C’è un filo che unisce il cammino della cosiddetta Primavera araba, dei suoi sogni, e il pontificato di Francesco, il cui ultimo libro si intitola “Ritorniamo a sognare”? Credo di sì e probabilmente possiamo trovarne il bandolo già nel 2013, poco dopo l’elezione di Francesco, quando si dimostrò il miglior interprete della Primavera scrivendo nella sua Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”: “In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza”.
Queste rivendicazioni si basano su quella richiesta di cittadinanza che Francesco ha posto al centro della sua enciclica “Fratelli tutti” e del Documento sulla Fratellanza che ha firmato ad Abu Dhabi con l’imam di al-Azhar nel febbraio 2019. Ora, proprio nel decennale della Primavera, il 3 marzo 2021, cioè nel decennale delle dimissioni dell’ex primo ministro egiziano Ahmad Shafiq, che pose termine alla mobilitazione popolare di Piazza Tahrir, Francesco arriverà a Baghdad: non solo visiterà l’ex capitale dell’Isis, Mosul, da dove furono cacciati tutti i cristiani, ma per la prima volta nella storia farà sì che un successore di Pietro visiti i luoghi natali di Abramo, ad Ur, dove – stando all’auspicio espresso dal patriarca caldeo, il cardinale Sako – presiederà un evento non ordinario, la preghiera comune di esponenti di tutti i riti monoteisti presenti in Iraq nel corso della quale saranno letti brani biblici e coranici inerenti ad Abramo, il padre comune. Il significato di questo viaggio, in un Iraq ancora alla ricerca di una pace difficilissima tra opposti estremismi, è intimamente legato agli aneliti di molti protagonisti di questo decennio, cominciato lontano da Baghdad, ma giunto con i suoi canti e le sue richieste fin lì, da Tunisi. Nel nome di un povero venditore ambulante.
17 dicembre 2010, primo mattino. Dopo aver speso l’equivalente di 200 dollari statunitensi per acquistare frutta e verdura da alcuni grossisti, Basboosa, come tutti lo chiamano in paese, dispone la merce sul suo carretto e raggiunge le strade del centro. E’ felicissimo, convinto di aver fatto un ottimo acquisto, la frutta migliore che abbia mai trovato: l’indebitamento per comprarla certamente avrà buon frutto e così potrà finalmente fare un regalo a sua madre. Una pattuglia della polizia municipale però lo ferma, getta via la merce, gli confisca le bilance, lo insulta, probabilmente un agente lo schiaffeggia, lo colpisce con lo sfollagente. Vogliono dei soldi sottobanco per lasciarlo lavorare in pace? E’ probabile, corruzione e abuso di potere sono prassi nel suo paese, la Tunisia. Ma lui non ci sta, dice agli agenti, “Perché mi fate questo? Sono una persona semplice, voglio solo lavorare”, e va al palazzo del governatore, vuol far valere i suoi diritti e chiedere indietro le sue bilance. Non viene ricevuto, ovviamente, ma lui informa i funzionari che hanno un’ora di tempo per farlo parlare con il governatore, altrimenti si darà fuoco: “secondo voi cosa dovrei fare per vivere?”
Quando si sono fatte le undici si allontana, va a comprare della benzina, torna al palazzo del governatore e poco prima di mezzogiorno si dà fuoco. Prima di farlo però scrive su Facebook: “Me ne vado, mamma, perdonami, i rimproveri sono inutili, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me, io me ne vado e la mia partenza è senza ritorno, io non ne posso più di piangere senza lacrime, i rimproveri sono inutili in quest’epoca crudele, su questa terra degli uomini, io sono stanco e non mi ricordo niente del passato, me ne vado chiedendomi se la mia partenza mi aiuterà a dimenticare.” Accanto a lui ci sono tante persone: alcuni cercando di aiutarlo peggiorano la situazione gettandogli addosso dell’acqua che non fa che estendere le ustioni. Così corrono nel palazzo del governatore, prendono l’estintore: è vuoto. Serve mezz’ora perché arrivi l’ambulanza.
