Mentre il governo Conte affonda e affoga nelle sue contraddizioni, e nonostante la netta vittoria riportata, in sede di Consiglio Ue, sullo stanziamento dei fondi del Recovery Plan per l’Italia in questo scorcio di afoso luglio romano, Goffredo Bettini, ‘ideologo’ del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, intervistato dal Corriere della Sera, si mostra imperturbabile e coriaceo ancora il 13 luglio scorso: “In una situazione estrema, sono convinto che un’alleanza tra l’insieme delle sinistre, Conte con la sua attuale forza politica, i 5Stelle, e un eventuale polo liberal-democratico sia competitivo già da oggi contro la destra sovranista”.
È solo l’ultimo sforzo in ordine temporale, ma non di importanza, quello di Bettini, per giustificare, a tutti i costi, la cosiddetta “alleanza organica” tra Pd e M5s. Bettini aggiunge, in più, agli astanti, per rendere più digeribile il cocktail, una miscela di ‘contismo’ (un eventuale partito del premier, dato molto forte in tutti i recenti sondaggi) e una spruzzata di ‘liberal-democratici’ non meglio identificati (Iv di Renzi? Azione di Calenda? +Europa della Bonino? Tutti questi movimenti e/o partiti ancora allo stato pulviscolare) che si ‘portano bene’ in ogni stagione politica, almeno a guardarla con gli occhi della sinistra storica.
L’idea di Bettini: ‘l’alleanza strategica’ tra Pd e M5s
Il problema è che la presunta ‘alleanza strategica’ tra Pd e M5s, oggi i due principali partiti sostenitori dell’attuale maggioranza di governo, che da ‘giallorossa’ è diventata ‘quadripartita’ (Pd-M5s-LeU-Iv), è molto ‘strategica’ per il Pd (quello a guida Zingaretti, almeno, ma anche quello che vede nel ministro Dario Franceschini il suo referente) e molto meno per i 5Stelle (quello che, nell’ombra, vede agitarsi Di Maio, mentre Beppe Grillo ci crede molto).
Più corretto sarebbe parlare di ‘strana alleanza’, tra i due principali partiti che oggi reggono le sorti del governo presieduto da Giuseppe Conte, premier per tutte le stagioni. E qui sovviene il dizionario di lingua italiana, il Sabatini-Colletti, che indica, in ‘strana alleanza’, “l’intesa politico-militare tra due o più stati per il raggiungimento di determinati obiettivi territoriali, economici, politici”. Siamo, dunque, nell’ambito delle ‘operazioni militari’ e, in effetti, più che altro questo appare, l’alleanza tra Pd e M5s: una ‘strana alleanza’ tra due soggetti che, non vi fossero obbligati, si guarderebbero in cagnesco, facendosi la guerra.
Dagli insulti reciproci al ‘rovesciamento delle alleanze’
Va detto che di passi in avanti, dagli inizi dei rapporti tra due partiti che – per storia, tradizione, formazione e vocazione – non potrebbero essere più lontani e diversi, ne sono stati fatti eccome. Il ‘Pdmenoelle’ contro il quale proprio Grillo deluso dal suo tentativo di ‘contaminare’ la sinistra, aveva dato vita e luce al Movimento 5Stelle, è diventato un ‘alleato’ di governo. E un alleato a tal punto ‘prezioso’ che Grillo, vincendo le resistenze dei suoi, ha voluto farci prima un governo insieme, quello attuale, e ora aspira di volerci costruire ben più che una ‘alleanza strategica’: il vero ‘sogno’ dell’ex comico, infatti, è quello di dare vita a un unico ‘contenitore’ dai tratti ambientalisti, progressisti e solidaristi, che trasfonda e trasfiguri entrambe le due esperienze partitiche ‘datate’ (Pd e pure M5s, che per Grillo ha perso la sua ‘spinta propulsiva’) in un unicum politico, ideologico e culturale indistinto e informe, talmente gelatinoso da prevedere ‘capi assoluti’ e primarie, uso della Rete e dirigenti radicati nei territori e via dicendo.
Per ora, tra i due ex ‘duellanti’, Pd e M5s, regna, in realtà, una ‘tregua armata’, più che una vera alleanza, figlia di un fatto storico avvenuto un anno fa. Proprio come capitò durante la Guerra dei Sette Anni, quando Federico di Prussia si ritrovò contro la ‘strana alleanza’ composta da due nemici storici, Francia e Austria, il ‘rovesciamento delle alleanze’ che ha portato Pd e M5s, da fieri avversari, ad alleati di governo è scattato l’8 agosto del 2019, quando Salvini, novello re di Prussia, decise che era arrivata l’ora di dare ‘scacco’ ai suoi nemici e correre verso le elezioni, con la contestuale, improvvida, richiesta di ‘pieni poteri’.
