Avevo neanche vent’anni. Non ero nemmeno laureato. Emilio Sereni volle che venissi a Roma a fare il redattore capo di Critica marxista, di cui era direttore. Aveva appena pubblicato sul bimestrale di alta teoria del PCI un numero speciale su Lenin, e un suo lungo articolo su “La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia”. La tesi era che la Rivoluzione d’ottobre aveva fatto bene all’Italia e pure al resto del mondo.
Non era la solita pappa. Insisteva ad esempio sul carattere “non antagonistico” dell’Unione sovietica, e poi del “campo socialista” sullo sviluppo delle forze produttive nel nostro Paese e in tutto l’Occidente. Sosteneva, in aggiunta all’argomento, in verità stra arato, che l’URSS, oltre ad essere stata decisiva nella sconfitta del nazifascismo, avrebbe difeso la pace nel mondo, un argomento più originale, sostenuto da cifre e percentuali storiche: che l’esistenza stessa di un “campo socialista” avrebbe incoraggiato industrializzazione, interscambi a livello mondiale (quello che oggi si dice “globalizzazione”, e qualcuno dice “capitalismo” tout court), e lo sviluppo di quella che, per un vecchio marxista come lui, era “la forza produttiva più importante di tutte”, cioè la classe operaia e i partiti e le organizzazioni che si rifacevano ai lavoratori, la sinistra insomma. La tesi è forse discutibile. Ma è stata ripresa in studi recenti, ad esempio 1917. Rethinking the Russian Revolution as Historical Divide, a cura di Matthias Neumann e Andy Willmott (Routledge, 1918)
Cosa direbbe Sereni oggi dell’invasione dell’Ucraina? Non ci è dato sapere. In fin dei conti è scomparso ben prima di avere occasione di dire la sua su Enrico Berlinguer che parlava di “fine della spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre e, in una celebre intervista al Corriere diceva di sentirsi protetto, in quanto italiano, dall’ombrello nucleare della Nato. Bastò perché i sovietici lo volessero accoppare. Emanuele Macaluso ha rivelato che Berlinguer gli aveva confidato, ma solo a lui, che era all’epoca il suo più fidato collaboratore in segreteria, nemmeno al fratello Giovanni, che si affrettò incautamente a smentire, della convinzione che l’incidente di cui era rimasto vittima nel 1973 in Bulgaria – un camion spuntato all’improvviso che aveva investito in pieno l’auto su cui viaggiava – fosse opera dei servizi affiliati al KGB. Niente di sorprendente, ricordo ancora come i fedelissimi di Mosca parlavano di Berlinguer come di un traditore, solo perché si era permesso di riprendere a parlare coi Cinesi.
So per certo però che non solo Berlinguer, ma nessuno dei “vecchi” dirigenti comunisti del PCI che ho conosciuto giustificherebbe Putin o si appiglierebbe come scusante per l’invasione dell’Ucraina all’aggressività della Nato. Nemmeno quelli che si sono formati in Russia, hanno vissuto e studiato in Russia, hanno la Russia e la sua cultura nel sangue. Nemmeno, penso, Antonio Rubbi, il bracciante del Ferrarese che era diventato il “ministro degli Esteri” di Berlinguer, e l’aveva portato in Cina, che ha sposato una sovietica e racconta la propria formazione “russa” nel suo ultimo libro I miei anni a Mosca. Memorie di un comunista italiano (1958-1964), fresco di stampa per Futura. Certo non Gianni Cervetti, che ha raccontato nel suo Il compagno del secolo scorso gli anni della sua formazione, assieme alla moglie Franchina, da studente nella Russia di Chruščëv. Siamo amici sin da quando, negli anni 70, Gianni mi aveva fatto lasciare Critica marxista a Roma per andare a lavorare con lui nella Federazione milanese del PCI. Cervetti è uno che di Unione sovietica e Russia ne sa qualcosa. E anche di emancipazione dai miti e da certi abbracci soffocanti. È l’uomo che Enrico Berlinguer aveva incaricato di recidere ogni cordone ombelicale con l’Unione sovietica. Di mettere fine agli imbarazzanti finanziamenti, in qualsiasi forma. L’ha raccontato negli anni Novanta, senza alcuna reticenza, per filo e per segno nel suo L’Oro di Mosca.
