Afghanistan, paura e amarezza: «Dopo vent’anni, torniamo allo stesso punto»

Il primo maggio gli Stati Uniti hanno ufficialmente cominciato le operazioni di ritiro dei soldati ancora presenti in Afghanistan, e in tempi brevi saranno seguiti dagli altri paesi Nato, membri dell’attuale missione Resolute Support che volgerà al termine, secondo quanto annunciato dal Presidente Joe Biden, entro l’11 settembre prossimo, vent’anni dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle.

Avviata il primo gennaio del 2015, a seguito della dichiarata conclusione di Isaf (International Security Assistance Force), Resolute Support confermava la presenza internazionale, seppure in numeri ridotti rispetto agli anni passati, con una nuova funzione non più operativa ma di supporto e addestramento delle forze di sicurezza locali, al fine di trasferire loro competenze sempre maggiori nella protezione del paese.

Nell’agosto scorso la Nato dichiarava ancora una presenza sul territorio afghano di circa 10 mila soldati provenienti da 36 paesi. La decisione di restare, anche se in forma differente, era stata presa già nel 2012 a Chicago, durante gli incontri tra forze alleate e governo di Kabul, per poi essere ufficialmente siglata solo due anni dopo, con l’approvazione dello Status of forces agreement (Sofa), ratificato dal Parlamento afghano e poi adottato all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 2189.

Il ritiro di oggi, annunciato come definitivo, è uno dei risultati degli accordi di Doha fra Usa e Talebani, firmati il 29 febbraio 2020 dopo un anno e mezzo di trattative: un patto fragile e sbilanciato, nel quale i Talebani hanno ottenuto una “road map” per il ritiro delle truppe straniere in cambio dell’impegno a tagliare i ponti con i gruppi terroristici internazionali e ad aprire in un secondo momento un canale di dialogo intra-afghano con il governo di Kabul, poi effettivamente avviato, anche se al momento senza risultati sostanziali in termini di pace e sicurezza per il paese.

 

Cruda realtà

Proprio in questi giorni Emergency ha denunciato un’escalation di violenza nella provincia dell’Helmand, con scontri sempre più frequenti, e ha diffuso i numeri dei feriti che ha ricevuto nel centro chirurgico di Lashkar-gah: 106 persone, fra le quali 8 bambini, fra il primo e il cinque maggio, oltre a 11 vittime e altri due feriti gravi, deceduti in ospedale. “La maggior parte dei feriti proviene dalle aree di Bolan, Nawa, Nar-e-saraje e Lashkar-gah, a causa di attacchi mirati ed esplosioni – ha dichiarato Marco Puntin, programme coordinator dell’organizzazione per l’Afghanistan – ma quello dell’Helmand non è un caso isolato, perché dall’inizio di maggio stiamo assistendo a un’intensificazione del conflitto in tutto il paese.”

Nei primi tre mesi del 2021, Emergency ha fatto sapere di avere già ricoverato nei suoi ospedali 1407 pazienti con ferite di guerra, il 44% in più rispetto ai primi tre mesi del 2020.

Secondo l’ultimo rapporto della United Nations Assistance Mission in Afghanistan (Unama), fra l’inizio di gennaio e la fine di marzo ci sono state 573 vittime e 1210 feriti fra i civili, con un aumento del 29% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e una maggiore percentuale di donne e bambini (rispettivamente +37% e +23%). Se si considerano i sei mesi successivi all’avvio dei negoziati, dunque dal settembre scorso, l’aumento di civili coinvolti in scontri armati e ferimenti da esplosione è cresciuto del 38%, a dimostrazione del fatto che la popolazione continua a essere sotto attacco. La prima causa di danni ai civili è rappresentata dai combattimenti sul campo fra Esercito afghano e Talebani, dagli ordigni improvvisati e dalle uccisioni mirate.

