L’Odissea pullula di naufraghi, profughi costretti a fuggire, stranieri rifiutati, migranti in cerca di ospitalità. “Pussa via, audace e sfrontato mendico” è il modo in cui viene apostrofato Odisseo dall’arrogante Antinoo che con gli altri Proci spadroneggia a casa sua a Itaca, gli insidia i beni e la moglie Penelope. È scocciato: “Non ne abbiamo abbastanza di accattoni molesti, straccioni schifosi, pulitori di mense… Chi diavolo ci manda questa peste, questi impiastro a rovinarci l’appetito?” Gli aizzano contro un altro poveraccio. Il padrone di casa sotto mentite spoglie, Odisseo, e l’altro accattone si contendono un avanzo, un boccone di salsiccia di capra. Quello alza le mani per primo. Con un colpo solo Odisseo lo manda a stramazzare nella polvere. “I pretendenti morivano dal ridere”. C’è sempre anche chi si diverte alle risse tra poveri.
Così nei Libri diciassettesimo e poi diciottesimo dell’Odissea. Nicholas Jubber si sovviene di questi versi di Omero quando sente un pescatore in pensione pronunciare quasi le stesse parole: “Ma chi ce li ha mandati? Lasciano immondizia dovunque, si drogano e si ubriacano. Sono degli animali!”. “Teneva il bicchiere di vino stretto tra le dita callose rovinate dalle funi e intanto storceva il naso: ‘Se vuoi aiutare ‘sta gente, perché non te li porti a casa tua, nel tuo paese?’”. Da quanti millenni sentiamo fare gli stessi discorsi?
Sappiamo tutti che finisce malissimo: con un massacro. E alzi la mano il lettore che non è portato a giustificare Ulisse: ma sì, ha un po’ esagerato, poi quella sgradevole impiccagione delle ancelle… ma quelli gli stavano mangiando la casa… Tutti i grandi racconti epici parlano di viaggi avventurosi, di stranieri, di mostri che imperversano e spadroneggiano su intere contrade, di eroi che si vendicano. Tutti hanno un intreccio di passioni scatenate, di grandi promesse e ancora più grandi tradimenti, di alleanze politiche e di rotture di alleanze. Tutti, ma proprio tutti, finiscono in un bagno di sangue. Trasuda violenza l’Iliade. Ma anche l’Odissea. La Chanson de Roland, ma anche i poemi del Ciclo del Kosovo. Le saghe islandesi (la Saga di Njàll qui viene letta come fosse un thriller giudiziario) e il Beowulf , incongruamente assurto a mito fondatore dell’orgoglio anglo-sassone (diciamocela tutta: della Brexit), ma anche Il Nibelungenlied.
Nicholas Jubber ci ricorda un’altra cosa che accomuna tutti questi racconti epici (dal greco eipein, dire, raccontare): ci dicono in qualche modo anche dei fatti nostri, delle cose che succedono ora, che leggiamo nei giornali, guardiamo in tv, che respiriamo nel nostro tempo, anche se a prima vista parlano di cose antichissime, remotissime. Jubber è uno scrittore viaggiatore di razza, nella migliore tradizione britannica. Non racconta solo il viaggio e l’esotico. È uno che oltre a viaggiare legge, e comunica al suo lettore le sue letture. Come il capitano Richard Burton, che scoprì le Mille e una notte. Conoscevo il suo The Prester Quest in cui ripercorreva l’itinerario dell’inviato partito da Roma nel 1117 alla ricerca del favoleggiato Prete Gianni e Drinking Arak off the Ayatollah’s Beard (no, niente di particolarmente offensivo verso l’islam: il titolo del libro viene da un incontro conviviale ai confini tra Iran e Afghanistan, dove la bevanda, che in turco si chiama raki e in greco ouzo, viene versata su bicchieri poggiati su un vecchio giornale, la cui prima pagina, come quasi tutte le prime pagine, ha una grande foto dell’Ayatollah Khamenei). L’ultima sua fatica, che ora esce tradotta in italiano da Bompiani, si intitola Continente epico. Viaggio tra le storie che hanno fatto l’Europa. Come tutti i reportage di viaggio ottocenteschi, si apre con una grande cartina su due pagine, intitolata “il viaggio epico”, che dovrebbe consentire al lettore di orientarsi tra il percorso attorcigliato da un capo all’altro del nostro continente, i paesi, le frontiere, i mari, le città e i campi di battaglia attraversati. Parte da Troia, sulle coste dell’Anatolia, e finisce in Islanda, con un ghirigoro di continui avanti e indietro, attraverso i Balcani, l’Italia meridionale, la Sicilia, i Pirenei, fino al cuore duro dell’Europa che parla tedesco o magiaro. Itinerario che fa venire mal di mare e mal d’autobus. E, come è inevitabile nei viaggi troppo lunghi, è anche un po’ noioso.
