Charles Taylor, il filosofo canadese autore di importanti studi su Hegel, il multiculturalismo, l’identità moderna e la secolarizzazione, compie oggi novant’anni. Per l’occasione, Paolo Costa ha ideato e curato un volume disponibile dal 28 ottobre (Modernità al bivio: l’eredità della ragione romantica, Marietti 1820) che raccoglie tre testi di Taylor mai pubblicati prima d’ora in Italia (Poetiche romantiche, La spiritualità della vita e la sua ombra, Forza e senso: le due dimensioni irriducibili delle scienze umane), una conversazione, anch’essa inedita, che offre una sorta di bilancio a due voci dell’eredità intellettuale del filosofo canadese, e undici brevi interventi dei principali interpreti internazionali della sua opera (A. Laitinen, H. Rosa, J. Maclure, M.Meijer, J.K.A. Smith, R. Bhargava, R. Abbey, R. Beiner, N. Smith, D. McPherson, N. Kompridis).
Pubblichiamo qui un estratto (pp. 170-178) dell’intervista curata da Paolo Costa e realizzata il 29 marzo 2021.
Se non ti dispiace, vorrei riportarti ora agli anni Ottanta del Novecento e al dibattito tra liberali e comunitari che ti ha visto protagonista insieme, tra gli altri, a John Rawls, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Ronald Dworkin, Michael Walzer. In un momento storico in cui il processo di globalizzazione sembra essere entrato in una crisi irreversibile, ti sembra legittimo interpretare questo sviluppo imprevisto come una sorta di confutazione di fatto di una visione politica di stampo proceduralista, centrata sui diritti individuali? Lo stesso revival della sovranità nazionale è spiegabile secondo te come una reazione giustificata alla sottovalutazione dei bisogni politici di sicurezza, solidarietà, comunità?
Certo che lo penso, come potrei non pensarlo? Non credo però che questo sia sufficiente per convincere i miei avversari in quel dibattito a darmi alla fine ragione e a riconoscere che avevano torto marcio allora. In quegli anni l’idea che mi premeva far passare era che gli esseri umani non sono primariamente degli individui isolati, che hanno cioè sempre legami comunitari, che possono essere legami con la famiglia di sangue o con un gruppo ristretto della società nel suo complesso, ma nella maggior parte dei casi sono legami sociali con una comunità politica con cui si identificano e che rappresenta una parte importante della loro identità. Senza tutto ciò, una democrazia è semplicemente impossibile. Detto altrimenti, non puoi avere l’autogoverno repubblicano in nessuna sua forma se viene meno questo genere di commitment, di forte vincolo di lealtà.
Pensiamoci su solo un attimo: in una democrazia bisogna confidare nel fatto che non siamo gli unici cittadini dotati di senso civico che andranno in guerra se la nazione chiama o pagano le tasse mentre tutti gli altri le evadono. Oppure, quando deliberiamo intorno al bene comune, per esempio durante la campagna elettorale, è essenziale avere fiducia nel fatto che non siamo gli unici a ragionare in questi termini, mentre tutti gli altri stanno in realtà discutendo del loro bene personale mascherandosi dietro l’interesse pubblico. Detto in uno slogan, dev’esserci fiducia nella nostra identità comune. Se manca la fiducia, la democrazia decade: sospetto e cinismo pongono fine alla sua parabola.
Questo è un problema che riguarda soprattutto le società libere. Voglio dire, se sei un suddito di Kaiser Franz Joseph, puoi anche essere addestrato a comportarti come il Kaiser si aspetta che ti comporti, ma non è così che funzionano le società libere. Queste ultime hanno un bisogno pressante di solidarietà, che i cittadini devono necessariamente avere l’uno nei confronti dell’altro, e che di norma è presente in una democrazia funzionante. Persino negli Stati Uniti che, tra le nazioni occidentali, è una delle democrazie più deboli da questo punto di vista, quando si verifica una catastrofe, diciamo un disastro naturale – un tornado, un incendio di grandi proporzioni – le persone non hanno problemi a riconoscere che è compito dello Stato federale intervenire per limitare i danni. Quello che gli americani faticano ad ammettere, invece, è che le persone normali, se si trovano in una situazione di difficoltà e, per esempio, sono prive di un’assicurazione, meritano di essere aiutate dalla comunità per il solo fatto di esserne membri e di trovarsi, dunque, in una relazione di fratellanza – fraternité! – con i loro concittadini.
