Riaprire il cantiere di una Costituzione europea, aperta questa volta al contributo (e al voto) dei cittadini. “Liberare” l’agricoltura del continente da emissioni nocive, pesticidi e sprechi d’acqua. Impedire per direttiva europea monopoli editoriali e collusioni tra media e politici. Eleggere un forum permanente di cittadini osservatori dei processi decisionali Ue, e parlamentari europei su liste transnazionali. Inserire l’educazione alla democrazia (e all’Europa) nei programmi scolastici di tutto il continente.
Non è la pagina di un libro dei sogni, fino a prova contraria, ma una piccola parte delle 39 raccomandazioni votate questo finesettimana a Firenze, dove 200 cittadini rappresentativi (almeno sulla carta) della popolazione del continente si sono riuniti per inviare le loro proposte di rinnovamento dell’Unione ai decisori europei. Che, per il momento, prendono nota e promettono che tutte le raccomandazioni ricevute saranno «discusse». Anche perché il processo di consultazione dei cittadini della “Conferenza sul Futuro d’Europa” che entra in queste settimane nel vivo è stato voluto e varato, con entusiasmi variabili, proprio dalle istituzioni Ue.
Conclave democratico
Chissà cosa direbbero politici e commentatori pronti a gridare al furto d’identità perché l’Ue ha consigliato ai suoi dipendenti di augurare «Buone Feste», piuttosto che «Buon Natale», se sapessero che il più avveniristico, e macchinoso, esperimento di partecipazione civica mai tentato nella storia dell’Europa unita si è “celebrato” in una Chiesa – seppur trasformata per l’occasione in agorà laica. È qui infatti, nella Badia Fiesolana un tempo frequentata da monaci, letterati e pellegrini e oggi inclusa nel complesso dell’Istituto Universitario Europeo, che i 200 cittadini estratti a sorte per confrontarsi sulla democrazia, i diritti e i valori europei si sono ritrovati per discutere e redigere le loro proposte di riforma.
Il vettore è l’ambiziosa, quanto poco conosciuta, Conferenza sul Futuro d’Europa, iniziativa proposta tre anni fa dal presidente francese Emmanuel Macron e lanciata poi dalle istituzioni europee, dopo lunghi rinvii, lo scorso maggio. L’obiettivo dell’esercizio, con ogni evidenza, quello di colmare la distanza a tratti abissale, di consapevolezza in primis, tra il lavoro delle istituzioni di Bruxelles e la vita quotidiana di qualche centinaio di milioni di cittadini Ue. Il metodo per fare tutto ciò, complice la scala dell’esercizio, oltre che le ondate di Covid-19, tutt’altro che semplice.
Chi, come e perché
Quello riunitosi dal 10 al 12 dicembre sui dolci colli sopra Firenze non è che uno dei quattro gruppi civici di lavoro, nel linguaggio ufficiale «Panel», della Conferenza. Gli altri tre riguardano rispettivamente le questioni socio-economiche, l’ambiente e la salute, la politica estera e le migrazioni. Ma complice il quadro epidemico irlandese (il primo gruppo avrebbe dovuto riunirsi ai primi di dicembre a Dublino) il Panel 2, quello dedicato a «Democrazia europea/Valori e diritti, Stato di diritto, sicurezza» è stato il primo a concludere i propri lavori. Particolarmente densi. Dopo il primo incontro conoscitivo svoltosi a fine settembre a Strasburgo, volto a apprendere le regole del gioco e a individuare temi e problemi principali, nella seconda tappa virtuale a metà novembre i cittadini del gruppo avevano dato forma a un lunghissimo elenco di orientamenti di base – oltre 200 – per dar risposta ai problemi individuati. A Firenze si trattava dunque di setacciare e trasformare quegli abbozzi di idee e soluzioni in raccomandazioni chiare e concrete alla classe politica, e all’opinione pubblica, europee.
