Metà ulivista e metà maggioritarista. Popolare, ‘ma anche’ attento ai nuovi lavori e ai nuovi lavoratori, sfruttati e non. Intriso di ‘cultura del fare’, e ‘con l’orecchio a terra’ (copyright di Pier Luigi Bersani, vecchio sodale di Letta, un mix di ‘gemelli diversi’ che, per una certa fase, funzionò). Con una ‘cassetta degli attrezzi’ che viene ‘da lontano’ e ‘va lontano’, non nel senso del Pci, ma della migliore Dc, quella ‘tecnocratica’ e ‘migliorista’, elitaria e raffinata, che si riconosce, ancora oggi, nel pensiero e nelle intuizioni dell’ex ministro Beniamino Andreatta. ‘Ma anche’ con una attenzione – quasi spasmodica, cocciuta – ai new media, al mondo di Internet e dei social network, senza dimenticare i feticci – alcuni stracult – che hanno segnato la formazione, culturale e politica, del suo leader, e di una generazione: il subbuteo, e quindi il calcio (lui tifa per il Milan, ahinoi), il ‘radicamento’ in un quartiere, e non solo in una città (e qui l’anima è “divisa in due”, tra Testaccio, ‘core de’ Roma, e il quartiere radical chic dei bobo’ della Sorbonne, a Parigi), la filosofia della ‘generazione Erasmus’ (zaino in spalla) e la venerazione per gli ‘antichi maestri’ (Prodi, ma anche Edmondo Berselli, Andreatta ma anche Dylan Dog…). Ecco, il ‘nuovo’ Pd di Enrico Letta sarà un po’ come è lui, sospeso come un funambolo tra antichità e modernità, gusto per le novità e riconoscenza per le radici, proprie e altrui, generoso e, insieme, compassato, alto, lieve e profondo.
“La verità è sovversiva…”. Parla Filippo Andreatta
Lo si capisce, in fondo, ascoltando le parole che uno degli amici storici di Enrico Letta, Filippo Andreatta, figlio di Beniamino e professore di Scienza Politica all’università di Bologna, ha concesso, il giorno dell’elezione – ma è meglio dire della acclamazione – di Letta segretario al Quotidiano Nazionale (Giorno-Nazione-Resto del Carlino). Una intervista, come altre concesse dal ‘professorino’ Andreatta, amico del ‘professorino’ Letta, che è rivelatrice di persone che seguono un metodo di lavoro sistematizzato da Weber: “il lavoro intellettuale, o la scienza, come professione”.
“La verità: niente di più sovversivo” diceva e scriveva, più di un secolo fa, il fotografo surrealista Man Ray e ripeteva, con lui, non a caso, Beniamino Andreatta, che usava quella frase nei suoi manifesti elettorali insieme a una colomba, simbolo della pace, e a una pipa che fumava con voluttà.
La frase di Andreatta sulla ‘verità’ è stata usata proprio da Letta che l’ha citata nel suo discorso politico più importante come già aveva fatto quando divenne premier, nel 2013, davanti alle Camere. Ma Letta ha citato anche Filippo. Un ex ragazzo dell’Ulivo che ha condiviso, con Letta, molte esperienze, politiche (l’Ulivo) e dottorali (la Scuola di Politiche). Una specie di famiglia di geni della lampada, gli Andreatta: la figlia femmina, Eleonora detta Tinny, già capo della fiction Rai, dal 2020 è andata a capo di Netflix.
“L’esperienza che ha vissuto, per tanti anni, lontano dalla politica attiva lo ha reso diverso – spiegava Andreatta a Qn – Enrico oggi ha la credibilità e la forza di poter dire, come già Romano Prodi, ‘se mi volete bene, altrimenti vado altrove’. Non è e non sarà un uomo per tutte le stagioni”.
Ma che tipo di Pd sarà, quello di Letta? Risponde Andreatta: “Veniamo da un Pd che, nel 2018, era destinato a perdere le elezioni, e a perderle male, ma anche a perdere la propria anima. L’idea fondativa del Pd era, invece, quella dell’Ulivo e cioè l’unione di due riformismi. Agli elettori si chiedeva di scegliere tra due poli e di farlo prima delle elezioni. Un partito che, anche nello Statuto, predicava la sua vocazione maggioritaria, vocazione che si è persa. Oggi il Pd sostiene il governo Draghi, governo nato sulla base dell’emergenza pandemica e sociale, ma abbiamo conosciuto tre governi diversi e tre maggioranze di diverso colore (gialloverde, giallorosso e, ora, giallo-verde-rosso), in quattro anni, diverse dalle coalizioni che si erano presentate nel 2018, davanti agli elettori. Ma bisognerà pur tornare, alle prossime elezioni politiche, alla scelta tra due poli alternativi e recuperare l’idea fondativa su cui nasce il Pd. O torni a vincere, contro una destra rappresentata da Lega e FdI, sovranista e anti-europea, o stai all’opposizione. E stare all’opposizione, come ha detto Letta, a un partito ‘fa bene’, ti rigenera. La democrazia governante dice e vuole che si faccia così”, spiega ancora.