Il giorno dopo una piccola folla si raduna proprio lì, in segno di protesta e solidarietà con Bouazizi. Il video della protesta viene postato fu Facebook e ripreso da Slim Amamou, un blogger tunisino di 33 anni. La notizia si diffonde, non svanisce nel nulla: qualche giorno dopo Houcine Neji, giovane disoccupato, sull’onda dell’emozione per il gesto di Bouazizi, si arrampica su un palo dell’alta tensione, lasciandosi fulminare. Altri fanno lo stesso, altri ci provano. E’ cominciata così, dieci anni fa a Sidi Bouzid, in Tunisia, la Primavera araba. La storia del giovane Muhammad Bouazizi -all’anagrafe Tarek Bouazizi- si è conclusa nei primissimi giorni del 2011, quando è morto nell’ospedale della capitale dove è stato tardivamente trasferito. Lui riposa nel cimitero di Garaat Bennour, tra cactus, ulivi e mandorli.
E’ strano: una certa storiografia islamica ha sempre voluto rappresentare Maometto come un analfabeta, e questo probabilmente per confermare l’origine divina del Sacro Corano. Di certo comunque non era un uomo di lettere, orfano aveva poi scelto il commercio, ma con il Corano ha creato una lingua scritta, l’arabo classico, e un popolo. Anche di Bouazizi non sappiamo bene che studi abbia fatto: orfano di padre dalla più tenera età e con sei fratelli e sorelle, aiuta la madre sin da piccolo, ma non è certo a che età abbia lasciato la scuola per cominciare la sua vita di venditore ambulante. Con il suo gesto, la sua scelta di immolarsi, ha creato un popolo? Forse sì, di certo ha avviato un processo di popolo nel quale lui stesso ha fatto capire che Facebook e i blogger avrebbero svolto un ruolo cruciale. Inoltre ha fatto vedere dove due ideologie fallite – panarabismo e panislamismo – hanno condotto quei popoli: a immolare le loro vite. Bouazizi si è immolato d’avanti al palazzo del governatore, cioè del potere, quel potere che sia i panarabisti sia i panislamisti hanno usato contro gli arabi o i musulmani nella loro feroce lotta per conservarlo, assoluto.
Ideologia laica e ideologia religiosa, panarabismo e panislamismo si sono uniti in una deriva: vedere nel mondo, o nel resto del mondo, il male assoluto. Il panislamismo si è costruito una visione anti-islamica nella quale fuori da sé c’è soltanto il tradimento della sottomissione a Dio. Questa visione è il contrario dell’Islam popolare, che sta nel mondo e non crede che il resto del mondo sia corruzione. Il panarabismo ha finito col credere nella stessa cosa: fuori dalle casamatte del potere panarabista c’è il mondo vizioso, imperialista e corrotto, chi dissente è certamente un pagato dalle forze del male, un traditore.
Il problema più frequente è quello di scegliere il paradigma da usare per leggere la storia recente del cosiddetto “mondo arabo”: quello per noi più importante, quello degli orientalisti, trova nell’esempio iracheno una sorprendente efficacia, che ne dimostra la immutabilità storica. Il secondo proconsole britannico in Iraq, sir Arnold Wilson, era proprio un orientalista nel senso negativo del termine. La sua autorevole interlocutrice del tempo, Gertudre Bell, non gli era da meno, ma già nel 1919 lei seppe avvertire Londra: “non c’è altro modo di tenere le genti della Mesopotamia sulla strada della pace che quella di dar loro qualcosa alla quale non desidereranno di rinunciare.” La risposta di Arnold Wilson fu secca: la Bell questa volta a suo avviso aveva torto marcio perché non vedeva la profonda divisione settaria tra sunniti e sciiti, curdi e arabi: mai gli sciiti avrebbero accettato un potere imposto dai sunniti. Ma già i mesi successivi si dimostrarono molto duri per Wilson, tanto che subito dopo la Conferenza di San Remo, che ratificò i protettorati, si trovò costretto a parlare ufficialmente di concessioni al fronte indipendentista arabo. Era la lezione del Ramadan, il mese santo dei musulmani, nel quale il fronte indipendentista, sorprendendo Wilson, riuscì prima e dopo San Remo a unificare sciiti e sunniti nella protesta comune per le strade di Baghdad. Resistere per la corona divenne costoso, e anche qui si ha l’indicazione di una costante orientalista: se erano gli interessi petroliferi alla base dei più strenui sostenitori dell’opzione “civilizzatrice” della Regina e dei suoi soldati, era pur sempre britannico quel The Times di Londra che piccato stampò in un suo editoriale: “ogni governo, per quanto larga ne sia la maggioranza, che proponga di seguitare a obbligarci a dare 40 milioni di sterline l’anno per le popolazioni semi-nomadi della Mesopotamia porrà una sopratassa sulla pazienza del Paese.”