Studenti svedesi, ingegneri spagnoli, disoccupati greci e pensionate sarde. Complice l’ambiente universitario, l’incontro di Fiesole sarebbe parso all’ignaro passante un incrocio tra un convegno professionale e un Erasmus senza limiti d’età. Ma chi erano e come sono stati scelti i partecipanti? Come da manuale dei processi di democrazia deliberativa, chiarisce l’organizzazione della Conferenza, i cittadini coinvolti sono stati selezionati casualmente in tutti e 27 i Paesi membri in modo da tale da riflettere la diversità europea – per provenienza geografica e socio-economica, livello d’istruzione, genere e età. Sempre in maniera casuale, e dunque ignorando il background o eventuale specializzazione di ciascuno, gli 800 estratti sono poi stati assegnati ad uno dei quattro Panel, e, all’interno di questi, ad uno dei sottogruppi di lavoro.
Per tre lunghi giorni, dunque, i 200 “neo-esperti” di democrazia e valori Ue si sono chiusi in conclave per chiarirsi le idee, selezionare quelle più ambiziose e necessarie, e trasformarle in raccomandazioni efficaci. Un lungo processo deliberativo, svolto in gran parte in sottogruppi di lavoro da una quindicina di partecipanti e solo al rush finale in seduta plenaria, e reso possibile, proprio a fronte della diversità e casualità del campione, da una doppia mediazione professionale. Da un lato quella di un servizio d’interpretariato di rara potenza di fuoco, in grado di tradurre simultaneamente in cuffia ogni comunicazione pronunciata in una qualsiasi delle ventiquattro lingue parlate dai partecipanti. Dall’altro quello dei facilitatori chiamati a coordinare i lavori di ciascun sottogruppo, oltre che della plenaria.
Dopo aver tagliato con l’accetta il materiale di partenza – con una votazione iniziale servita a “scremare” oltre la metà dei 200 orientamenti maturati online – i gruppi di lavoro hanno messo a punto, discusso e limato 42 raccomandazioni più o meno pronte all’uso per i decisori europei. Secondo le regole decise dal Segretariato della Conferenza per provare a razionalizzare ulteriormente il lavoro, soltanto quelle votate dalla plenaria conclusiva con almeno il 70% dei voti sarebbero state adottate. Risultato: soltanto tre proposte non hanno raggiunto la soglia necessaria, mentre le altre 39 hanno calamitato consensi più o meno bulgari.
(Ndr: è consentita la rilettura del presente paragrafo, eventualmente anche oltre le due volte, senza connessi sensi di colpa).
We the people
In quei trentanove «Noi raccomandiamo…» che si apprestano a planare sulle scrivanie di parlamentari e funzionari europei, c’è ovviamente un mix variabile di ambizione e confusione, utopia e concretezza. Ma nel complesso, ora che è “depositato” nero su bianco, il documento finale della Conferenza su diritti e democrazia restituisce l’immagine di una chiamata urgente alle istituzioni Ue – compresi i governi nazionali, s’intende – ad aprirsi alla partecipazione dei cittadini. Nel senso della ricezione di input costanti ed effettivi nei processi decisionali, in primis – tramite la richiesta di indire referendum europei sulle questioni di maggior importanza, quella di integrare la macchina politica europea con periodiche assemblee di cittadini o con permanenti “inviati civici” negli organi decisionali, o ancora quella anticipata di riaprire un ampio dibattito sulla futuribile Costituzione europea. Ma anche nel senso di ricevere molte più informazioni, chiare ed affidabili, sul funzionamento e sulle attività svolte dall’Unione: inserendo l’educazione alla democrazia europea nei programmi scolastici, sostenendo il racconto delle attività dell’Ue sui media, o ancora varando una grande app dedicata in tutte le lingue del continente.
Dell’”oggetto misterioso” istituzioni europee, con oltre il 78% dei voti, i cittadini selezionati implorano perfino di cambiare il nome, pur di capirci qualcosa: il Consiglio, cioè l’organo che riunisce i governi, si chiami direttamente (e federalisticamente) «Senato dell’Unione europea», suggeriscono. Motivo della richiesta (riportato nero su bianco a supporto di ogni raccomandazione): «Non ci si può aspettare che i cittadini sappiano distinguere tra Consiglio dell’Unione europea, Consiglio europeo e Consiglio d’Europa». Si suggerisce corso di recupero di brand awareness (questo non c’è scritto).
