Autocritiche dagli Usa
Dov’è finito il radicalismo americano? Nel giorno dell’Indipendenza, Umair Haque, sull’Harvard Business Review, incitava l’America a recuperare il radicalismo che ne aveva caratterizzato gli albori. Nella vita di tutti i giorni come in politica, dalla destra come dalla sinistra, non arrivano mai proposte diverse dalla restaurazione del passato, dal ritorno allo status quo: “In altre parole, siamo incrementalisti. Magari onoriamo ciò che è radicale, ma ci circondiamo di cose banali, insignificanti, monotone e noiose”. È un invito a coltivare idee nuove, con manifesto annesso che si chiude prendendo in prestito le parole di Johnny Rotten, cantante del gruppo punk Sex Pistols: “Don’t accept the old order. Get rid of it”.
Nello stesso giorno un altro rimprovero all’America arrivava dall’editoriale del New York Times. Le crisi economiche sarebbero il risultato della rottura dell’originario equilibrio tra individualismo radicale e bene comune, suggerito dai padri fondatori: nascono quando si appesantisce il piatto della bilancia contenente l’individualismo e si superano attraverso la sua disapprovazione e il richiamo ai valori del vivere in comunità. La novità, secondo l’autore dell’op-ed Kurt Andersen, è che questa crisi vede la sua nascita nella fine degli anni sessanta, nel richiamo degli hippy alle libertà personali quanto in quello alle libertà del mercato fatto dai capitalisti. Gli anni ottanta e novanta hanno segnato quella che Andersen chiama la “’Me’ Decade”, che rischia sempre di più di trasformarsi in un mezzo secolo di egoismo.
Slate invece rilancia un articolo pubblicato su Alternet che mette in guardia, attraverso un parallelismo tra l’allora e l’oggi in otto punti, sul ritorno di quella che è gli storici hanno chiamato la Gilded Age, l’epoca indorata, ossia il periodo a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo quando la corruzione e l’ineguaglianza dilagavano e il mondo era governato dalle grandi corporations.
Obama è socialista?
Il regista Milos Forman firma un op-ed del New York Times dal titolo Obama the socialist? Not even close, che suona come un invito a un utilizzo più cauto delle parole. Ricorda gli anni passati nella Cecoslovacchia comunista e si dice offeso da chi, negli ultimi anni, ha accusato il presidente degli Stati Uniti di essere socialista: “Quali che siano le sue colpe, non vedo molto socialista Mr. Obama né, fortunatamente, vedo segni di quel sistema in questa grande nazione”. E chiama governo e opposizione a lavorare non per la giustizia sociale, ma per l’armonia sociale, unico realizzabile obiettivo a cui tendere: “Tutto ciò che chiedo è che ognuno abbia a mente la nobile melodia del nostro Paese”.
Filosofia
Concentrare tutta la storia della filosofia in un diagramma, si può. È ciò che ha fatto Simon Raper, coautore del blog Drunks&Lampposts, sfruttando la potenza di uno strumento come gephi che permette, una volta caricato delle informazioni necessarie, di creare grafici estremamente efficaci. Basandosi sulle informazioni di Wikipedia, Raper ha creato una rete, dove più un filosofo è stato influente con il suo pensiero per altri filosofi e più il suo nodo si arricchisce e si sposta verso il centro. Attraverso l’utilizzo di vari colori, vengono identificate intere correnti di pensiero – la filosofia analitica, ad esempio.
In concomitanza con l’avvio di Marxism 2012, il festival londinese dedicato al filosofo de Il Capitale, il Guardian spiega come la crisi del capitalismo abbia riportato in auge il marxismo, specialmente tra i giovani, come dimostrato anche dalle presenze registrate negli anni dal festival stesso. Lo fa affidando a Stuart Jeffries il racconto di un marxismo sempre più ‘mainstream’, all’interno del quale vengono interpellati e citati pensatori come Jacques Rancière, Slavoj Žižek e Eric Hobsbawm. E sempre Slovoj Žižek, ospite di Big Think, parla del suo ultimo libro, uscito lo scorso 22 maggio con il titolo Less Than Nothing: Hegel and the Shadow of Dialectical Materialism. Žižek parla della necessità di recuperare “l’arte perduta del pensare prima dell’agire” e spiega l’importanza che ha oggi il pensiero in qualunque campo della conoscenza e della scienza: “Oggi più che mai – spiega – c’è bisogno di filosofia”.