Siamo arrivati così a uno snodo cruciale del liberalismo contemporaneo, dove ribolle una sottile preoccupazione personale. Ma, allora, sono o non sono libero? Lo Stato mi permette di essere chi davvero voglio essere? Spesso questi dubbi vanno di pari passo con un’ideologia meritocratica, che Michael Sandel ha discusso e criticato con successo nel suo ultimo libro.[1] Le persone fortunate hanno spesso la convinzione che ciò che hanno se lo meritano perché è frutto del loro impegno: «Me lo sono guadagnato e quindi me lo merito. A te è andata male perché non te lo meriti. Spiegami allora perché mai dovrei aiutarti». La conseguenza è quel tipo di certezza granitica che domina il partito Repubblicano negli Stati Uniti: non spetta a noi aiutare i più sfortunati. Dal mio punto di vista tutto ciò è terribile.
Ora, con ciò non voglio certo suggerire che Rawls condividesse questa posizione. Al contrario, Rawls era un vero socialdemocratico, impegnato a cercare buone ragioni per superare la mentalità meritocratica. La cosa che mi fa innervosire, lo ammetto, è proprio il suo tentativo di trovare ragioni convincenti per spingere gli individui a collaborare gli uni con gli altri facendo leva sulla loro comprensione dei loro interessi illuminati. La concezione dell’etica di Sandel, al contrario, risale ad Aristotele (o a Hannah Arendt, se vogliamo) e ruota attorno all’idea che esistano delle concezioni migliori o più nobili dell’essere umano e che una di queste incarni proprio la disponibilità ad agire con gli altri in uno spirito di solidarietà. Personalmente non vedo altro fondamento su cui si possa far poggiare la costruzione di una democrazia degna di questo nome. La solidarietà, a sua volta, deve fare leva su un senso dell’importanza dell’identità comune e non su qualche argomento ingegnoso che, partendo dall’assunto che siamo tutti individui, deriva delle tesi forti a favore della democrazia, senza risultare però alla fine davvero convincente, quantomeno ai miei occhi. Non posso guadagnare un centesimo più di te a meno che questa disuguaglianza non sia giustificabile nella posizione originaria: ma come si fa ad arrivare a questa conclusione mediante un calcolo? Fatico davvero a capirlo.
Nell’atteggiamento delle persone verso la politica oggi si nota un’oscillazione costante tra populismo e tecnocrazia. Sono entrambi atteggiamenti reattivi rispetto a un diffuso sentimento di frustrazione. Ciò che fa difetto, mi pare, è proprio la fiducia nelle potenzialità dell’azione comune e la speranza nella possibilità di cambiare in meglio. Pensi che esista un nesso tra questo senso di impotenza e il climate change o, più in generale, la sensazione che siamo entrati ormai in una nuova era, l’antropocene, in cui non è più possibile porre rimedio ai guai causati dalla modernizzazione?
Per quanto riguarda la tua prima osservazione credo anch’io che esista un legame tra un certo stile di governo tecnocratico e il desiderio di non consultare i cittadini su alcune questioni chiave. Alla base della crisi profonda in cui sono precipitate ai nostri giorni le democrazie c’è sicuramente qualcosa del genere, che si manifesta in parte sotto forma di egemonia neoliberale. Per “neoliberalismo” intendo qui la convinzione che sia meglio non interferire col funzionamento dei mercati perché si regolano benissimo da soli – cosa che chiaramente non sono in grado di fare. Il mercato, se lo lasci andare per la sua strada, può effettivamente garantire livelli di produzione più alti, in genere, però, di beni che procurano più danni che benefici, come sappiamo tutti per esperienza diretta. Quello che il mercato non si azzarda nemmeno a fare è distribuire equamente tali beni. È per questo che deve essere controllato mediante qualche forma di consenso democratico.