Ma sul piano delle alleanze con altre forze politiche? “Innanzitutto, c’è l’ambizione di allargare il nuovo Pd e recuperare i voti perduti: nel 2018 ne prese otto milioni contro quasi 19 milioni di voti presi dall’Unione nel 2008. Più di otto milioni di voti persi in dieci anni e andati tra astensione e altri partiti, anche non di centro-sinistra. Poi, c’è un Pd che vuole allargarsi al centro e vuole collaborare con tutti: +Europa, Azione, Italia Viva, i Verdi, come pure con LeU e i 5Stelle che ora saranno a guida Conte e quindi saranno ‘nuovi’ e comunque molto diversi da oggi. L’offerta del nuovo Pd per una nuova coalizione c’è, poi ognuno si prenderà la responsabilità di accettarla o meno. Ma servirà un patto di lealtà tra i contraenti del patto della nuova coalizione e servirà prima delle elezioni, non dopo”.
Legge elettorale e trasformisti: due proposte di sistema
Fin qui, le parole di Filippo Andreatta, ma poi, nella battaglia politica quotidiana, cosa potrà fare davvero Letta? Per esempio, le due proposte più ‘sistemiche’, sul piano politico e di ingegneria costituzionale, sono fattibili? Si tratta della richiesta, sostenuta con forza da Letta, di abbandonare la ricerca di un sistema proporzionale alla ‘tedesca’ che il Pd di Zingaretti aveva, vanamente, cercato e puntare, con decisione, sul ‘ritorno’ a quello spirito ulivista (coalizionale e maggioritario) che segnò la migliore cultura politica dell’Ulivo. E, dunque, rilanciare il Mattarellum – un sistema elettorale per tre quarti maggioritario e che solo per un residuo quarto ha il recupero di seggi proporzionale, ma soprattutto basato su collegi maggioritari secchi – o, al massimo, ‘rovesciare’ l’attuale legge elettorale, Rosatellum, aumentando di gran lunga la quota di collegi maggioritari. E, dall’altra, contro la pratica del ‘trasformismo’ endemico e storico delle classi parlamentari, che cambiano ‘casacca’ e schieramento a frotte, senza soluzione di continuità (ad oggi sono oltre 200 i ‘cambi di casacca’ di questa legislatura…), fare leva sui regolamenti parlamentari, partendo da quello, nuovo, del Senato, affinandolo e rendendo i suoi paletti ben più stringenti degli attuali, per impedire, di fatto, tre cose. Che i singoli parlamentari possano passare, impunemente, dal partito che li ha eletti a un altro. Che venga ‘proibita’ (il che comporta, però, un serio rischio di incostituzionalità) la possibilità di dare vita a gruppi parlamentari diversi da quelli con i quali si è risultati eletti davanti agli elettori. Che, infine, venga cancellato, ex abrupto, il gruppo Misto, obbligando i deputati e senatori che non vogliono iscriversi ad alcuna componente a restare nel limbo dei ‘non iscritti’, deprivati di finanziamenti, strutture e diritto di parola, come peraltro già avviene in seno al Parlamento Ue di Bruxelles. Norme choc e non facili, da un punto di vista del consenso politico, ma anche ‘sul filo’ del diritto parlamentare in quanto rischiano di cozzare contro una norma-totem della Costituzione, quell’articolo 67 che prevede l’assenza di ‘vincolo di mandato’ e, cioè, la libertà del parlamentare ‘anche’ di cambiare schieramento, bandiera e casacca…
“Quante sono le nostre correnti?” Il male oscuro del Pd
Inoltre, si pone anche un altro problema, non di poco conto. Quanto e come il ‘nuovo’ Pd di Letta vincerà sul ‘vecchio’? E i ‘maggiorenti’ e i ‘big’, a Letta, glielo lasceranno fare? Ecco, la domanda non è peregrina. I big, e le loro correnti.
