Per la prima volta in oltre 500 giorni di detenzione, Patrick Zaki è stato interrogato dagli inquirenti della Procura del Cairo riguardo alle sue attività precedenti il trasferimento in Italia a fine 2019. Lo studente del master in Studi di genere dell’università Alma Mater di Bologna, si ricorderà, è stato arrestato l’8 febbraio del 2020 presso l’aeroporto internazionale della capitale egiziana, al rientro in patria per un periodo di vacanza dopo gli esami della sessione invernale. Da allora, di rinvio in rinvio, la sua detenzione è stata sempre prolungata senza che il procedimento giudiziario entrasse nel vivo e che le accuse formulate a suo carico – in sintesi, attività sovversiva contro lo Stato, esplicitata mediante post anti-governativi sui social network – fossero approfondite.
La legge egiziana prevede che la carcerazione preventiva possa durare fino a due anni, ma non si contano i casi eccedenti tale limite ai danni di prigionieri considerati a vario titolo pericolosi per la stabilità e la sicurezza dello Stato egiziano, dal 2013 ripiombato in una cornice totalitarista dopo una fugace parabola democratica. Le maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti umani, locali e internazionali, stimano che nelle carceri egiziane siano attualmente detenute almeno 60mila persone per ragioni riconducibili al loro pensiero: intellettuali, operatori dei media, attivisti, politici, simpatizzanti o membri della Fratellanza umana, semplici cittadini. Non sfuggono alla brutale repressione del regime di Abdel Fattah al-Sisi minori, donne e anziani. Sotto il regime di Hosni Mubarak erano circa 40mila.
In passato, Patrick ha collaborato con la Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), la più nota delle ong egiziane, nella difesa dei diritti delle minoranze, in particolare delle persone Lgbt. È probabile che il suo impegno umanitario e il percorso di studi specialistici intrapreso in Italia abbiano insospettito i servizi segreti egiziani, facendolo passare per una possibile spia al soldo di Roma. I vertici dell’associazione, peraltro, sono nel mirino delle autorità egiziane fin dal 2015.
E adesso, dunque? Da questa drammatica vicenda non si vede via d’uscita. Poche ore dopo l’interrogatorio dello scorso 13 luglio – secondo il legale della Eipr, che segue Zaki insieme ad altri legali della famiglia, durato due ore – la carcerazione preventiva è stata comunque rinnovata per altri 45 giorni. Come se quanto riferito dal giovane a propria discolpa non fosse servito a niente. Eppure le accuse non sono mai state corroborate da prove: Zaki nega di aver scritto post offensivi nei confronti del sistema politico egiziano; il collegamento fra lui e l’account ‘incriminato’ non è verificato.
Finora Il Cairo non ha ascoltato nessuna voce: famiglia, colleghi di Master, vertici dell’ateneo italiano, ong internazionali e locali, diplomazia italiana ed europea non sono riusciti a far liberare Patrick dalla prigione di Tora, quella in cui sono rinchiusi i prigionieri politici. Secondo i suoi avvocati, il ragazzo, che in carcere ha compiuto 30 anni, è fortemente depresso e debilitato fisicamente. Non riceve le cure adeguate per l’asma da cui è affetto. E’ detenuto in condizioni disumane, al pari di altre migliaia di concittadini. Le visite che ha potuto ricevere dalla sua famiglia in 18 mesi di prigionia si contano sulle dita di una mano.
Che cosa può fare davvero la differenza in questa storia, scongiurando il finale terribile che hanno avuto negli ultimi anni altre situazioni simili? Il pensiero corre al giovane fotografo e regista Shady Habash, deceduto in carcere 14 mesi fa, dopo aver ingerito del detersivo. Era ‘colpevole’ di aver realizzato e diffuso il video di una canzone (‘Balaha’, cantata da Ramy Essam, rifugiato in Svezia) che ridicolizzava l’operato del presidente al-Sisi. A fine giugno 2021, invece, un altro studente egiziano di base in Europa (Ahmed Samir Santawi, 30 anni, iscritto alla Central European University e rientrato a febbraio per le vacanze) è stato condannato a quattro anni di reclusione, senza possibilità di ricorso, per aver criticato su Facebook la gestione della pandemia da parte delle autorità egiziane. A precipitare il suo caso la denuncia delle violenze subite in carcere a Tora ad opera della polizia carceraria: il giorno dopo l’esposto, la Corte suprema ha aggiunto nuove accuse al suo fascicolo ed emesso la sentenza, inappellabile.