Qui abbiamo due indicazioni preziose: il dato settario come chiave di interpretazione di quelle realtà nella mortificazione dell’esistenza di un’identità nazionale, il valore del petrolio e il disvalore delle spese per lo sviluppo dell’area (i 40 milioni di sterline andavano in realtà al sostentamento della guarnigione britannica di stanza in Iraq, come poi sarebbero andati sempre e solo agli eserciti gli stanziamenti statali nell’epoca post-coloniale).
Questi criteri di “governo” sono diventati i criteri di fondo dell’epoca post-coloniale: le classi, o tribù, o clan dominati hanno “sgovernato” sempre facendo riferimento al dato settario, o clanico e al disvalore dello sviluppo. Rileggendo in questa chiave la storia, la stessa epoca della “catastrofe”, successiva cioè alla sconfitta del ‘67, può essere letta come capacità di pensare un “riscatto” che non passi per vie militari, ma civili, economiche, socio-culturali. Eppure il controllo delle risorse energetiche, soprattutto in Paesi a scarsissima densità abitativa, lo avrebbe consentito. Ma neanche dal punto di vista infrastrutturale i ceti dirigenti arabi hanno voluto dare al loro mondo uno sviluppo comune, che potesse determinare una crescita economica regionale. Piuttosto si è puntato sull’economia da rendita da reinvestire nelle economie dei grandi paesi alleati, in modo da tenerli tali.
Se per alcuni studiosi il dato più importante da considerare è che le grandi novità politiche europee sono, purtroppo per gli arabi, arrivate da loro negli anni dell’Ancien Regime lasciando quella visione in certo ceto politico, forse la vera sfortuna culturale di quel mondo è stata quella di vedere molti suoi intellettuali di primo piano entrare in contatto culturale con l’Europa nell’epoca di Fichte e Novalis, il cui “Verrà, deve venire, il tempo della pace perpetua, in cui la nuova Germania sarà la capitale del mondo”, riecheggia nella visione panarabista del padre del Baath, Michel Aflaq, per il quale la “missione civilizzatrice” invocata da tanti colonialisti europei, anche di quella sinistra francese nelle cui fila si formò e che lo avevano deluso per la scelta coloniale dei governi del Fronte Popolare, si trasformava nella missione civilizzatrice della grande nazione araba, che rappresentava ai suoi occhi la causa proletaria trasferita a livello internazionale con la rivoluzione proletaria della nazione negletta contro gli imperi borghesi. Anche per questo in nessun Paese arabo c’è stata una rivoluzione industriale né una “rivoluzione francese”.
Messa in crisi dal colonialismo europeo la grande stagione del Risorgimento arabo, la Nahda, fatta di arti, cultura, fratellanza e concerto tra le nazioni, la Guerra Fredda ha poi portato ad uno spietato duello tra restaurazione reazionaria delle monarchie del Golfo, alleate degli Stati Uniti, e generali golpisti impossessatisi della visione panarabista. Due campi, una sola cultura, sebbene vissuta su opposte barricate: quella dell’ accaparramento clanico all’ombra della criminalizzazione del “mondo esterno”: esterno alla setta confessionale o esterno all’ala marciante della nazione araba.