Gli zingarettiani orfani di Zingaretti, ormai dimessosi, gli orlandiani di ‘Dems’ guidati dal ministro Andrea Orlando, la sinistra interna, le vecchie aree di Gianni Cuperlo e altri, ‘a sinistra’. Area dem, l’area guidata dal sempre silente – ma decisivo, nell’elezione di Letta – Dario Franceschini, al centro. Per restare nell’ambito della ‘vecchia’ maggioranza congressuale che, nel 2019, elesse Zingaretti segretario. E, invece, tra le ‘nuove’ minoranze interne, la vecchia area dell’ex ministro Maurizio Martina, oggi volato alla Fao, FiancoaFianco, ereditata dal capogruppo Graziano Delrio. Base riformista, la minoranza più corposa, dentro il Pd, capitanata dal ministro Lorenzo Guerini e da Luca Lotti. E, infine, l’area dei Giovani turchi guidati da Matteo Orfini. Questa complicata, a volte sovrastimata, super-fetata, ‘geografia’ interna che lo stesso Letta ha detto di “non” conoscere bene, o a menadito (ma anche lui aveva una sua corrente, i ‘lettiani’, scioltisi come neve al sole quando Renzi ‘cacciò’ Letta da palazzo Chigi, l’#enricostaisereno) accetterà, supinamente, i diktat del ‘salvatore della Patria’, senza fiatare, oppure presto rialzerà la testa e gli darà guai? Troppo presto per dirlo, ma una cosa è certa. Il ‘caso Roma’ con l’improvvida auto-candidatura dell’ex ministro Roberto Gualtieri, senza che Letta ne sapesse niente, ma con l’aiuto, fattivo, di Goffredo Bettini, storico mentore di Zingaretti, come di Conte, e di alcuni ras locali dell’ex Pci-Pds-Ds-Pd (Claudio Mancini), dimostra che ne ha di strada da fare, e pure di polvere da mangiare, il buon Enrico. E pure che qui “si parrà la sua nobilitade”, come diceva il Sommo Poeta.
Le first choice di Letta: Tinagli e Provenzano come vice
Per ora, le prime due nomine della segreteria Letta, quelle dei due vicesegretari, l’ex ministro Peppe Provenzano e la economista, ex deputata, oggi al Parlamento europeo, Irene Tinagli, dimostrano che Letta sta ‘vincendo a metà’. La scelta della Tinagli – economista di vaglia, liberal a tutto tondo – è sua, di ‘casa Letta’, che l’ha preferita ad altre donne blasonate, ma tutte ‘di corrente’ (Pinotti, Serracchiani, Fedeli, etc.). La scelta di Provenzano, invece, per quanto giovane e brillante sia l’ex ministro al Sud, è un cedimento alle correnti. Il guachiste Provenzano, infatti, è della filiera di Orlando ed è stato questi a imporlo, anche se Letta “ci va d’accordo”. In fondo, Letta mantiene con Bersani un rapporto affettuoso e persino con Stefano Fassina ricambia rispetto e amicizia, ma di certo Provenzano è lontano anni luce dal ‘lettismo’.
La nuova teoria delle alleanze. Il Pd torna ‘al centro’
Certo, è troppo presto, per parlare. Gli atti della ‘era Letta’ hanno bisogno di qualche mese di tempo, almeno, per dispiegarsi nei loro effetti e per diventare fatti concreti. Come pure la scelta delle alleanze e degli ‘alleati’ con cui parlare. Un Pd che, nella testa di Letta, ritorna ‘centrale’, vuole privilegiare prima di tutti gli alleati ‘naturali’ del Pd, e dunque l’alveo del centrosinistra ‘storico’ e ‘classico’: Iv, al costo e al prezzo di ‘fare pace’ persino con Matteo Renzi, ma anche +Europa, Azione, ‘a destra’, LeU nella versione Art. Uno e SI, ma pure i Verdi e il Psi ‘a sinistra’. Poi, solo in una seconda fase, è previsto quello che – per Bettini come per Zingaretti – era invece l’abbraccio mortale e cioè l’incontro/confronto con i 5Stelle, ora a guida Conte. Ma è evidente che il Pd, nello schema di gioco di Letta, torna dichiaratamente ‘centrale’, polo centripeto della nuova alleanza politica di un nuovo Centrosinistra, e non un partito ‘a rimorchio’ di altri, soprattutto dei CinqueStelle. Letta, però, ha bisogno di vittorie politiche tangibili, per poter continuare a guidare, e saldamente, il suo nuovo Pd. Il governo Draghi, ovviamente, “è l’architrave” della nostra politica, ha detto Letta (per Zingaretti era un obtorto collo), ma deve essere aiutato a combattere, e sconfiggere, il Covid come la crisi economica e sociale che attanaglia il Paese. Le riforme che ha in mente Letta – istituzionali, sociali, etiche, come lo ius soli – devono trovare eco, e voti, in Parlamento. Il Pd deve vincere, e non solo ‘non perdere’ le comunali e le importanti amministrative di ottobre, quando si voterà a Milano, Torino, Bologna, Napoli e, soprattutto, a Roma, con candidature credibili e autorevoli, prima che ‘larghe’. Per dirla con un francese, caro a Enrico Letta, e non solo, il generale De Gaulle, vaste programme. Non sarà facile, certo, ma ‘se non ora, quando?’ e poi, ‘se non Letta chi?’.
Foto: Enrico Letta agli stand dell’ultima Festa Nazionale dell’Unità (Pd Modena / Flickr).