Aprire due borsoni, metterci una vita dentro, caricare in macchina o in aereo se stessi, nel migliore dei casi un pezzo di famiglia, e lasciare tutto. La Storia, anche quella europea, è piena zeppa di fughe, esili e diaspore. L’Europa stessa, in fondo, è fatta di strati e strati di sradicamenti e rinascite del genere. Ma avevamo rimosso, noi sedentari per lo meno – per comodità e illusione fosse ormai affar d’altri. Non è così, e quella Storia che speravamo di aver chiuso dentro ai libri torna a ripresentarsi alle nostre porte, in queste settimane, nei piedi e nei volti di chi fugge da una vita impossibile.
Sono i piedi e i volti degli ucraini, naturalmente, in fuga a milioni da una guerra che nessuno aveva previsto e che nessuno sa fermare – e Dio solo sa se e quando potranno ritornare, e che troveranno. L’Europa ha aperto loro le porte, le scuole e le case – e c’è da sperare non si stanchi di farlo quando l’onda alta della commozione si sarà ritratta. Ma sono i piedi e i volti, altrettanto spauriti, per ragioni diverse, anche dei russi – docenti e giornalisti, ingegneri e teatranti, giovani e anziani – che da settimane ormai fuggono da un Paese altrettanto dannato: non dalle bombe, certo, ma dalla deriva totalitaria cui un leader criminale ha tolto ogni freno. Da quando le forze russe hanno avviato l’assalto militare all’Ucraina – sarà presto un mese – si stima siano oltre 250mila i cittadini russi ad aver preso la via della fuga da un regime ormai conclamato. A volte per scelta, prima che la situazione politica ed economia degeneri, se possibile, ulteriormente; molte altre, per chi ha osato criticare apertamente l’“operazione speciale” del Cremlino, per mettersi in salvo da minacce precise e dirette, come ha raccontato tra gli altri la regista Marina Davydova.
Chi sono dunque gli uomini e le donne che si ritrovano da un giorno all’altro, spesso senza averlo minimamente pianificato, esuli e “dissidenti”? Cosa succede nelle loro teste, al momento di metabolizzare quel ruolo e quel distacco? E cosa nelle nostre, quando li incontriamo e riconosciamo? Molte domande, poche risposte. Ma qualcuna, se non altro, possiamo trarla dall’esperienza di chi ha già vissuto, e raccontato, quel travaglio. Se ora ogni frammento della nostra attenzione è catturato dalla vicenda russa, è evidente infatti che di regimi e repressioni di Stato di cui (pre)occuparci ce ne sarebbero molti altri, se solo ne avessimo la forza – come torna a ricordarci i questi giorni fra gli altri Gianni Vernetti in Dissidenti (Rizzoli): dalla Cina di Xi all’Iran degli ayatollah, dalla Turchia dell’oggi improbabile “mediatore” Erdogan all’Arabia Saudita del principe Bin Salman capace di condannare a morte in un sol giorno 81 oppositori interni.
Fra tutti gli odiosi Stati di polizia, implacabili contro ogni dissenso, ce n’è uno però che visto dall’Italia corrisponde a una ferita mai rimarginata: l’Egitto del “faraone” Abdel Fattah Al Sisi. A quasi nove anni dalla presa del potere del generale, il Paese resta una prigione a cielo aperto per chiunque osi esprimere un’opinione, perfino una sensibilità, diversa da quella di Stato. Almeno 60mila cittadini, secondo le associazioni per i diritti umani, sono i prigionieri politici veri e propri, detenuti in attesa di giudizio o dopo sentenze arbitrarie, in condizioni spesso disumane. Ha il merito di ricordarcelo – in modo leggero e denso al contempo – uno spettacolo unico nel suo genere: Fuga dall’Egitto, ideato e realizzato da Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno e prodotto da Teatro Menotti, Teatro Piemonte Europa e Festival delle Colline Torinesi.
Mix innovativo di linguaggi, tra video e teatro, musica e performance, documentario e testimonianza, lo spettacolo ha il merito di mettere al centro della scena i volti e le parole di chi dopo il 2013 il Paese l’ha lasciato, per sfuggire alla scure del regime di Al Sisi, e ha trovato asilo in Europa. Cosa significa, dunque, tornando alla domanda bruciante di questi giorni, ritrovarsi esuli? Un abbozzo di risposta, e di guida per noi che li riceviamo, ci viene dai racconti, dai silenzi e dai sorrisi di Bahey Eldin Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said – tre dei dissidenti egiziani cui lo spettacolo dà voce, sulla traccia del libro omonimo della giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio.
C’è il dolore, naturalmente, per il legame reciso con la propria terra: radici, luoghi, riferimenti culturali, persone care. C’è quello, altrettanto grande, per aver visto con i propri occhi il proprio Paese sprofondare in un’odiosa dittatura, e di non aver saputo o potuto fermare la deriva. C’è l’angoscia, naturalmente, per chi in quelle grinfie è rimasto, in un tormentato silenzio o nelle patrie galere. C’è la voglia di combattere, di continuare a parlare e a denunciare i crimini commessi dal proprio governo, ma anche la paura – fisica e morale – di essere presi di mira, anche a migliaia di chilometri di distanza. Qui le esperienze divergono: alcuni, come Bahey Eldin Hassan, hanno fatto dell’attivismo la ragion d’essere del proprio esilio, anche a costo di subire anatemi, condanne in contumacia e minacce costanti. Altri, come Mokhtar e Said, hanno scelto e scelgono una strada diversa: ricostruirsi una nuova vita, serbando la speranza impossibile del ritorno, ma sfuggendo al ruolo “pre-confezionato” dalle società occidentali, al contempo troppo scomodo e troppo comodo, di “dissidenti”. «Il prezzo da pagare sulla propria pelle è molto più alto dei benefici», confessa amaro Said, oggi a Berlino, che alla videocamera della narratrice che giunge a noi sul palco annuncia la fine di ogni attività pubblica di testimonianza. Altri ancora, infine, come la quarta protagonista (mancata) del percorso cedono ancor prima di cominciare alla paura: troppi i rischi, per sé e per i famigliari, dell’esposizione pubblica.
C’è da sperare che l’esilio intellettuale e popolare russo non sarà tanto lungo, né tanto pericoloso. Ma c’è anche da sapere quale armamentario di emozioni e tormenti una situazione inedita del genere provoca in chi vi si ritrova, spesso da un giorno all’altro. Ce l’hanno raccontato, ieri, decine di intellettuali europei finiti impigliati nelle pieghe più buie del secolo scorso – basti per tutti il nome di Hannah Arendt. Ce lo raccontano oggi, in uno spettacolo unico nel suo genere, gli esuli egiziani. Se non possiamo far crollare la fonte delle loro angosce, possiamo almeno prepararci ad ascoltarli ed aiutarli nel modo più utile.