Non mancano le sorprese. Il lettore impara un sacco di cose. Soprattutto gli viene voglia di immergersi nelle antiche saghe, quelle che conosce già, e quelle di cui aveva magari solo orecchiato il titolo. Letture e riletture aiutano anche a sfatare incrostazioni di luoghi comuni. Ci hanno detto e ridetto che Orlando rappresenta l’identità europea minacciata dall’invasione islamica. Il verso più famoso del poema non è forse quello in cui si sostiene perentoriamente che “I cristiani hanno ragione, i pagani hanno torto”? E invece no, per niente. È falso, esattamente come sarebbe falso sostenere che l’Iliade parli della difesa dell’Europa contro la minaccia turca. Carlo Magno era stato chiamato nella penisola iberica dagli emiri musulmani di Barcellona e Saragozza perché li aiutasse a difenderli dalla prepotenza di altri musulmani. A segnare la sorte di Orlando è il tradimento del suo patrigno Gano di Magonza. Cade vittima – come succederà anche ai Nibelunghi – di liti in famiglia, di giochi di potere, non di odio razziale o religioso. Ad accerchiarlo e finirlo a Roncisvalle non sono i perfidi saraceni ma un popolo ancora ai giorni nostri assetato di indipendenza: i Baschi.
Avevo trascorso un’estate di molti anni fa travolto dalla irresistibile violenza sanguinaria del Canto dei Nibelunghi (il poema di anonimo di corte del Duecento, non la versione musicata da Wagner che si rifà ai paralleli miti nordici della Saga dei Volsunghi). Non ho resistito a rivedermi su Youtube il Kolossal di Fritz Lang. 5 ore senza pubblicità. Ma altro che Kill Bill e Tarantino! Quel film muto e in bianco e nero del 1923 è davvero profetico. C’è tutta la mattanza ancora fresca del 1914-18, e vengono anticipate tutte le carneficine successive, comprese le loro assurde motivazioni. (Senza contare l’eleganza filmica: vedi le inquadrature, i costumi, le architetture sceniche e ti viene da pensare: ecco da dove ha imparato Sergej Ėjzenštejn!). Quel che trascuravo, e che ci ricorda invece il libro di Jubber, è come in questi antichi racconti i protagonisti si muovano liberamente da un capo all’altro d’Europa, da molto prima che ci fossero l’alta velocità e Schengen. C’è chi ha addirittura sostenuto che il Nibelungenlied è una sorta di guida turistica che precede di circa sei secoli i Baedeker.
La cosa evidente è che ci sono sempre stati buoni e cattivi usi dell’epica. I canti del Kosovo e le leggende sull’eroico principe Lazar sono stati usati da Milosevic e Karadzic per eccitare alla pulizia etnica contro i musulmani bosniaci. Hitler e i nazisti andavano pazzi per le fosche leggende dei Nibelunghi. Gli interessi letterari e culturali non sono sempre così innocenti. Non è un caso del resto che, tranne i cicli omerici, le altre grandi saghe epiche europee siano scoperte tarde, di filologi del tardo settecento o dell’ottocento, poi ingigantite dai nascenti nazionalismi. Sono la nostra eredità, fanno parte del nostro Dna europeo. Che comprende sì violenza, tradimenti, atrocità, mostri generati dal sonno della ragione. Ma anche molto, moltissimo altro. L’idea che non sono le frontiere o il colore della pelle a definire l’umanità, o il valore dell’ospitalità, tanto per citarne un paio. È appena da ieri che gli europei hanno smesso di sbranarsi in famiglia, come facevano regolarmente anche nelle loro saghe.
Quest’articolo è stato pubblicato originariamente sul Venerdì del 12 giugno 2021.
Titolo: Continente epico. Avventure nelle grandi storie che hanno fatto l'Europa
Autore: Nicholas Jubber
Editore: Bompiani
Pagine: 448
Prezzo: 19 €
Anno di pubblicazione: 2021