Il suicidio della destra, i tormenti Pd.
L’era-Draghi al test delle urne

Cosa si giocano i principali partiti politici italiani alle prossime elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre (primo turno, ballottaggi 15 giorni dopo)?

Molto, ovviamente. Innanzitutto, come si sa, queste elezioni di ‘mid term’ – pur se è vero che, nel nostro Paese ogni anno, in pratica, c’è un’elezione… – sono le prime elezioni, seppur comunali, che avvengono a macchia d’olio sull’intero territorio nazionale (1300 i comuni, venti i capoluoghi di provincia, sei di regione) e, dunque, passibili di ‘testare’ in modo incisivo sia la forza dei candidati che lo stato di salute dei partiti, oltre che, ovviamente, le loro coalizioni.

Inoltre, si vota a molti anni di distanza dalle ultime elezioni politiche (febbraio 2018) e, nel frattempo, ‘è cambiato il Mondo’ (politico…).  

 

Bussola del Mondo nuovo

Al governo gialloverde (il Conte 1) è succeduto il governo giallorosso (il Conte 2) e, a partire da febbraio 2021, è in sella il governo Draghi, retto da una ‘grande coalizione’ di partiti (Lega e FI da un lato, Pd-M5s-LeU dall’altro, Iv e +Europa nel mezzo) che rappresenta uno “stato di eccezione”, ma che vede, oggi, l’attuale premier pronto – e ‘buono’ – per tutti gli usi: succedere a Mattarella come Capo dello Stato, nel 2022, o continuare la sua azione di governo, completare il PNRR e portare a compimento, particolare non da poco, la legislatura a sua scadenza naturale, cioè fino a febbraio del 2023, quando lo stesso Draghi potrebbe ambire, peraltro, ad altri compiti, come candidarsi a nuovo presidente del Consiglio europeo…

Nel frattempo, cioè nell’arco di circa tre anni, i partiti, in Parlamento, hanno subito scissioni (Iv di Matteo Renzi dal Pd), esodi di massa (i tanti pentastellati che se ne sono andati, per lo più nel gruppo Misto, in parte espulsi, in parte usciti in polemica con l’appoggio del M5s a Draghi), nascita di micro-gruppi di diverso peso specifico (i no-vax di Italexit di Paragone, Coraggio Italia di Toti e Brugnaro), ‘scambi di figurine’, specie dentro il centrodestra (da FI alla Lega, o a FdI), infoltendo i ‘gruppi Misti’ di Camera e Senato – ormai il quarto e quinto gruppo, per consistenza – di una quantità abnorme di parlamentari di ogni tipo nonché di ogni storia e tendenza politica

Inoltre, le prossime elezioni amministrative cadono durante il semestre bianco (i sei mesi di fine mandato in cui il presidente della Repubblica non può, per Costituzione, sciogliere le Camere) e poco prima che inizi il ‘Gran Ballo’ del Quirinale, cioè l’elezione del nuovo Capo dello Stato che si terrà non prima del prossimo febbraio 2022. Un appuntamento a dir poco decisivo, in cui molti dei ‘giochi’ che si terranno, in quei giorni, anche in previsione della fine della legislatura (arriverà a scadenza naturale? Ci sarà un voto anticipato?), cambieranno volto e natura al sistema politico.

A maggior ragione, in vista di questo turning point della politica italiana che sarà rappresentato dall’accordo (o dal ‘disaccordo’) sul nuovo inquilino del Colle, e dato che Sergio Mattarella sembra indefettibile dalla sua intenzione di non voler accettare un secondo mandato, neppure ‘a tempo’, come invece fece Giorgio Napolitano, nel 2013, per evitare di creare un ‘pericoloso’ precedente (“Il Capo dello Stato non è il Papa” ripete spesso ai suoi consiglieri, e lui non vuole di certo diventarlo…), per i partiti politici diventa esiziale avere un buono – se non ottimo – risultato nelle principali città al voto. Qui, però, casca l’asino, si può dire.