Spesso con Cervetti avevamo discusso, anche animatamente, la sua convinzione, simile a quella di Sereni, che la Russia sovietica avesse avuto un fondamentale ruolo positivo nella storia mondiale del secolo scorso. L’ho chiamato per sapere che ne pensava di Putin e l’aggressione all’Ucraina. Mi ha risposto, senza se e senza ma, sostenendo che la Russia aveva avuto nel secolo scorso tre soli momenti in cui poteva salvarsi: quando nel 1905 Lenin era ancora convinto che fosse possibile in Russia una rivoluzione democratica (è di fine Ottocento il suo ponderoso studio su Lo sviluppo del capitalismo in Russia, che faceva da fondamento a questa convinzione), negli anni Cinquanta, quando Chruščëv aveva avviato la destalinizzazione e le riforme che furono stroncate con la sua caduta, e a fine anni Ottanta, con la perestrojka di Gorbacëv. Tutte e tre occasioni tragicamente perdute. Così come, per il verso opposto, era andata perduta negli anni Ottanta l’occasione di avviare in Italia, con Berlinguer, Moro e, perché no, anche Craxi, una stagione di riforme che ci avrebbe, forse, risparmiato decenni di stagnazione.
Gianni Cervetti per combinazione l’avevo conosciuto per la prima volta quando io ero matricola alla Statale e lui segretario della Federazione Pci di Milano. Faceva un seminario alla Casa della Cultura appunto su Lo Sviluppo del Capitalismo in Russia di Lenin. Per combinazione, dello stesso argomento mi aveva parlato Emilio Sereni la prima volta che lo avevo incontrato. Aveva mimato la prima scena che gli si era presentata dinanzi agli occhi durante la sua prima visita in Russia, negli anni Trenta. Due operai che costruivano un muro in mattoni. Ne mettevano uno sopra l’altro, con lentezza esasperante, a volte con la calce, a volte senza calce. Dopo un mattone o due, si fermavano, si facevano una papiroska. Era il simbolo di un’arretratezza terribile, che persino Lenin e Stalin avevano, secondo lui, sottovalutato. Lavoravano ai ritmi della corvée feudale.
Mi fa un certo senso veder dare per scontato che i “vecchi comunisti” debbano essere per forza filo-sovietici, e di conseguenza, filo-Putin, e ovviamente anti-americani, anti- Nato. Così come mi ha fatto impressione sentire, nel documentario di qualche anno fa di Veltroni su Berlinguer, l’ambasciatore in Italia di Carter negli anni di piombo, Richard Gardner, dire che i comunisti italiani non potevano andare al governo perché Berlinguer continuava parlare positivamente della Rivoluzione bolscevica del 1917.
Non c’è dubbio: un filosovietismo senza se e senza ma era nel DNA, nell’anima, per essere più precisi, in una parte dell’anima del vecchio PCI. Ricordo di quando noi corrispondenti venivamo invitati alle Feste de l’Unità. Mi colpì la tristezza negli occhi dell’ormai anziano Alessandro Vaja, leggendaria figura della Resistenza (uno che da solo, in pieno giorno, con una pistola per mano, aveva sparato per strada a Milano a due ufficiali delle SS), quando, di ritorno dalla Cina, dissi che il “socialismo reale” aveva dei micidiali virus antidemocratici. Venne a dirmi, quasi piangendo, che quello no, non poteva sentirlo dire. Ricordo anche la reazione del pubblico di quelle Feste a Chiesa, mio collega da Mosca, quando veniva a dirgli che la Russia di Brežnev non funzionava. Come gli avessero parlato male del nonno. Non potevano sospettare che anni dopo il povero Giulietto si sarebbe bevuto il cervello e sarebbe diventato un teorico dei complotti, un negazionista dell’11 settembre, e persino del terrorismo islamico in Europa. Alcuni erano innamorati della Russia sovietica. Ma non tutti erano trinariciuti. Nemmeno negli anni Sessanta.
La redazione di Critica marxista a fine anni Sessanta si trovava all’ultimo piano di Botteghe Oscure, nelle soffitte. Accanto alle stanze che ospitavano il settimanale Rinascita, dove lavorava una brillante e simpaticissima signora che ebbi la fortuna di conoscere, la mamma di Giuliano Ferrara. Sulle scale avevo un giorno incontrato un compagno corpulento e molto miope, con occhiali dalle lenti spessissime, Gerardo Chiaromonte, l’ingegnere napoletano che Sereni mi aveva presentato come “la mente più lucida che abbiamo”. “Ma che cavolo pubblicate?”, mi apostrofò. “Apologia dell’URSS dopo tutto quello che stiamo facendo per prendere le distanze?” (era ancora fresca la ferita dell’invasione della Cecoslovacchia, condannata dal Pci senza riserve). Mi colpì la veemenza della critica perché veniva proprio da uno dei pupilli di Sereni, uno dei giovani cavalli di razza, assieme a Giorgio Napolitano, del gruppo che, nel PCI di allora, aveva come riferimento politico la figura di Giorgio Amendola. Anche Amendola, che viene considerato tra i più filosovietici, per realismo politico più che per convinzione (di quegli anni è un suo celebre articolo sul Corriere in cui osservava che la democrazia non era affatto maggioritaria nel mondo), venne un giorno in redazione a farci un cazziatone perché avevamo pubblicato, su istruzione di Sereni, un articolo di uno studioso rumeno (non mi ricordo più come si chiamasse) che lodava Ceausescu: “Ma come, quel dittatore, quel caporale autoritario, altro che uomo di Stato, ma non vi vergognate di pubblicare robaccia del genere?”. Vero, per qualcuno la caduta dell’URSS significò perdita della bussola. Ricordo ancora con tenerezza il vecchio Pajetta che a fine anni Ottanta era di passaggio a New York, per assistere all’Assemblea generale dell’Onu, e volle per forza andare a sentire il ministro degli Esteri sovietico di allora (non ne ricordo il nome), dicendomi: “Speriamo ci chiarisca lui le idee”.