 

Futuro incerto

“Sono molto spaventato dalla decisione americana di ritirarsi, perché qui la situazione è instabile sotto tutti i punti di vista – racconta Hasmatullah Faqiri, ingegnere di Kabul classe 1980 – e il governo da solo rischia di non farcela contro i Talebani. Molte persone della mia età la pensano come me: in tutta la nostra vita abbiamo conosciuto solo la guerra, e non è facile sentirsi sempre sotto minaccia a casa propria.”

Faqiri conferma che l’ostilità nei confronti degli americani negli ultimi tempi è cresciuta, e che anche i “local workers” che finora hanno lavorato per la missione internazionale o per compagnie americane si sentono ulteriormente vulnerabili. “Io stesso, che per tre anni sono stato impiegato presso una ditta di costruzioni statunitense, comincio ad avere paura per me e la mia famiglia – dice – e non nascondo che se ci fosse la possibilità lascerei il paese, per dare modo ai miei figli di crescere in un posto stabile e con una prospettiva di pace. Ci avevamo sperato, nell’aiuto degli americani, ma questa decisione arriva nel momento sbagliato, anche se la rispetto e capisco che i cittadini Usa siano stanchi e non approvino più, dopo vent’anni, di continuare a mandare i propri giovani a morire qui. Purtroppo il rischio molto concreto è che il nostro governo così faticosamente costruito perda anche quella poca autorità che aveva guadagnato, perché sempre di più mancheranno opportunità di lavoro, servizi sanitari, fondi per i progetti a favore delle donne e dei bambini, e verranno meno pure gli stipendi per i dipendenti pubblici, poiché tutto il sistema qui dipende in gran parte da finanziamenti esteri. Noi ce la mettiamo tutta a sperare nella pace, ma è un sogno che si allontana, mentre qui nella capitale la situazione sta peggiorando e la città è sempre più militarizzata.”

Per supportare finanziariamente non solo le forze di sicurezza ma tutto l’apparato istituzionale afghano, la Nato ha creato fondi come l’Afghan National Army trust fund, che ha concentrato le risorse dei paesi membri di Isaf prima e Resolute Support poi, sulla formazione e l’equipaggiamento dell’Esercito afghano e delle istituzioni del paese, per un totale di 3,2 miliardi di euro investiti fra il 2007 e il 2020, dei quali oltre 40 milioni provenienti dagli Usa tramite l’Asff, Afghanistan Security forces fund, che dipende direttamente dal Dipartimento della Difesa.

In termini economici il sostegno dovrebbe essere ulteriormente garantito fino al 2024, ma l’incertezza sul futuro del governo pesa particolarmente se si tiene conto che già oggi una parte consistente di territorio, in diverse zone del paese, è sotto il controllo dei Talebani, in particolare a sud nell’Helmand, a ovest a Farah, al centro-nord a Ghor e Baghdis, a nord nel Kunduz, mentre nel nord–est, al confine col Pakistan, fra le province di Nangharar e Kunar, è attiva la branca locale dello Stato Islamico del Korasan.

 

Istruzione o distruzione

Soltanto nelle 24 ore fra il 4 e il 5 maggio, il Governo di Kabul ha registrato 137 attacchi in 25 diverse province, alcuni dei quali diretti contro giovani studenti come nella provincia di Paktika, dove sei ragazzi sono rimasti feriti dall’esplosione di un ordigno improvvisato che era stato piazzato all’interno della loro scuola. L’8 maggio è stato il giorno dell’ennesima strage nella capitale: tre esplosioni consecutive davanti all’istituto superiore femminile Sayed ul Shuhada, nel quartiere Hazara di Dasht-e Barchi, periferia ovest, hanno fatto almeno 85 vittime, quasi tutte studentesse fra i 12 e i 20 anni.