E’ stato questo il senso drammatico degli anni Ottanta, quando la promessa “laica” di redistribuzione dei dividendi della decolonizzazione si dimostrò tradita nel più indiscutibile dei modi. La scomparsa della politica divenne il volano dell’ultima illusione rivoluzionaria, avversata da entrambi, petromonarchi e generali golpisti: “la vera giustizia sociale verrà dalla sharia”, la sfida di Qutb, l’ideologo dell’ala estremista della Fratellanza Musulmana. Questa sfida, nata nel campo sunnita, è stata sposata e condivisa in termini apocalittici dallo sciita Khomeini, che ha tradotto e divulgato il pensiero del sunnita Qutb. La corsa parallela dei due contrapposti estremismi che avrebbero incarnato la disperazione araba sfidava entrambi i blocchi politici con un urlo che avrebbe terrorizzato un mondo privo del desiderio, o della volontà di capire.
Per paradosso proprio loro, i Fratelli Musulmani, hanno avuto in tasca il biglietto vincente della lotteria della Primavera, quando un loro esponente, Morsi, si è insediato alla Presidenza dell’Egitto. Ma lui e il “partner” Erdogan non si sono dimostrati all’altezza della sfida. L’idea dello “stato civile”, un modo arabo per dire “stato laico” senza cadere nell’equivoco di stato ateo, è durata lo spazio di un breve discorso al Cairo. Poi tutto è stato smantellato, di corsa, e ne ha tratto vantaggio il nuovo militarismo golpista e megalomane, quello di al Sisi.
Così gli arabi si sono trovati orfani anche della loro Primavera, presentata da alcuni con sapiente cinismo come un “Inverno” . Dunque il vero intellettuale del terzo millennio arabo è stato Tarek Bouazizi detto Muhammad? Il suo gesto ha creato quello slogan che dalle piazze tunisine tutti li ha uniti: “il popolo vuole la caduta del regime”.
Cosa rimane? Rimane quel filo che si vuole strappare, a Beirut. Negli accordi di pace del 1989, dopo 15anni di guerra civile, si seppe prevedere una formula che è la formula che vale per tutti i paesi arabi, dove solo la cittadinanza può salvare dal collasso della politica. Questa cittadinanza deve preservare le varie comunità di fede dal timore di essere perseguitate o eliminate, e deve dare a ogni cittadino il diritto di esprimersi anche fuori dal perimetro comunitario, settario. Come fare? Creando due Camere. Una, nella quale ci si esprime per appartenenza comunitaria, religiosa, confessionale, offrendo così tutela a tutte le comunità. Nell’altra Camera invece ci si esprime come individui, dando la propria preferenza a partiti di destra o di sinistra, di centro o altro, nei quali unirsi con altri individui di altre appartenenze di fede. Così sarebbero nati i veri cittadini di un Paese arabo. Oggi non sorprende che Hezbollah, ala marciante del comunitarismo in armi, voglia cancellare anche quel poco che è stato attuato degli accordi di pace libanesi. Ma quando gli arabi hanno detto che il popolo vuole la caduta del regime hanno detto che ognuno nella propria specifica realtà non vuole nessun regime ma un sistema inclusivo, come quello pensato dopo la guerra civile libanese. Di quegli accordi Tarek Bouazizi detto Muhammad probabilmente poco o nulla sapeva, ma della loro visione di fondo, l’empatia cittadina, è stato il grande interprete, benché non avesse concluso gli studi.
Proprio questa cittadinanza, dopo secoli di discriminazioni fondate sul settarismo o sul confessionalismo, che hanno fatto di ebrei e cristiani “le minoranze protette” – cioè cittadini di serie B – è il tassello centrale del Documento sulla Fratellanza firmato da Francesco e l’imam di al-Azhar, Ahmad Tayyeb, affermando: “Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli. Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura”. E’ difficile non scorgere in queste ultime parole il sogno infranto di Bouazizi e di tanti che lo seguirono.