmente con altri gloriosi successi made in Usa per fantasia e varietà delle calamità.
Non è così, purtroppo. Tutto drammaticamente vero. Dunque, che fare? Leggere, ascoltare, capire, ragionare – ci direbbe il nostro solido manualetto illuminista di bravi cittadini moderni, sempre a disposizione e sempre più impolverato. Conoscere per deliberare, sempre e comunque: sul come adattare le nostre scelte individuali – di vita, di trasporto, di risparmio, di consumi – e collettive – chi e cosa votare, come ripensare la città, il Paese, l’Europa, su che temi mobilitarsi dal basso, etc. Tutto bello, tutto giusto. Se non fosse che la tendenza che emerge, sotto il macigno delle catastrofi incrociate, è di tutt’altro segno. «Comincia qui la mia sfida. Su consiglio di mio marito che vive disconnesso ormai da anni, ho deciso di non sentire notizie per almeno due settimane, o almeno di non andarmele a cercare», scrive sui social una conoscente, spinta all’extrema ratio da episodi di panico attribuiti alle troppe notizie negative. «Per me è impensabile non informarmi – chiosa – Ma ne ho davvero così tanto bisogno? E se si qual è il prezzo da pagare?».
Non è l’unica a farsi queste domande, e a darsi una simile risposta. Se c’è un trend chiaramente emergente a livello globale nel consumo di news, ci dice il rapporto annuale del Reuters Institute appena pubblicato, è proprio quello – paradossalmente – del non-consumo. Dell’astinenza. Il fenomeno non è una novità della stagione della “tempesta perfetta”, va crescendo da alcuni anni sotto la spinta di diversi fattori, ma ha fatto un evidente ulteriore balzo nell’ultimo biennio, imponendosi, ancor prima dello scoppio della guerra (la “fotografia” dell’opinione pubblica mondiale è stata scattata quest’inverno), come un fattore con cui fare i conti. Alla domanda sulla fonte preferenziale da cui si attingono le notizie sul mondo circostante – radio o tv, giornali di carta o online, social media – la percentuale di chi risponde “nessuna” è cresciuta negli Usa dal 4% nel 2017 al 15% oggi. La stessa percentuale si trova in Giappone. Nel Regno Unito s’attesta al 9%, in Francia e Australia all’8%. Sono gli “sconnessi” (disconnected users), chi ha scelto – per sfiducia, per paura, per indifferenza o un mix delle precedenti – di non informarsi più. Una minoranza di blocco che “sa di non sapere” perché vuole non sapere nel cuore delle democrazie occidentali.
Il trend è tanto più significativo perché s’inserisce – evidenzia ancora la miniera di dati del rapporto Reuters – in un ecosistema di interesse e fiducia nei media più generalmente in deciso calo. Proprio nell’era del boom dell’informazione – disponibile h24 in qualsiasi lingua, forma e strumento – la percentuale di persone che si dicono “molto o estremamente interessate” alle notizie è calata negli ultimi 5-7 anni praticamente in tutto il mondo. Negli Usa e nel Regno Unito, di nuovo alla guida della classifica, s’attesta ormai sotto alla metà: 47 e 43% rispettivamente. Dove l’interesse “regge” al tracollo, come in Germania e Paesi Bassi, non si va più su del 55-57%.
Oltre agli “sconnessi” radicali di cui sopra, c’è poi quella vasta area di cittadini che praticano quella che i ricercatori inglesi definiscono la selective news avoidance: sono coloro che evitano appositamente “a volte o spesso” di informarsi. Una dieta informativa ridotta al minimo o irregolare, dunque. Quadro mondiale: questa fascia è cresciuta in cinque anni dal 29% al 38%. Con punte impressionanti: in Brasile, sostiene di comportarsi così il 54% dei cittadini; nel Regno Unito il 46% (in entrambi i Paesi tre anni fa la quota non superava il 35% – che c’entri lo zampino del mood populista al timone?); ancora negli Usa il 42%. Sono selective news avoiders oltre un terzo di italiani, francesi e spagnoli. Da dove deriva una tale scelta? Le ragioni sono varie, ma hanno per lo più a che fare – si potrebbe dire – con l’intollerabilità della realtà, o per lo meno di quella percepita. Il 43% dei news avoiders taglia il flusso di notizie perché esasperato dalla ripetitività dei temi trattati – politica e Covid-19 in primis (logico pensare a guerra e inflazione nella “proiezione virtuale” sui mesi seguenti). Il 36% perché le notizie hanno un impatto negativo sul loro umore, e il 29% perché si sentono sopraffatti da esse. Non manca (29%) chi motiva il comportamento spiegando di non fidarsi delle notizie che legge. Il 16% infine preferisce evitare quel senso di impotenza dato da notizie, ancora una volta, “fuori controllo”.
Dati impressionanti – potenzialmente per difetto, vale la pena ribadire, se si considera che precedono guerra e calamità varie connesse – e che gettano una luce nuova sul malessere delle nostre società, e delle democrazie in particolare. Che cittadini, e che elettori, possono essere quelli che di fronte alle crisi multiple e all’iper-informazione scelgono di “proteggersi” chiudendo gli occhi e tappando le orecchie? La risposta transitoria, conseguente e parallela, sta nelle urne sempre più vuote di tutte le democrazie. Quella di lungo periodo è assai più ostica e incerta. Ma è la sfida che istituzioni, politica e media hanno di fronte.
Foto: Daniel Leal / AFP.
I Paesi come l Italia e la Grecia, che sono finti essere gestiti, ma in realtà sono imbrogliati dai rapinatori delle risorse dello stato, saranno stritolati dagli eventi mondiali.
Mancano in Italia le capacità di gestione pubbl. eccellente !
Ulrico Reali
I dati dell’articolo sono indiscutibili. Forse sono invece le cause che indica come fonte dell’indisponibilità all’informazione che trascurano qualche altra motivazione reale. Come, ad esempio, la continua cronaca di avvenimenti continuamente ripetitivi che danno la sensazione di uno stallo senza via d’uscita. I media per motivi di ascolto e i governi per necessità di audience perennemente da rassicurare creano un clima di superficiale irresponsabilità che si sposa alla contraddittorietà della lettura delle informazioni a seconda del pubblico cui ci si riferisce. Non a caso emergono dalla confusione partiti di destra – che spesso sfiorano l’ antidemocraticità – che danno peso a questa sensazione d’ impotenza.