Religioni
Jonathan Fox è l’accademico israeliano autore di uno studio sul rapporto guerra e religione dal 1960 al 2009. I risultati del suo lavoro mostrano non solo l’aumento numerico delle guerre dagli anni sessanta ad oggi, ma pure la crescente importanza del fattore religioso tra le cause dei conflitti, specie dalla fine degli anni settanta. Gli islamici sarebbero, secondo i dati raccolti da Fox, il gruppo religioso più coinvolto dalle guerre: “Negli ultimi anni, il 70% di tutti i conflitti e il 100% delle guerre di religione hanno avuto una componente islamica”. Il lavoro di Fox ad ogni modo non conferma lo “scontro delle civiltà” previsto a metà degli anni novanta da Samuel Huntington come conseguenza della fine della Guerra Fredda, non rintracciando la presenza di guerre inter-religiose.
La sentenza della Corte regionale di Colonia che trasforma in reato la circoncisione e di cui ha parlato sul suo blog su Reset anche Massimo Rosati, è da considerarsi una sentenza che insidia la libertà religiosa o è un segno della crescente islamofobia e un ritorno all’antisemitismo in Europa? Se lo chiede Jill Shaw Ruddock sull’Huffington Post che conclude: “Anziché i Musulmani combattere gli Ebrei e gli Ebrei combattere i Musulmani, farebbero meglio a unirsi e combattere per difendere il loro diritto fondamentale alla libertà religiosa.” E sul Guardian Mehdi Hasan racconta cosa significa vivere le accuse e gli stereotipi islamofobi sulla propria persona.
Infine, da un’altra testata inglese parte l’attacco verso il vescovo di Bath e Wells che ha giustificato le violenze dell’agosto 2011 dicendo che sono state una “esperienza spirituale” e puntando il dito contro la società, i media e il fatto che la polizia avesse “la mano pesante”. La risposta al vetriolo arriva dal blog di Ed West, ospitato dal Telegraph.co.uk: “Ecco a voi […] un’illustrazione del perché l’Anglicanesimo è un credo che sta scomparendo.” E continua: “Le persone che hanno violato la legge la scorsa estate lo hanno fatto perché, come i criminali in generale, in piccola parte sono cattive e in larga parte sono stupide. Se c’è qualcosa da biasimare, non è il capitalismo, ma gruppi come la Chiesa Anglicana che non ha offerto alcuna appetibile alternativa morale all’anima degli uomini d’affari […]”.
Nuovi media e democrazia
La cittadinanza può essere una questione di intelligenza? No, secondo David Sirota, autore della rivista Salon, prendendo spunto dall’ennesimo studio che denuncia una scarsa preparazione dei cittadini americani in tema di educazione civica. “Probabilmente dovrebbe essere obbligatorio che ognuno sappia qualcosa sulla schiavitù e sulla guerra civile […]. Ma dovrebbe essere un prerequisito per l’etichetta di ‘buon cittadino’ o ‘intelligente’ sapere chi era presidente durante la Prima guerra mondiale […]? No di certo. Ci sono sicuramente tantissimi cittadini americani e persone di talento che non conoscono questi fatti semplicemente perché non sono importanti per la loro vita quotidiana”. Il test per ottenere la piena cittadinanza è già realtà da alcuni anni proprio negli Stati Uniti, ma pure altrove, ad esempio in Germania.
La tecnologia può rendere migliore la democrazia. È quello che su Atlantic viene definito come l’ ‘ottimismo radicale’ del CEO di Google, Eric Schmidt, intervistato all’Aspen Ideas Festival. Le vicissitudini di Google in Cina, la censura e la disinformazione sono i tasti toccati dall’intervista, insieme alla questione della democrazia. Sintetizzando le parole di Schmidt, Internet non nacque certo con la specifica idea di migliorare la sovranità popolare, ma è indubbio che una maggiore conversazione non può che farle del bene. Ma l’ ‘ottimismo radicale’ non nasconde una punta di scetticismo, che si ritrova nella frase di Schmidt riportata in chiusura: “Confidiamo in Dio; tutti gli altri devono portarci dei dati”.
L’informazione è basilare alla democrazia, ma l’immediatezza con cui i contenuti si consumano e, soprattutto, si producono mette sempre più in guardia su ciò che si sta leggendo, si sia lettori o addetti del mestiere. La verifica dei fatti, da sempre centrale per il giornalismo, torna a imporsi come una necessità, ma lo fa vestendo abiti diversi. È questo il tema del dossier estivo della Nieman Foundation for Journalism, dal titolo “La verità ai tempi dei social media.”.