Mentre proseguono incessanti i bombardamenti russi sull’Ucraina, e anche la speranza di una “pista turca” per un cessate il fuoco sembra rapidamente evaporare, i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si ritrovano alle porte di Parigi per porre le basi – forse – di un nuovo salto in avanti comune: sulla strada delle sanzioni alla Russia, certo, ma anche di una vera Unione – sino ad oggi mai realizzata – nei campi dell’energia e della difesa. Con quanta convinzione, e quali risorse? Qual è l’interesse, e quale la forza negoziale, dell’Italia?
A rispondere, in quest’intervista tratta dalla lunga conversazione nello spazio Twitter mattutino di Fuori dalla Bolla, è il sottosegretario italiano agli Esteri, e leader della formazione Più Europa, Benedetto Della Vedova.
Sottosegretario Della Vedova, la guerra di Putin all’Ucraina si tinge ogni giorno di una pagina più nera e drammatica: dopo le bombe sui civili in fuga, quelle su un ospedale a Mariupol pieno di bambini e donne partorienti.
Credo che siamo ai crimini di guerra. Il coinvolgimento crescente di obiettivi civili è sotto i nostri occhi, e questo rende tragicamente ancor più evidente il fatto che si tratti di una guerra provocata da Putin che non ha alcuna giustificazione. È una guerra di aggressione a uno Stato sovrano e indipendente che non può avere motivazioni, che è contraria a qualsiasi principio del diritto internazionale e che deve essere condannata e contrastata in ogni modo.
Il presidente ucraino Volodimir Zelensky ribadisce al giornale tedesco Die Zeit che le sanzioni occidentali non bastano e torna a chiedere la no fly zone sui cieli dell’Ucraina. È un’opzione sul tavolo o no?
Le sanzioni non sono uno strumento disegnato per avere un impatto nell’immediato, anche se già oggi esse stanno provocando un forte indebolimento dell’economia russa, così come la confisca o il congelamento dei beni di molti oligarchi e aziende vicine al regime di Putin. Stanno anche danneggiando la vita dei comuni cittadini russi, purtroppo, ma è una pressione che va fatta. Il bilancio pubblico della Russia, nonostante continuino fino ad oggi gli acquisti di gas, è in grave difficoltà. Putin quindi sa che le sanzioni cominciano a mordere. Per quel che riguarda la no fly zone, ad oggi la decisione della Nato è quella di non intervenire in modo militare diretto. È una decisione per cui essa si è assunta una responsabilità naturalmente: non è stata una decisione semplice, ma fatta nella consapevolezza che in queste condizioni un intervento diretto militare, anche attraverso la no fly zone, porterebbe a un’escalation e a un coinvolgimento ampio nella guerra di Putin. Si è deciso quindi di rimanere a una dimensione, che non è marginale, di sanzioni economiche e di fornitura di armi all’esercito ucraino – sforzo comune a cui anche l’Italia partecipa. Queste sono le decisioni fin qui assunte, comunicate alle opinioni pubbliche e mantenute.
In queste ore i capi di Stato e di governo Ue si ritrovano a Versailles per mettere a punto le risposte di medio e lungo periodo all’aggressione russa, sul piano militare ed energetico in primis. È possibile si arrivi all’embargo completo sul gas e petrolio russi, così come deciso negli Usa dalla Casa Bianca? E cosa potrebbe comportare questo per l’Italia?
Vedremo, i temi sul tavolo sono noti e tra questi c’è anche quello di un’eventuale escalation nel campo delle sanzioni, tale da portare alla rottura dei contratti da parte occidentale. Certamente c’è una pressione forte, anche in sede di Parlamento europeo, in questo senso. È chiaro però che c’è una differenza tra i Paesi, nel senso che Germania prima di tutto e poi Italia sono purtroppo arrivati a questa crisi con una dipendenza dal gas russo; altri Paesi hanno contesti di produzione e di fornitura energetica diverse, quindi a ad oggi questa è una misura che non è stata adottata per ragioni di bilanciamento che riguardano l’impatto potenziale nell’immediato sui nostri Paesi, e dunque sulla sostenibilità delle sanzioni nel loro complesso. Vedremo però in questi due giorni che tipo di discussione ci sarà: certamente l’evoluzione sul terreno ucraino è un elemento di questa discussione.
A proposito degli effetti collaterali delle sanzioni, Confindustria denuncia il pericolo che il Cremlino possa reagire espropriando le attività delle imprese che operano in Russia: si stimano 500 aziende italiane operative in questo momento, tra cui grandi nomi come Barilla, Pirelli, Ferrero. Come risponderebbe il governo italiano in questo caso?
Innanzitutto vedremo se Putin vorrà effettivamente passare dalla minaccia propagandistica ai fatti. Tralasciando il fatto che poi avrebbe aziende che non saprebbero certo gestire, io credo che sarebbe un atto gravissimo e una ritorsione che produrrebbe un’escalation anche nel meccanismo delle sanzioni. Ciò detto, noi ragioniamo come se fossimo davanti a un “Putin eterno”; io ragiono e credo dobbiamo sforzarci tutti di ragionare tenendo a mente che questo è il regime della Russia di oggi, guidato da vent’anni da un autocrate pericoloso, ma non eterno. Non dobbiamo pensare che la Russia cominci e termini nell’ufficio di Putin.
L’altro grande cantiere europeo che sembra ripartire di gran carriera di fronte alla minaccia russa è quello della difesa comune – tema su cui il suo partito, Più Europa, insiste da tempi “non sospetti”. Ammesso che sia giunto finalmente il momentum politico, resta però un dilemma irrisolto di fondo: le capacità di difesa di cui ci apprestiamo a rafforzare forza e impegno vanno nel senso del rafforzamento della Nato, che risorge in qualche modo dalle sue ceneri, oppure di una vera e propria difesa europea, strategicamente autonoma?