Il ‘combinato disposto’ messosi in moto in quel frangente è stato davvero curioso, una sorta di ‘congiunzione astrale’: al Colle si premeva per evitare una rovinosa corsa verso elezioni anticipate a settembre, sotto manovra economica; nel Pd, dimessosi ormai da tempo, Renzi – dopo aver lanciato la ‘strategia del pop-corn’ contro il governo gialloverde che era nato, nel 2018, dopo tre mesi di stallo – era così inorridito all’idea di ritrovarsi a dover affrontare nuove elezioni da posizioni di minoranza nel Pd, da cambiare posizione tattica e strategica aprendo al governo dei ‘virtuosi’ contro il ‘proclama del Papeete’ di Salvini; sempre nel Pd il nuovo segretario, Zingaretti, pure tentato di andare al voto per ‘allineare’ i gruppi parlamentari, eletti sulla base di liste formate da Renzi, al suo ‘nuovo corso’, aveva accettato, suo malgrado, il patto con i 5Stelle; nel Movimento, ancora in sella Di Maio, ma ritornato in scena con prepotenza Beppe Grillo, era stato questi a chiedere, alla sua ‘creatura’, una svolta epocale e l’abbraccio col Pd; infine, il premier uscente, Conte, il cui unico obiettivo era – ed è – quello di ‘durare’, alla andreottiana maniera, si era posto come elemento di necessaria continuità ai vertici del governo. Governo che, in un battibaleno, a fine agosto, era nato con una composizione quasi paritetica, tra Pd e 5Stelle, al suo interno (capodelegazione Franceschini per parte dem e Di Maio per parte M5s), più LeU e poi allargato a Iv, nata dalla fulminea scissione di Renzi dal suo ex partito. Governo che aveva, ed ha, un suo fulcro nel premier, Conte, passato senza soluzione di continuità dall’uno al bis.
Da allora in poi, un solo fatto davvero nuovo è successo, politicamente, ed è accaduto dentro i 5Stelle: le dimissioni di Di Maio da ‘capo politico’, il passaggio delle consegne, nel partito, al ‘reggente’ Vito Crimi e, al governo, al nuovo capodelegazione, Alfonso Bonafede, con Beppe Grillo che, da poco, è tornato prepotentemente a ‘dettare la linea’. Una linea che si può tradurre così: sì all’alleanza con il Pd, sì a che Conte resti premier, nessuna preclusione verso FI o altri che rafforzino la maggioranza, messa in minoranza e in mora della minoranza ‘rebelde’ capeggiata da Di Battista; rottura finale del sodalizio con il figlio dell’altro Fondatore, Davide Casaleggio, alleggerimento della presa di questi sul Movimento, sganciamento progressivo dalla piattaforma Rousseau, sostanziale trasformazione del M5s in ‘partito’ vero e proprio con organi elettivi e democratici interni, etc. Il tutto con, alle viste, appunto, l’approdo finale ‘nel’ Pd o, meglio, nel centrosinistra, per un’alleanza davvero organica – cioè lo stesso ‘sogno’ di Bettini, Zingaretti, Franceschini e quasi tutto lo stato maggiore dem, eccetto gli ex renziani.
L’insistere sull’alleanza strategica può ‘perdere’ il Pd
Ma con una coalizione che in quasi un anno ha regolarmente faticato a rispecchiare le ‘bandierine’ piantate dal Pd – dalla modifica dei decreti sicurezza al superamento di quota 100, dalla battaglia infinita su Autostrade fino all’adesione al Mes – quali le ragioni di fondo per mantenere in piedi un’alleanza che, al Pd, di fatto, ha portato solo ‘rogne’? Non basta parlare, in modo semplicistico, di attaccamento alle ‘poltrone’, quelle che il Pd ha conquistato, andando al governo, o di ‘brama di potere’ che ne verrebbe soddisfatta. Dietro c’è, appunto, un disegno, quello dell’alleanza strategica per rendere competitivo, un domani, quando prima o poi si dovrà tornare a votare (più realistico che ciò accada alla scadenza naturale della legislatura, nel 2023, ma non sono esclusi colpi di scena: elezioni anticipate a inizio 2021, prima che inizi, ad agosto, il ‘semestre bianco’ che prelude alla elezione del nuovo Capo dello Stato nel 2022), un centrosinistra dalla formula ‘rinnovata’ che vedrebbe, Pd e M5s miscelarsi e corroborarsi a vicenda come pezzi centrali e pregiati di una coalizione che, affiancata da due ‘ali’ – il ‘partito di Conte’ e il polo ‘liberaldemocratico’, dovrebbe/potrebbe contendere al centrodestra la vittoria.