Il Senato e la Camera italiani hanno entrambi approvato mozioni che impegnano il Governo ad effettuare tutte le verifiche necessarie all’attribuzione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Questo nella speranza che Il Cairo si faccia scrupoli ad uccidere – o meglio ‘suicidare’ – un cittadino italiano e quindi europeo e proceda piuttosto alla sua espulsione, dopo averlo privato della cittadinanza egiziana. Uno scenario, alla luce di quanto subito dal ricercatore friulano Giulio Regeni, italiano dalla nascita, alquanto improbabile.
Cittadinanza o no, i promotori della campagna #FreePatrickZaki sperano anche che il regime al-Sisi si pieghi alla pressione internazionale per convenienza: Il Cairo ambisce a un ruolo politico regionale di primo piano, magari in qualità di intermediario accreditato nel processo di pace israelo-palestinese. A questo scopo, migliorare la propria immagine, al momento piuttosto opaca, è una condizione essenziale.
Ma questa amministrazione egiziana non sembra né isolata né con le spalle al muro: la presunta pressione internazionale non è mai davvero cominciata.
Il Cairo oggi può contare – oltre che su una diffusa accondiscendenza europea – su Ankara, con cui, superate pragmaticamente le ambizioni egemoniche in Libia, sta tessendo un asse strategico che permetterà a Egitto e Turchia di gestire in modo proficuo per entrambe le riserve di idrocarburi di Nord Africa e Mediterraneo Orientale. Sempre con un occhio attento ai rispettivi oppositori politici: un recente accordo prevede che la Turchia ‘restituisca’ all’Egitto i Fratelli musulmani finora accolti e protetti nel cortile di casa. Probabile la collaborazione del Cairo nel monitorare le attività della diaspora turca in Nord Africa.
Il modello di cooperazione fra Cairo e Ankara sembra ispirarsi a quello che entrambe hanno con la Cina, per così dire ‘a cassettiera’: il ‘cassetto’ economico, se si prende in considerazione l’amicizia sino-egiziana (l’Egitto è stato il primo Paese africano a instaurare relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino, negli anni Sessanta del secolo scorso), non solo non ha risentito della crisi pandemica, ma al contrario si è riempito ancor di più di investimenti cinesi nelle infrastrutture egiziane. E nel frattempo, nel ‘cassetto’ politico sottostante, le due dittature si accordavano sul destino degli esuli cinesi musulmani, gli uiguri perseguitati in patria. Per i fuggitivi che nel tempo hanno cercato scampo in Egitto e Turchia, quei Paesi a maggioranza musulmana mostratisi al mondo come campioni della Umma sunnita, è tempo di rimettersi in viaggio, prima di essere ‘restituiti’ ai loro carnefici, come previsto da intese recenti.
Questo è il quadro umanitario in cui migliaia di Patrick Zaki, musulmani o cristiani, versano oggi in Egitto. E il broncio delle istituzioni occidentali non sposterà di una virgola le strategie repressive del regime, in continua espansione: una legge fresca di approvazione introduce il licenziamento dei dipendenti pubblici qualora il loro nome venga inserito in una lista di sospetti terroristi. Sic.
La leva economica, anzi più precisamente l’interesse dell’oligarchia militare al potere, rimane l’unico tasto da schiacciare per ottenere l’esito sperato. Come dimostrano le trattative in corso fra Washington e Teheran sul dossier nucleare: pur deplorando le sanzioni finanziarie applicate dal predecessore Donald Trump al Paese asiatico, la nuova amministrazione di Joe Biden non le ha ancora sollevate. E si appresta a incassare il rilascio dei prigionieri – con doppia cittadinanza – detenuti nelle carceri iraniane e un nuovo accordo sul nucleare tenendo gli ayatollah con le spalle al muro. E, appunto, le tasche vuote.