Oltre alle proposte di ammodernamento della macchina dell’Unione, e in attesa dell’esito dei Panel su temi più fattuali, i cittadini del gruppo di lavoro “democratico” non esitano però ad anticipare anche un altro messaggio chiave: all’Ue chiedono politiche concrete più efficaci in grado di contrastare le diseguaglianze socio-economiche e migliorare la loro vita quotidiana. Una richiesta tanto prevedibile quanto precisa e pressante, all’uscita dalla più grave recessione continentale dal dopoguerra. «Raccomandiamo che l’Ue realizzi investimenti pubblici che portino alla creazione di posti di lavoro appropriati e all’armonizzazione della qualità della vita all’interno dell’Ue, tra Stati membri, e al loro interno», scandisce una delle raccomandazioni più votate. È ora di mettere fuori legge i paradisi fiscali nell’Unione e di tassare le grandi aziende per investire in istruzione, ricerca e sviluppo, le fa eco un’altra. Vox populi.
In tema di diritti, infine, dai cittadini sale forte la richiesta – per la gioia virtuale di Macron – di un’Europa «che protegge». Dalle violazioni dello stato di diritto, sempre e in ogni caso e non solo quando danneggia il budget comune. Ma anche dalle minacce dell’era digitale: la perdita di controllo o la manipolazione dei dati personali; gli attacchi cibernetici; e ancora la disinformazione o la “mala informazione” frutto di concentrazioni di potere mediatico. Un vero programma di lavoro per la garanzia di diritti vecchi e nuovi. Perché solo una volta che avrà saputo davvero consolidare i valori democratici comuni all’interno delle sue frontiere – proclama solennemente un’altra delle raccomandazioni adottate – l’Ue potrà farsi ambasciatrice del “modello democratico” verso altri Paesi.
La voce di chi?
Tra tablet e cartelline, poster e bollini adesivi, un tripudio di lingue e di cuffiette, alla fine l’esercizio-monstre di democrazia deliberativa fila liscio e raccoglie ampio consenso. Chiamati a condividere le loro valutazioni finali, la maggior parte dei cittadini sono entusiasti, stanchi ma felici di aver vestito i panni – almeno per qualche mese – dei legislatori chiamati a confrontarsi e offrire soluzioni a temi pubblici spinosi, e certi di portare a casa un’esperienza unica, e in molti casi nuove amicizie.
Ma qualche dubbio sulla rilevanza reale del lavoro portato a termine, anche tra i cittadini, serpeggia. «Se mi guardo attorno, a me sembra di vedere molta borghesia: non mi pare proprio di aver incontrato, per esempio contadini, o persone con titolo di studio basso», ragiona alla fine una delle partecipanti italiane, che d’istruzione s’intende avendo insegnato per tutta la vita latino e greco. Il tema della reale rappresentatività del campione selezionato ritorna spesso nei conciliaboli tra i cittadini, ma anche tra i professionisti coinvolti. Se tutte le nazionalità sono indubbiamente rappresentate, in maniera proporzionale al peso demografico, si fatica con ogni evidenza a scorgere europei con background migratorio. E come i frutti della deliberazione dimostrano, l’impressione è che domini tra i partecipanti un certo animo europeista, favorito, nel dubbio, anche dall’organizzazione perfetta che copre viaggi, hotel e pasti a tutti i partecipanti. «Sono perplesso sulla selezione dei partecipanti a monte – ci dice davanti a un caffè Niels, ingegnere di Monaco di 27 anni tra i cittadini coinvolti – Ho l’impressione che ci sia un sovradosaggio di pro-europei, o per lo meno di “neutri” sul tema rispetto alla popolazione europea. I più negativi sull’Ue, semplicemente, qui non vengono neppure».