Il problema, però, è che esistono anche buoni interventi tecnocratici, ad esempio quelli imposti dalle crisi o sfide ecologiche. Le nostre società, in effetti, sono continuamente attraversate da una tensione di questo tipo perché, per fare un esempio ovvio, se devi fare a meno del petrolio, se devi cioè ridurre la tua dipendenza dai combustibili fossili e concentrarti, per dire, sulla produzione di energia eolica a basso costo, hai bisogno di interventi tecnocratici efficaci. In Texas o nel Canada occidentale le persone reagiscono scandalizzate a simili progetti di riduzione dell’uso del petrolio: «non provateci nemmeno: il petrolio è sacro!». Lo stesso avviene con l’estrazione del carbone sui monti Appalachi o in Germania. Ma non abbiamo alternative: dobbiamo convincere queste persone della assoluta necessità dei nostri interventi. Per ribadire un punto già toccato in precedenza, è essenziale farsi un’idea del perché le persone possano provare un simile attaccamento per uno stile di vita che è diventato ormai chiaramente insostenibile.
Sto pensando ora ai minatori e il primo esempio che mi viene in mente è quello dei minatori di Murcki, una miniera storica a Katowice, nel sud della Polonia. Le persone in quella regione della Slesia hanno un’identificazione totale con l’eroismo di uomini dalle spalle larghe che si calano nelle profondità della terra per portare il carbone alla superficie. Stando così le cose, i lavori alternativi che pure gli devi proporre non risponderanno solo a evidenti bisogni economici, non serviranno cioè solo per il “pane quotidiano”, diciamo così, ma dovranno anche essere una fonte di significati profondi. Questo obiettivo che deve essere in qualche modo raggiungibile in un’epoca in cui il compito principale dei governi sarà difendere il pianeta delle conseguenze più catastrofiche dell’inquinamento. Dovrà pur essere possibile dipingere quell’obiettivo con i colori dell’eroismo. Per farlo, però, sarà necessario il tipo di appeal, di movente, che può effettivamente condurre le persone al cambiamento, a sostituire alcune componenti cruciali della loro identità per fare la cosa giusta.
Quindi, per riassumere il mio ragionamento, l’intreccio tra la dimensione democratica e quella tecnocratica non verrà mai meno. In un certo senso, l’ondata neoliberale non è stata altro che un unico gigantesco tentativo di negare questo conflitto strutturale, evitandolo con l’aiuto di uno slogan: «abbiate fiducia in noi: vi promettiamo che alla fine ci guadagneranno tutti».
A tuo avviso che ruolo ha svolto la pandemia da coronavirus in tutto ciò? Pensi che abbia semplicemente esacerbato la tensione tra modi più tecnocratici, finanche autoritari, e modi più collaborativi di affrontare l’emergenza sanitaria, o ti sembra piuttosto che abbia rivoltato le nostre vite come un guanto?
Be’, la pandemia, in un certo senso, è anch’essa il frutto delle precedenti illusioni. Anche in questo caso ha pesato non poco la fiducia nel fatto che bastasse concentrarsi sulla produzione di beni e che tutto il resto sarebbe venuto da sé. La storia è nota e l’abbiamo vista ripetersi fino alla nausea negli ultimi decenni: tagliamo la spesa sanitaria e la spesa per l’istruzione e alla fine tutto si risolverà per il meglio. La pandemia ha smascherato impietosamente la fallacia di questo ragionamento. La pazzesca impreparazione dei nostri sistemi sanitari di fronte all’emergenza è sotto gli occhi di tutti. Le cose sono andate forse un po’ meglio in Europa che da questo lato dell’Atlantico e sicuramente sono andate molto peggio negli Stati Uniti che in Canada. Anche da noi, però, la gestione dell’emergenza è stata tutt’altro che perfetta e solo il barlume di welfare state di cui ancora beneficiamo ha permesso di arginare le peggiori ondate di Covid-19.
Diciamo pure che quell’illusione è stata spazzata via dalla pandemia. Ma non è di certo l’unica illusione di cui soffriamo. Un’altra possibile illusione riguarda infatti il cambiamento climatico. Quante sono le persone che ancora oggi ripetono che è tutta un’esagerazione, che non si tratta di una vera minaccia? Per fortuna, però, abbiamo dalla nostra parte la tremenda forza delle giovani generazioni che sono pienamente consce che così non si può più andare avanti, che una svolta radicale è alle porte. La rabbia e l’orrore dei coetanei di Greta Thunberg è sotto gli occhi di tutti. I nostri figli, le nostre nipoti (o bisnipoti!) osservano con incredulità la resistenza del sistema al cambiamento e il nostro procedere come sonnambuli verso il precipizio.