L’alleanza strategica, a livello locale, non è mai nata…
Da qui la richiesta, più volte reiterata, del Pd verso i Cinque Stelle di stringere alleanze ‘organiche’ anche alle Regionali che si celebreranno nell’election day del 20/21 settembre. Il risultato della richiesta, però, ad oggi è zero. Non vi è, allo stato, nessuna regione – esclusa la Liguria, con l’accordo last minute sul nome di Ferruccio Sansa – dove l’alleanza tra Pd e M5s ha preso realmente corpo e, allo stato, il centrodestra potrebbe vincere molte sfide alle Regionali. Senza dire del fatto che nell’unica regione in cui tale ‘alleanza organica fu sperimentata, e cioè l’Umbria, a novembre del 2019, gli esiti furono rovinosi, non si vedono ‘intese’ larghe prendere forma né alle Regionali né alle comunali che, sia a settembre sia nel 2021, nelle maggiori città italiane (Torino, Roma, Napoli), andranno al voto.
Insomma, la ‘strana alleanza’ tra Pd e M5s è sempre più ‘strana’ e sempre meno ‘organica’ e, allo stato, non se ne vede un limpido futuro. Per tacere del fatto che adottare una legge di impianto proporzionale, pur con lo sbarramento al 5%, non incentiva di certo e di fatto la nascita di coalizioni.
La ‘strana alleanza’ e l’eventualità che si rompa presto
Ma cosa potrebbe succedere, di concreto, in autunno? Molti osservatori paventano un ‘autunno caldo’, tensioni sociali forti, problemi economici insormontabili e la necessità, come minimo, di un rimpasto di governo, se non della nascita di un governo del tutto ‘nuovo’, forse allargato a FI. Un governo ‘rosa-giallo-azzurro’ darebbe migliori garanzie all’Europa, sul rispetto della solidità degli impegni presi in sede Ue, e assicurerebbe migliore e più serena vita, e navigazione, alla maggioranza, specialmente al Senato, dove i numeri dell’attuale coalizione sono periclitanti. L’alternativa, ovviamente, a un Conte ter che nascerebbe, di fatto, sulla falsariga di quello in carica, il Conte bis, è un governo di ‘unità nazionale’ o di ‘emergenza’, magari guidato da personalità forti e autorevoli come Mario Draghi. Un governo che sarebbe ‘di tutti’, cioè privo di colore politico, ma appoggiato da quasi tutti i partiti. Una prospettiva, di fatto, di governo ‘tecnico-istituzionale’, come già ve ne sono stati, nella storia (Ciampi, Monti, etc.).
Armi di riserva
Non sono passate inosservate, da questo punto di vista, le ‘visite’ e gli incontri che l’ex capo politico dei 5Stelle, Luigi Di Maio, ha tenuto sia con l’ex capo della Bce, Mario Draghi, che con Gianni Letta, ambasciatore di Berlusconi, pronto a fornire il ‘soccorso azzurro’ sul Mes. Ma proprio Di Maio punta a contendere non solo all’ala oltranzista di Di Battista &co., ma anche a quella ‘filo-dem’ personificata da Grillo, la leadership del Movimento, in vista degli Stati Generali del M5s in autunno, mentre, dentro il Pd, si scalda a bordocampo la nuova leadership di Stefano Bonaccini, oggi governatore dell’Emilia-Romagna sempre più amato e benvisto, ove Zingaretti dovesse perdere le Regionali, il governo dovesse naufragare e la partita per la guida del Pd riaprirsi. Certo è che se è vero che sono le leadership, sempre di più, a ‘fare’ i partiti, la guida di Di Maio nei 5Stelle da un lato e di Bonaccini nel Pd dall’altro farebbero saltare ogni ‘alleanza organica’, tra Pd e M5s: Di Maio tornerebbe a guardare alla Lega, ma anche a FI, il Pd ai ceti medi, a Renzi e ai partiti centristi. La ‘strana alleanza’, dunque, reggerà fin quando Grillo e Zingaretti resteranno ai loro posti di combattimento. Solo Conte, paradossalmente, è la vera pedina sacrificabile. Ma dopo il ‘trionfo’ brussellese sul Recovery Fund, mangiare quella pedina pare oggi fuori portata per chiunque.
Foto: Vincenzo Pinto / AFP