 

Dov’eravamo rimasti

Infatti, se è vero che sia nel 2019 che nel 2020 si è votato, eccome, per molte elezioni regionali, che hanno sancito la sostanziale vittoria del centrodestra (vittorie in Piemonte, con Cirio, in Sardegna con Solinas, in Abruzzo con Marsili, in Molise con Toma, in Calabria con la Santelli, poi prematuramente scomparsa, ma soprattutto in Umbria, con la Tesei, più la riconferma di Zaia in Veneto e persino la ‘prima volta’ della conquista del Trentino, grazie all’alleanza tra Svp e Lega), che ha conquistato, a macchie di leopardo, il Paese e che, di fatto, ormai lo ‘governa’, alle comunali potrebbero le cose andare diversamente.

Sempre alle passate Regionali, infatti, si è registrata una, assai più modesta, ‘tenuta’ del centrosinistra (vittoria di Bonaccini in Emilia-Romagna, di Giani in Toscana), candidati sia ‘forti’ (Bonaccini) che deboli (Giani), ma l’arretramento del Pd, in tutt’Italia, soprattutto al Sud, dove riesce a vincere solo se guidato da caudillos locali (De Luca in Campania, Emiliano in Puglia), è stato evidente e molto preoccupante.

Inoltre, sempre a livello nazionale, tutti i principali istituti di sondaggi indicano che la coalizione di centrodestra, composta dal patto ‘tripartito’ Lega-FdI-FI, più gli alleati ‘minori’ (Coraggio Italia di Toti e Brugnaro, Noi con l’Italia di Lupi, l’Udc di Cesa) gode stabilmente del 47%-50% dei consensi del Paese. Invece, la ex alleanza giallorossa Pd-M5s-LeU-Iv, che reggeva il Conte 2), pur contando tutti gli alleati minori (la stessa Iv, Azione di Calenda, +Europa di Bonino) e anche volendo ‘mischiare’ soggetti non addizionabili (la sinistra-sinistra ai centristi) non arriva al 35-37% dei consensi popolari.

 

Suicidio assistito

Ai nastri di partenza, dunque, non c’era partita. Il centrodestra sembrava ‘destinato’ alla vittoria…

Invece, con mirabile e cocciuto impegno, le ‘liti’ tra Salvini e la Meloni, e tra la Lega e FdI, con Silvio Berlusconi sempre più assente e lontano dalle ‘beghe’ interne alla coalizione (e di partito), hanno prodotto una lunga teoria di candidature ‘civiche’ che più sbagliate non potevano essere.

L’imbarazzante Michetti a Roma, che rimpiange la “Roma dei Cesari”, che arriverà al ballottaggio e poi perderà con qualsiasi candidato lui opposto (si tratterà, probabilmente, del dem Gualtieri). Il gaffeur, anche pericoloso, Bernardo a Milano, meglio noto come “il candidato con la pistola”, che non è mai davvero entrato in partita con Sala (probabile la vittoria di questi al primo turno).

L’ispido e cocciuto Maresca a Napoli, che ha rifiutato, sdegnoso, l’appoggio dei partiti per poi ‘rimpiangere’ di aver perso due liste per strada.

Il ‘povero’ candidato del centrodestra a Bologna, tale Battistini, mandato allo sbaraglio contro il ‘partitone’ (il Pd) che ancora controlla la città e che, con Lepore, vincerà secco già al primo turno. Solo il candidato di Torino, l’imprenditore Damilano, ha chance di arrivare al ballottaggio e, forse, di vincere, ma non è detto neppure là mentre sicura dovrebbe essere, tra i sei capoluoghi di regione al voto, un’unica vittoria, quella del sindaco uscente Dipiazza a Trieste. Un bottino assai magro, certo, per il centrodestra.

 

Migliori nemici

Dietro il palcoscenico, infuria la battaglia su chi – tra Lega e FdI – risulterà il primo partito nelle grandi città e non solo in quelle: ad oggi, però, FdI sembra davanti.

Certo, alla Lega, non aiutano gli ultimi scandali (l’uomo dei social di Salvini, Luca Morisi, sotto inchiesta per droga), la spaccatura verticale, nel partito, tra l’ala ‘giorgettiana’ e dei governatori (tutti pro-Green Pass, ma anche molto ‘nordisti’) e l’ala salviniana dei ‘mattacchioni’ no-Pass, no-vax e pure no-Euro (i vari Borghi, Bagnai, etc.) che al Capitano hanno causato più danni che voti.