“La cosa che mi spaventa di più è il possibile ritorno a un regime restrittivo rispetto ai diritti delle donne e dei bambini, che non accetti la cultura, non creda nella democrazia e nell’importanza dell’istruzione – dice Suhaila Sahar, fondatrice di una scuola elementare privata a Kabul e già candidata alle elezioni parlamentari del 2018 -. Il mio paese non è pronto a cavarsela da solo, e credo che il ritiro degli americani sia veramente un male in questo momento. Io vivo nella capitale e sono costantemente sotto scorta per la mia esposizione politica, immaginiamoci cosa succede nelle zone rurali dove le donne non hanno nessuno strumento per far sentire la propria voce.”

Sahar alcuni anni fa ha dato vita ad un istituto che accoglie i bambini e le bambine dai 4 ai 12 anni in classi miste, e che prevede il pagamento di una retta da parte delle famiglie con un reddito adeguato; con il loro contributo si finanzia anche l’istruzione di chi non ha la possibilità di pagare. “Si vive una fase di grande incertezza, e io stessa non so per quanto tempo riuscirò ancora a condurre la mia vita così com’è oggi – continua Sahar – nel frattempo vado avanti, sto per fondare un mio partito e spero di poter contribuire ancora alla libertà nel mio paese. Devo però ammettere che molti afghani hanno un’opinione differente dalla mia, e almeno un 70% di loro preferirebbe un governo con i Talebani alla continuazione della missione internazionale. Alcuni dicono che quando gli americani andranno via ci sarà finalmente la pace, ma io temo che non sarà così, perché se perdiamo anche quei pochi diritti che abbiamo conquistato, si potrà davvero parlare di pace?

Già oggi chi si espone, soprattutto se donna, rischia spesso la vita. Lo sanno bene i giornalisti e gli operatori della comunicazione che negli ultimi 12 mesi hanno contato 49 vittime, morti durante il lavoro sul campo o vittime di assassini mirati. All’inizio di marzo, tre giornaliste di Enikass Tv sono state uccise a Jalalabad mentre tornavano a casa dal lavoro. Un’altra loro collega era stata assassinata a dicembre, e l’omicidio era stato rivendicato dallo Stato Islamico.

“Dopo il crollo del governo afghano e l’inizio della guerra civile nel 1992, il paese ha perso tutto, dalle infrastrutture all’esercito, ed è diventato estremamente vulnerabile – spiega Farishta Atthai, operatrice sociale originaria dell’Afghanistan ma cresciuta in Pakistan, che per alcuni anni ha lavorato a Kabul con la Ong Nove – quando nel 2001 sono arrivati gli americani e poi le forze Nato, non sono stati completamente onesti sul vero scopo del loro intervento, che di certo non era quello di rendere il paese autonomo di sviluppare le sue potenzialità e utilizzare le sue risorse. Hanno voluto mostrare, in maniera demagogica, che la loro presenza fosse indispensabile per portare il paese fuori dalla condizione di vulnerabilità in cui si trovava, ma di fatto dopo vent’anni siamo allo stesso punto”.

Attahi oggi ha 26 anni, e ha lasciato l’Afghanistan. Durante il suo periodo nella capitale, ha collaborato a diversi progetti di formazione per le donne, a sostegno di un’occupazione femminile che resta ferma sotto il 6%.

“Oggi ci troviamo di fronte ad un bivio – dice – il ritiro è un’opportunità per il governo che può finalmente mettersi alla prova e cercare di reggersi sulle proprie gambe, uscendo dall’ottica dell’assistenzialismo delle forze straniere. Ma ci vorrà molto tempo per questo, e personalmente penso che le forze politiche attuali difficilmente saranno in grado di creare vere opportunità per la società civile. D’altra parte, il rischio è che i Talebani riportino il radicalismo nelle nostre vite, e ciò che mi spaventa di più è la situazione delle donne, che dopo piccoli progressi acquisiti con tanta fatica rischiano di ritrovarsi nuovamente sole.”

 

Foto: Due studentesse nei pressi della scuola di Dasht-e-Barchi (Kabul) colpita da un attentato l’8 maggio 2021 (Wakil KOHSAR / AFP).

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