Brevissima premessa, se mi consente. Io vivo questa fase, non da uomo di governo ma da uomo politico appassionato da anni, con una certa frustrazione, essendo tra i non moltissimi politici italiani che in questi vent’anni non hanno mai, neanche per un’ora, pensato che Putin potesse essere un interlocutore. L’ultima volta in cui egli venne in Italia, a luglio 2019 – allora non ero al governo, c’era il governo Conte – io ero fuori da Palazzo Chigi, oltre il cordone di polizia, a manifestare con un cartello per la liberta a Mosca e per i russi. Ora è evidente che noi ci troviamo precipitati in una crisi di cui la responsabilità è al 100% di Putin. Ma credo anche che noi – vale per la politica italiana ma anche per quella europea – abbiamo finto, ci siamo illusi che un autocrate che ha fatto quello che ha fatto in Cecenia e in Georgia, sotto il cui regime sono morti giornalisti e oppositori politici e sono state chiuse tutte le Ong sui diritti umani, e con le mire espansionistiche arcinote, potesse avere alla prova dei fatti un atteggiamento diverso. Drammaticamente, siamo al punto in cui siamo.
Venendo all’esercito europeo: l’autonomia strategica dell’Europa – come ha detto Draghi con poche ma efficaci parole – non significa porsi in termini di alternativa alla Nato; significa avere una capacità propria, in quanto Europa e non in quanto singoli Stati, nella convinzione che in particolare nel settore della difesa le sinergie contano e 27 piccoli eserciti – è piccolo anche quello francese, e piccolo sarà comunque anche quello tedesco, anche dopo l’incremento delle spese militari – hanno una potenzialità e una capacità inferiore, a parità di costi, ma anche con costi inferiori, a un sistema coordinato di difesa, che può andare da un coordinamento fino all’esercito europeo. Credo che l’autonomia strategica debba portare anche nell’ambito della Nato, non fuori dalla Nato, a riequilibrare il meccanismo decisionale, sulla scorta dell’esempio più lampante dell’agosto scorso: la modalità e i tempi con cui i Paesi della Nato, che erano presenti in Afghanistan, hanno dovuto seguire la decisione autonoma americana. Quindi io non penso assolutamente che si debba ragionare in termini di alternativa alla Nato – non avrebbe senso in questa fase e in generale – ma che si debba però diventare interlocutori. Se è vero quel che si dice da sempre, con un linguaggio anche un po’ crudo, che l’Europa è un gigante economico, un nano politico e un verme militare, bisogna riequilibrare le tre funzioni. Credo che in questa fase dal punto di vista politico l’Europa abbia fatto un salto di qualità molto significativo e per me molto positivo, ancorché con gli strumenti vigenti e quindi mantenendo questa regola che va cambiata il prima possibile dell’unanimità nelle decisioni di politica internazionale.
La questione cruciale sullo sfondo per i governi è quella che riguarda le risorse necessarie a creare queste nuove capacità. Ancora una volta sembrano profilarsi due schieramenti: da una parte quelli che vorrebbero un nuovo strumento europeo, un nuovo piano ad hoc come il Next Generation EU destinato alla difesa, e magari anche all’energia; dall’altra quelli che sostengono che gli strumenti attuali sono sufficienti, e che al massimo si può in qualche modo riorientare il piano di ripresa esistente per portarlo in modo più significativo verso la difesa e l’energia. L’Italia come s’inserisce in questo dibattito?
Questo tipo di decisioni europee, come abbiamo imparato, sono un processo. Anche qui, purtroppo da un punto di vista italiano, lo si approccia con situazioni diverse, nel senso che noi ci arriviamo con un debito pubblico elevatissimo, sgombrando il campo delle ultime crisi pandemica ed energetica, mentre la Germania è in grado di mettere sul piatto 100 miliardi di euro per i prossimi anni per raggiungere il 2% di Pil in spesa per la difesa. Noi abbiamo come evidente maggiori difficoltà. Da qui il senso di un negoziato per capire se ci possono essere risorse europee sia sul tema della difesa che sul tema energetico. Siamo però in un contesto in cui dovremo valutare se, grazie anche alla spinta della Conferenza sul futuro dell’Europa, si potrà arrivare anche a una definizione di regole per i prossimi 30 o 60 anni dall’Unione europea – comprese quindi regole fiscali diverse, intendendosi una fiscalità europea non straordinaria, come accaduto per il Next Generation EU, ma con fondi ordinariamente a disposizione dell’Unione. Questo, sono convinto, farebbe fare un salto di qualità all’Ue in modo stabile in termini di bilancio.
Si vocifera, per concludere, di un possibile intervento nei prossimi giorni al Parlamento italiano – dopo quelli europeo, americano e britannico – del Presidente ucraino Zelensky. Può confermare quest’ipotesi?
Su questo, naturalmente, bisogna sentire non il governo ma il Parlamento, però credo che in scia ad altri stiamo arrivando a questo: sarebbe certamente un momento importante anche di consapevolezza per gli italiani, a partire dai parlamentari. Le testimonianze di Zelensky di questi giorni – con l’uso della comunicazione social, con le interviste, con gli interventi nei parlamenti, a partire dal Parlamento europeo – sono una prova soprattutto che le idee contano, le passioni contano, che le persone e le leadership contano, e che il dispiegamento militare per quanto sproporzionato russo da solo non dà i risultati sperati. In un posto libero, dove l’informazione circola, dove c’è un’aspirazione alla democrazia, le cose possono essere diverse. Questa è la speranza possibile di questi drammatici giorni.