Persino a me, che ero assolutamente affascinato dalla personalità, dalla storia di vita e milizia di Emilio Sereni, e soprattutto dalla sua sterminata ed enciclopedica cultura, certe sue posizioni parevano eccessive. Mi lasciò di stucco un giorno che parlavamo di Lenin (a proposito, mi pare, della sua teoria dell’imperialismo) e lui mi disse che in fatto di genialità Stalin superava di gran lunga Lenin, citandomi la teoria del ritmo ineguale di sviluppo del capitalismo, che avrebbe fatto prevedere a Stalin l’inevitabilità della Seconda guerra mondiale. Tanto fanatismo stalinista faceva a pugni con tutto quello che sapevo di Sereni, e con le cose che lui stesso mi raccontava: di come, giovanissimo esule clandestino a Parigi, era piombato in una depressione profonda, non era per mesi riuscito più a scrivere nemmeno una riga, all’annuncio del Patto Molotov-Ribbentrop, devastante per molti antifascisti della sua generazione. O di come, inviato in missione a Mosca, era stato arrestato dall’NKVD, torturato, condannato a morte, e certamente sarebbe finito giustiziato se non fosse per una lettera di assoluta devozione che aveva scritto a Stalin, e, forse, per l’intervento a suo favore di Togliatti.
Strano, tanto fervore a difesa dei propri carnefici da parte di loro vittime. Nei miei giorni alla Botteghe Oscure ho fatto in tempo a conoscere un’altra vittima di Stalin: Paolo Robotti. Lo avevano relegato in uno stanzino del quarto piano. Era il cognato di Togliatti, negli anni Trenta a Mosca era finito nelle maglie della repressione staliniana, era stato torturato per estorcergli la confessione di essere un “nemico del popolo”, per poco non era stato fucilato, aveva attraversato il gulag. Ma tutto ciò non aveva minimamente intaccato le sue fedeltà ideologiche. Era rimasto staliniano nel midollo anche dopo il Ventesimo Congresso del PCUS, zelantissimo custode del mito dell’URSS, censore severissimo dei dubbiosi.
Succede. Ciecamente filo sovietico era mio padre, che pure non era un militante, in Russia con suo fratello maggiore non aveva voluto andarci. Diceva che a salvarci, noi ebrei, e il resto dell’Europa, era stata la Russia sovietica, con Stalingrado. Aveva perso ben due fratelli in Russia. Bernard, il maggiore, che faceva la spia per Stalin a Parigi negli anni Trenta, e del quale ho scritto in Spie e Zie. In fiction ovviamente, perché non se n’è più saputo da allora assolutamente più nulla. E Benjamin, il più piccolo, che Bernard si era portato con lui in Russia per farne un rivoluzionario. Anche lui scomparso nel nulla. Ne ho cercato invano una minima traccia. Niente da fare. Su alcune delle vittime del Sistema della repressione staliniana e del Gulag l’oblio è totale. Nemmeno Memorial, l’associazione che cercava di ridargli un nome e un volto, e che poi è stata chiusa da Putin, assieme ai pochi archivi che erano stati aperti alla caduta dell’Urss, c’è riuscita. Sono pronto a scommettere che persino Bernard, e persino mio padre non starebbero dalla parte di Putin. Anche fossero filorussi, che dico, nazionalisti russi sfegatati, darebbero addosso coi forconi a uno responsabile di una serie incredibile di capolavori da far rivoltare anche Stalin nella tomba: isolare il proprio paese da metà mondo, fargli rischiare il collasso economico, renderne ridicola non solo la propaganda, ma anche la forza militare e le minacce, metterla alla mercé di un nemico storico come la Cina, compattare tutta la Nato, e tutta l’Europa contro la Russia, compattare Europa e Stati uniti, far riarmare non solo la Nato, ma anche la Germania, da un cancelliere socialdemocratico, mettersi contro persino quelli che fino a poco fa aveva nel suo libro paga, far sembrare dalla parte della ragione persino i nazisti…
Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 2 e domenica 3 aprile.
Foto: Palmiro Togliatti (1893-1964) ad un comizio del Pci.
Bell”articolo!!
Ottimo articolo!