La memoria, in tempi “virali” – reali e figurati – fa ancor più brutti scherzi. Presi dall’ebbrezza dell’estate riconquistata, fatichiamo a richiamare alla mente la tristezza e l’angoscia dei giorni del lockdown collettivo. Figuriamoci a ricordare quel che si diceva dell’Europa quattro mesi fa. Eppure rievocare oggi quei discorsi è indispensabile, per misurare il peso del ribaltamento politico consumatosi questa settimana.
Quando ai primi di marzo il Vecchio Continente si ritrovò in casa lo sconosciuto virus mortale, con l’Italia e poi la Spagna falcidiate, l’immediata risposta dei governi fu un sostanziale “si salvi chi può”. Le richieste d’aiuto ai partner europei – in termini di attrezzature e dispositivi medici prima di tutto – caddero nel vuoto, come ha dimostrato una recente inchiesta del Guardian. L’unica pronta misura adottata, unilateralmente e in ordine sparso, fu la chiusura dei confini nazionali ad ogni Paese potenzialmente infetto. Nel giro di poche settimane fu chiaro, altrimenti detto, che sotto i colpi della pandemia, oltre a migliaia di vita, rischiava di soccombere pure il progetto europeo. Una minaccia reale, non di scuola, come scrivemmo anche su queste colonne (anzi, su quelle internazionali di ResetDOC).
Oggi, cinque mesi dopo il famigerato “caso 1” di Codogno, pare di vivere in un’altra Europa – politicamente, s’intende. Merito dell’accordo raggiunto all’alba di martedì dopo mesi di conciliaboli e quattro interminabili giorni di negoziati finali. “Notevole, mirato e limitato nel tempo”: così i capi di Stato e di governo descrivono nella nota finale del Summit il fondo Next Generation EU che costituirà la risposta straordinaria dell’Unione alla crisi dettata dalla pandemia. Peccando di modestia, per acquetare le ansie dei “frugali” nordici. Perché l’autorizzazione data dai governi alla Commissione a raccogliere risorse sui mercati per conto dell’Unione, dunque fare debito europeo, è un salto di qualità storico nel decennale progetto d’integrazione.
Da esecutrice dei programmi dettati dal Consiglio, e al più “guardiana” dei Trattati, la Commissione diventa motore finanziario del rilancio continentale. A tempo determinato? Può darsi. Ma il “bazooka” da 750 miliardi di cui potrà dotare l’Ue è un salto in avanti senza precedenti in questo squarcio di secolo.
Diciamo la verità, ora che si può mettere un punto fermo: era da tre lustri che all’Ue non riusciva una vera ciambella col buco, una conquista tale da “spostare gli equilibri”, anche in termini di popolarità tra i suoi stessi cittadini. Da quando, esattamente quindici anni fa, affondò sotto i colpi dei referendum francesi e olandesi (ops) il progetto di Costituzione Europea con tanta fatica partorito. Tutto ciò che l’Unione aveva potuto fare di lì in poi, in fondo, era parare i colpi. “Aggiustare” l’architettura comune con il Trattato di Lisbona (2007-8), evitare il collasso della zona euro con l’intervento d’ultima istanza della Bce (2012), tamponare l’”emergenza” migranti con accordi di redistribuzione mai davvero diventati realtà (2015).
Nessuno nei Palazzi di Bruxelles può dirlo oggi esplicitamente, ma quello di luglio 2020 – con buona pace delle frotte di politici ed editorialisti già pronti a dare l’assalto all’”irrilevanza” dell’Unione – ha tutto il sapore di una vera e propria “riforma strutturale” (dell’Ue stessa, per una volta): questa sì, di rango costituzionale. Non a caso per entrare pienamente in funzione i meccanismi previsti dall’accordo di martedì dovranno passare il vaglio prima del Parlamento europeo, poi di ciascuno dei Parlamenti dei Paesi membri, così com’è stato per ogni precedente Trattato.
Della svolta della possibilità di emettere debito europeo – un tabù che s’infrange dopo decenni – s’è già detto. Ma poiché neppure per l’Europa, a sorpresa per i talk show italiani, i soldi crescono sugli alberi, altrettanto rivoluzionaria è la conferma che arriva sul fronte delle entrate: per garantire quel debito comune, la Commissione avrà dal prossimo 1° gennaio risorse proprie. Tradotto, potrà riscuotere tasse europee per incrementare il suo bilancio. Si partirà con la plastic tax continentale; altre – sulle emissioni nocive e sui profitti digitali – seguiranno con ogni probabilità. L’esecutivo europeo gestirà dunque entrate autonome, raccoglierà risorse sui mercati e ne redistribuirà i flussi verso le aree più in difficoltà socio-economica secondo criteri e priorità politiche ben definite. Il tutto sotto il controllo del Parlamento comune. C’è bisogno d’altro, come ha notato Federico Fubini del Corriere, per vedere il nucleo di statualità europea sotto i nostri occhi?
Dalla crisi sanitaria dunque riparte di gran carriera il cantiere federalista europeo? Ni. Per due ragioni.
La prima è che, per quanto rafforzato sia il ruolo della Commissione, a trionfare ancora una volta è la “fame decisionale” degli Stati membri. La governance politica dell’intero pacchetto resterà saldamente nelle mani del Consiglio, che con l’ormai noto “super-freno” potrà bloccare l’esborso dei fondi europei ai Paesi infedeli alle priorità di riforma fissate in questi giorni (e nei prossimi mesi).
La seconda, sul piano del “sentimento politico”, è che tutto si può dire tranne che dalla maratona negoziale del Justus Lipsius emerga l’immagine di un’Europa unita. Al contrario, le estenuanti trattative e le durissime accuse reciproche hanno cristallizzato la divisione dell’Unione in quattro grandi blocchi, che neppure sentono più il bisogno di celarla. A Sud, il Club Med dei Paesi alla perenne rincorsa sul piano socio-economico, oltre che alle prese periodicamente con il dilemma-migranti. A Nord, la nuova Lega Anseatica dei “frugali” strutturalmente sospettosi verso i precedenti. A Est, il ringalluzzito Gruppo di Visegrad insofferente ai “sofismi” europei sullo Stato di diritto. Nel mezzo, l’accoppiata franco-tedesca, tornata sì a fungere da motore di intese ambiziose, ma perennemente strattonato dai tre lati.
Panorama lussuoso rispetto ai blocchi variabili di alleanze europee che per quattro secoli hanno insanguinato il continente, non c’è dubbio, ma l’unità europea, francamente, è un’altra cosa. E forse è questo, in fondo, il messaggio che la Commissione ha voluto inviare sin dal momento della “etichettatura” dello storico piano: Next Generation Eu. Quest’anno, e nel settennato di bilancio che si apre, gli strumenti concreti per “oliare” la macchina para-statuale europea. Con la prossima generazione di leader, cresciuti nel nuovo contesto, anche un vero spirito politico unitario.
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