Il racconto della “selezione del personale”, in effetti, coincide tra tutti i cittadini: una chiamata da un’agenzia specializzata, all’inizio dell’estate, per chiedere la disponibilità a partecipare a un gruppo di lavoro dal basso sul futuro dell’Ue; il sospetto più o meno fondato di uno scherzo telefonico; la comprensione del contesto e del percorso; l’accettazione a mettersi in gioco. Perché no. Ma quanti, specie tra i più scettici se non aperti avversari dell’Unione, avranno invece rifiutato?
L’altra perplessità di fondo, specie tra gli esperti che osservano da vicino il processo – ricercatori o attivisti civici – riguarda la qualità e la trasparenza del processo deliberativo. Complice la complessità linguistica e logistica del processo, il ruolo di mediazione dei facilitatori è necessariamente molto significativo. Ma non tutto nella loro gestione, che riflette le scelte del Segretariato della Conferenza (composto dalle tre principali istituzioni europee), convince gli osservatori: dall’iniziale scrematura degli orientamenti che sacrifica molti dei temi che avevano attratto interesse e proposte nei precedenti incontri, lasciando delusi diversi tra i partecipanti, alla macchinosità dei dibattiti, tra lunghe attese, regole complesse, e facilitazione non sempre efficace («Se James Fishkin fosse qui rimarrebbe inorridito», scherza in una pausa uno degli osservatori, lanciando un pensiero al padre della teoria della democrazia deliberativa).
Palla alla politica
Dubbi legittimi, ma che non scalfiscono di un millimetro l’entusiasmo di chi vede nei primi frutti della Conferenza il grimaldello per rilanciare finalmente l’affaticata democrazia europea. «Questo processo dimostra che se si dà voce ai cittadini, dalle loro riflessioni emergono proposte chiaramente federaliste, perché Next Generation EU ha reso chiaro come la soluzione ai problemi comuni venga da un’Europa più unita», rivendica Antonio Argenziano, neo-presidente dei Giovani Federalisti Europei che a Firenze hanno organizzato un’iniziativa pubblica per sensibilizzare la cittadinanza. «Ora è responsabilità delle istituzioni dare seguito a queste istanze, anche rimettendo mano ai Trattati», preme.
Già, che succede ora? Il destino delle raccomandazioni tanto faticosamente messe a punto è il tema che agita tanto i partecipanti quanto gli osservatori. Le proposte ricevute da tutti i Panel, recita la Dichiarazione comune varata a marzo 2020 (dopo lunghi litigi) dalle istituzioni europee, saranno “discusse senza un esito prestabilito” dall’assemblea plenaria della Conferenza, che raduna insieme a rappresentanti dei cittadini esponenti del Parlamento europeo, della Commissione, dei governi e dei parlamenti nazionali. E sull’uso delle raccomandazioni ricevute le istituzioni dovranno quindi riferire con una relazione finale. Un mandato incerto e scivoloso: aperto, nei fatti, all’interpretazione che i leader politici vorranno darne.
C’è il rischio che vada tutto perduto e che la Conferenza si riveli, a posteriori, poco più di un grande spot promozionale? «Noi siamo pronti a prendere in conto le raccomandazioni e ad integrarle all’interno del nostro lavoro legislativo», garantisce a Reset Colin Scicluna, capo di gabinetto della Commissaria Dubravka Šuica che segue il processo per conto della Commissione. «Ora che la Conferenza fa sul serio, credo sarà difficile per le istituzioni europee ignorare il frutto di tutto questo lavoro», gli fa eco dal chiostro della Badia Guy Verhofstadt, leader dei liberaldemocratici al Parlamento europeo che presiede il Comitato esecutivo della Conferenza. «Da fine gennaio nella Plenaria – chiarisce – ci occuperemo di prendere le raccomandazioni e trasformarle in proposte concrete di riforma dell’Unione».
I cittadini, o almeno una buona fetta di essi, hanno aperto a una ventata di freschezza sulla fragile democrazia europea. Ora sperano che la politica non richiuda la finestra.