Giovedì scorso ero in volo verso est, non esattamente la direzione più consigliata al momento. Mesi fa avevo accettato di accompagnare un gruppo di ragazzi di un movimento scout ebraico, Hashomer Hatzair, in un “viaggio della Memoria” (termine decisamente da rivedere): una settimana che avrebbe toccato Cracovia, Lublino, Varsavia, ma anche Auschwitz, Majdanek, Treblinka. E una serie di luoghi meno conosciuti nel mezzo.
Giovedì siamo arrivati a Cracovia con uno di quei voli da studenti: partenza alle 06.00, scalo, nuovo volo. Quando mi sono svegliata Putin aveva annunciato l’intenzione di invadere l’Ucraina e avvicinato l’esercito, quando siamo atterrati ad Amsterdam il Donbass era stato invaso. Questo ha dato il via a quello che sarebbe stato uno dei leitmotiv della settimana, un rincorrersi di notizie, sussurrate dagli organizzatori, nel tentativo di non creare panico tra i partecipanti al programma. Un giorno cade il Donbass, il giorno dopo l’esercito avanza, quello ancora dopo entra a Kyiv. E così via, fino ad avvicinarsi a Lvyv, Leopoli, praticamente Polonia. I ragazzi sono svegli, molto più svegli di quanto lo fossi io alla loro età, non hanno bisogno che raccontiamo loro cosa accade, lo sanno: leggono, ascoltano le rassegne stampa mattutine, parlano, discutono.
Da subito il conflitto in Ucraina influenza fortemente il seminario, il modo in cui raccontiamo la storia della Polonia prima e durante la guerra, la storia ebraica. Sono giorni in cui avrei detto tante volte la parola occupazione, invasione, uccisione di massa, guerriglia, resistenza. In ogni altro momento sono parole nobili, cariche di significato. Oggi sono quasi fuori luogo: parlare per ore e ore di come quel territorio che, per inciso, comprende anche parte dell’attuale Ucraina, abbia conosciuto invasioni e distruzioni, quando in quell’esatto momento invasioni e distruzioni avvengono a pochi chilometri di distanza, ha un che di stonato, di ipocrita.
La guerra entra prepotentemente nella nostra realtà a partire dal secondo giorno. Fino a quel momento si potevano intercettare brandelli di conversazione sparsa, chi aveva letto una notizia in più, chi aveva appena visto un approfondimento interessante, chi aveva saputo da questo o quell’amico o conoscente che la famiglia aveva passato il confine, oppure era ancora in una di quelle interminabili code che abbiamo visto.
Il secondo giorno invece sentiamo i primi elicotteri militari girare sulle nostre teste. Il terzo in un autogrill direzione Lublino vediamo il parcheggio pieno di macchine ucraine. Alcuni dei ragazzi se ne rendono conto. Di nuovo sussurrano fra di loro, indicando le targhe. È come se avessero vergogna, anche loro non sanno bene come comportarsi. Un gruppo di profughi è riunito attorno a una macchina, sta mangiando qualche panino, merendina, un pranzo di fortuna. Diamo loro i nostri panini, qualcosa dal negozio dello spiazzale, non è abbastanza.
Viene creato un gruppo Whatsapp a cui ci si può aggiungere, dove si leggono notizie di ragazzi come loro, che conoscono, e di cosa sta capitando alle loro famiglie. Sono ragazzi in età da leva, ragazze che stanno cercando rifugio in Romania e Polonia con l’intera famiglia. Una delle ragazze scoppia a piangere, impotente.
La mattina dopo siamo a Majdanek, uno dei luoghi più impressionanti in cui può capitare di trovarsi quando si partecipa a uno di questo programmi: a differenza di Birkenau, molte strutture sono in piedi, bene conservate, comprese camere a gas e forni crematori. È un luogo con una storia violenta, crudele. Le immagini delle due guerre, passata e presente, iniziano a sovrapporsi una all’altra.
Quarta sera, arriviamo a Varsavia. In hotel sono ospitati numerosi profughi polacchi, la città è piena di bandiere gialle e azzurre, ovunque ci si volta è possibile vedere segni di un luogo che sa benissimo, sa profondamente, cosa voglia dire essere invasi, da una forza molto più grande di te, meglio attrezzata, meglio strutturata. Viene organizzata una raccolta vestiti, una colletta: gli zloti che i ragazzi hanno cambiato verranno dati a chi si trova nel nostro hotel.
Non è abbastanza, non è mai abbastanza. Cosa ce ne facciamo di questa Memoria, di questo peso, se poi non lo utilizziamo? A volte io stessa inizio a chiedermi perché essere là, come fare a tendere una mano, come potere concretizzare ciò di cui parliamo, che predichiamo, su cui ragioniamo.
L’ultimo giorno, appena prima di partire, parliamo della resistenza del Ghetto di Varsavia, di quei ragazzi di 20 – 25 anni, che pur sapendo di andare incontro a morte certa (molti di loro moriranno nei venti giorni di Resistenza del Ghetto) prendono in braccio le armi e urlano la propria dignità. Conosciamo tutti le immagini di questi giorni: mentre parliamo il pensiero di tutti noi va qualche chilometro più in là, a chi sta combattendo per casa propria.
Ritorno, nuovo volo da studenti. Atterriamo ad Amsterdam, accendo il cellulare. L’esercito russo ha bombardato il Memoriale della Shoah di Babji Yar, luogo della più grande fossa comune per fucilazioni di massa operate dalla forza nazista. Certi parallelismi non sono per niente sottili.
Cara Talia! Ho pensato tantissimo a te in queste giornate che sapevo già in partenza che sarebbero state da un lato stimolanti e dall’altro pesantissimi per una come te che vive la sua vita e quella di chi le sta vicino in modo profondo e totalizzante. La terribile guerra russo-Ucraina sopravvenuta proprio così vicina al luogo in cui eravate ha certamente creato la necessità per te di fare appello al tuo equilibrio e alla tua sicurezza nel rapportarti in qualche modo con sicurezza e serenità soprattutto con il gruppo di ragazzi e ragazze che stavi guidando in luoghi così simbolici. Ora le cose stanno andando se possibile anche peggio e non posso non pensare che tanti luoghi citati in questi giorni sono stati dal ‘700 in poi i villaggi ucraini dove la vita ebraica, chassidica e non, viveva la ricchissima umanità e spiritualità che è letteralmente poi scomparsa negli anni tragici della Shoah.
Molto avrebbero imparare i commentatori che tritano le stesse notizie ad uso narcisistico. Leggere parole secche e soprattutto rispettose , è cosa rara!