Sarà comunque un’impresa difficilissima. Ho come il sospetto che questa sia la norma in democrazia. L’esempio classico è quello di Churchill che cerca di convincere i suoi connazionali che la Germania nazista è una minaccia, che l’attacco è imminente, ma nessuno gli dà retta perché il ricordo della Prima guerra mondiale è troppo doloroso («per favore, no, non farci tornare a quell’orrore!»). Sfide del genere sono connaturate ai regimi democratici. In questo caso, comunque, abbiamo delle risorse su cui fare affidamento e non dovremo remare del tutto contro corrente.
Da un punto di vista globale vedi profilarsi all’orizzonte nuovi modelli politici, con radici in civiltà extra europee come la Cina o l’India? Un tuo allievo, Daniel Bell, per esempio, sembra pensare che dalla Cina stia emergendo un modello di «meritocrazia politica» che potrebbe costituire una seria alternativa alla democrazia multipartitica e agonistica tipica dei paesi occidentali. Tu come la vedi?[2]
Sono in totale disaccordo con Daniel, che per altro non sento da un po’. Il suo modo di interpretare l’evoluzione del regime cinese, comunque, non mi convince affatto. Non voglio dire che fosse tutto inciso nella roccia. Dieci anni fa, per dire, sembrava che il sistema cinese stesse procedendo in una direzione di maggiore apertura. Dopo di che, però, si è affermata la leadership di Xi Jinping.
Ora, il punto non è solo che la Cina ha cambiato direzione di marcia, ma che entro i suoi confini avvengono cose orribili, e non solo nella regione nordoccidentale dello Xinjiang, dove vive la minoranza uigura. Non ho idea di che cosa possa significare vivere in Cina in questo periodo. Di sicuro non è un luogo tranquillo per chi viene dal Canada. Attualmente ci sono due cittadini canadesi detenuti nelle carceri cinesi. Le cose sono precipitate dopo l’arresto di una top manager cinese, Meng Wanzhou, la figlia del fondatore di Huawei, che il Dipartimento della giustizia americana ha accusato di avere aggirato le sanzioni americane contro l’Iran. Michael Kovrig e Michael Spavor, i due cittadini canadesi che ho appena menzionato, sono tenuti sostanzialmente come ostaggi.[3] Abbiamo così sperimentato sulla nostra pelle che non esiste lo stato di diritto in Cina. Per farla breve, direi che la tesi di Bell è stata soffocata sul nascere perché, in un regime del genere, basta un nonnulla per farti passare dalla condizione di stimato funzionario statale a quella di un corrotto traditore della patria.
Comunque, a parte questo, bisogna riconoscere che dall’Estremo oriente, in particolare da Taiwan, se vogliamo citare un’altra società cinese e, fino a un certo punto, dalla Corea del Sud, sono arrivati fino a noi degli esempi di paesi che si sono dimostrati straordinariamente efficienti nella gestione della pandemia. Il loro successo, in effetti, poggia molto probabilmente sullo sfondo culturale confuciano che promuove un senso di responsabilità verso la comunità che, per certi aspetti, manca completamente agli anglosassoni. Gli occidentali, più in generale, non se la cavano benissimo in questa specifica prestazione sociale.
Mi restano ormai solo due domande da farti. Tornando al punto di partenza mi chiedevo quanto sia stretto il legame tra il tuo lavoro come filosofo e la tua personale ricerca del senso, della pienezza, della profondità dell’esistenza. Se non sbaglio ne hai parlato solo nel tuo discorso di ringraziamento per il premio Kyoto. Mi ricordo che anni fa, mentre lo traducevo in italiano, mi sono chiesto se avessi mai rimpianto il fatto di non essere nato poeta, romanziere, musicista o, se posso spingermi un po’ più in là, un monaco? [4]
No, direi proprio di no. La sola cosa che mi sento di aggiungere a quanto ho già detto nel mio discorso di ringraziamento a Kyoto è che ho sempre sentito fin da quando ero ragazzo un forte desiderio e bisogno di tuffarmi nel mondo, non di fuggire dal mondo. È per questo che ho cercato di coniugare il mio modo particolare di essere “filosofo”, sempre alla ricerca di ciò che per me ha più significato e che non trovavo nella filosofia che mi veniva insegnata, per esempio, a Oxford, impegnato quindi in una sfida continua con una certa mentalità filosofica – impresa in cui ho sicuramente trovato il modo di soddisfare un mio profondo bisogno di autochiarificazione – con un’altra urgenza: la passione per la politica, per la razionalità pratica. Ammetto che il connubio non è stato sempre facile, ma semplicemente perché sono entrambe attività che richiedono un grosso investimento di tempo ed energie e l’una va inevitabilmente a discapito dell’altra.