Ma la ‘forza’ intrinseca della Meloni e della sua FdI – un partito che sta all’opposizione di Draghi ma che, quando vuole, sa ‘dialogare’ col governo, ma anche un partito che si presenta, all’esterno, stile compatta e inscalfibile falange macedone – hanno aiutato una leader molto furba e capace ad auto-rappresentarsi come il ‘volto’ della Destra che sarà. Senza le ‘sbandate’ e le ‘mattane’ di Salvini, ma anche sapendo parlare alla ‘pancia’ (quella peggiore) del Paese. Resterebbe da dire di Forza Italia, ma si tratta di un partito ‘fantasma’. Privo di leader – Tajani non può certo competere con il carisma di Berlusconi… – e privo, ormai, di radicamento sociale, veleggia a basse percentuali, ma la sua ‘assenza’ di partito liberal e moderato si sente eccome nel centrodestra, oggi destra-centro.

 

Certezze e dilemmi a (centro)sinistra

Venendo, invece, al centrosinistra, va detto che, per una volta, il Pd le ha azzeccate (quasi) tutte. Ha scelto i candidati migliori possibili (tranne Gualtieri a Roma, infatti Letta non lo voleva…), da Manfredi a Napoli a Russo a Trieste, oppure ha imposto, via primarie, candidati di apparato (Lepore a Bologna, Lorusso a Torino), ma capaci di aggregare consensi in una vasta coalizione. Certo, il Pd gode, da decenni, di una solida e comprovata tradizione di buona amministrazione, ma certo è che le scelte, stavolta, le ha azzeccate.

Il partito, inoltre, è in (discreta) salute: appoggia lealmente il governo Draghi, la ‘mano’ di Letta sulla gestione interna si sente (e, a volte, è anche una mano ‘pesante’, specie contro le correnti, in particolar modo contro quella degli ex renziani), il progetto delle ‘Agorà’ per allargare i confini dei dem è decollato, nel bene come nel male.

Solo il problema – non piccolo – della ‘natura’ del partito è rimasto intatto. Infatti, non è ancora chiaro – né le scelte di Letta, tutte pro-diritti civili o, sul piano sociale, pro-sinistra interna, aiutano a chiarirlo – se il Pd vuole essere, e sarà, un partito davvero ‘riformatore’, ‘draghista’, come chiede l’ala liberal di Enrico Morando e la componente Base riformista di Guerini-Lotti.

O se, invece, tenderà a costruire una ‘Cosa Rossa’, oltre che in ‘alleanza organica’ con i 5S, con i reduci di LeU (Art. 1) e la sinistra radicale (SI, Verdi, etc.), puntando all’asse giallorosso. Asse che, pur cercato ovunque, si è concretizzato a macchia di leopardo: a Bologna e a Napoli, l’alleanza alle comunali c’è, a Roma e Torino no.

 

Nebulosa Cinque Stelle

E qui si arriva al problema dei problemi: cosa sono, oggi, i 5Stelle? Un partito ancora ‘grillino’, come vorrebbe Di Battista e Beppe Grillo, cioè la parte fondativa del Movimento delle origini? Un partito davvero ‘liberal’, moderato e riformista, come vorrebbe il gruppo vicino all’attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ancora gode di forza e di consensi, dentro il Parlamento?

Un partito ‘double face’ e ambiguo per ‘natura’, un giorno forcaiolo e giustizialista, il giorno dopo moderato e garantista, come sembra condurlo, come canna al vento, l’attuale leader, Conte? Il quale un giorno si pone come ‘l’anti-Draghi’, premier che Conte di certo non ama, contro la riforma Cartabia o contro le scelte di Cingolani, e l’altro è ‘filo-governo’, almeno nelle scelte dei suoi ministri? Non è chiaro e non è dato sapere.

Al netto del fatto che Conte, e lo stato maggiore del Movimento, ha scommesso tutte le sue carte sull’alleanza, a doppio filo, con il Pd di Letta, cosa sarà del futuro M5s non è ancora dato sapere ma una cosa, invece, è certa: alle amministrative, il M5s andrà malissimo. I suoi candidati non sono mai entrati in partita e le percentuali del partito saranno a dir poco risibili. Il giorno dopo il voto, forse, si aprirà la riflessione anche su questo. Più che nel Movimento, proprio nel Pd.

 

Foto: Il candidato sindaco a Roma del Pd, Roberto Gualtieri, in uno scatto pubblicato sul suo profilo Facebook.

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