La mia ultima domanda è una classica richiesta di categorizzazione. Come la definiresti la tua posizione filosofica? Ha senso definirla una variante di “romanticismo filosofico”?
Qui mettiamo il dito sulla piaga. Il termine, lo sai meglio di me, è molto insidioso. Non credo esista una parola più maltrattata, usata in maniera più contraddittoria, dell’aggettivo “romantico”. Non c’è dubbio che molte delle questioni da cui ha preso le mosse la mia ricerca filosofica hanno un legame privilegiato con l’età romantica, in particolare con il romanticismo tedesco. Da giovane mi ci sono immerso perché qualcuno mi ha convinto a scrivere un libro su Hegel e, per farlo, ho dovuto familiarizzarmi con il suo retroterra culturale e leggere Herder, Hamann, ecc. Ho scoperto così che gran parte di ciò che interessava agli autori con quel tipo di formazione aveva un’enorme rilevanza filosofica che non tutti riconoscevano. Fatto sta che questo interesse generale si è poi intrecciato con la mia interpretazione di Herder e, allo stesso tempo, mi ha fatto capire molte cose sull’embodied agency, l’agire incarnato, che mi hanno ricondotto alla riflessione di Merleau-Ponty. Il legame è nato così. Ti confesso, però, che se mi capitasse di sentire qualcuno che dice: «Te l’avevo detto: Taylor è un inguaribile romantico», mi verrebbe spontaneo ribattere: «Può darsi, non però se per romanticismo intendi l’espressione incontrollata del sentimento di cui parla avventatamente T.S. Eliot».
Un altro ottimo esempio di questa attitudine liquidatoria nei confronti dell’eredità romantica è il ritratto che Flaubert fa di Madame Bovary: una donna sciocca che si lascia suggestionare da assurde fantasie romantiche. Al pari di Eliot, anche Flaubert stava chiaramente reagendo contro una cultura che privilegiava il sentimento a spese della ragione e dei fatti, di cui si fa beffe impietosamente. C’è, tuttavia, una visione del romanticismo che differisce da quella di Eliot e Flaubert che, per altro, si confuta da sola. Come ho appena detto e come si evince dal saggio di apertura di questo volume, la tradizione intellettuale che ho in mente è fiorita attorno alle questioni sollevate da Herder e dai suoi seguaci (poeti come Hölderlin e Novalis, studiosi poliedrici come i fratelli Schlegel, ecc.) di cui sia Eliot sia Flaubert ignoravano l’esistenza. Perciò, per riassumere, anche se il termine in quanto tale può condurre fuori strada, lo si può nondimeno impiegare in un’accezione che rende la tua ipotesi del tutto giustificata: è assolutamente vero, cioè, che il mio modo di vedere le cose è un caso lampante di romanticismo filosofico.
[1] Cfr. M. Sandel, The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good?, Farrar, Straus and Giroux, New York 2020 [trad. it. di C. Del Bò e E. Marchiafava, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2021].
[2] Cfr. D.A. Bell, The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, Princeton University Press, Princeton 2015
[3] La vicenda dei due “ostaggi” canadesi si è risolta il 24 settembre 2021 con il simultaneo rilascio di Meng e Kovrig e Spavor, che hanno fatto ritorno in Canada il giorno successivo. [N.d.C.]
[4] Cfr. C. Taylor, What Drove me to Philosophy?, 2008, discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Kyoto, disponibile in internet a: https://www.kyotoprize.org/wp-content/uploads/2019/07/2008_C.pdf [trad. it. parziale di P. Costa, Il mio tuffo nella filosofia, “Reset”, 118, marzo-aprile 2008, pp. 71-78; la traduzione completa del testo è disponibile a questo indirizzo web: https://www.academia.edu/25400312/Charles_Taylor_Come_sono_arrivato_alla_filosofia]. (Accessi: 6 luglio 2021).
Foto: Il filosofo Charles Taylor (WikiMedia / Creative Commons)
Titolo: Charles Taylor. Modernità al bivio
Autore: Paolo Costa
Editore: Marietti 1820
Pagine: 272
Prezzo: 22 €
Anno di pubblicazione: 2021