Nella meritocrazia sarebbe il talento a determinare la posizione sociale. Ma le cose non vanno proprio così, nel tempo. L’applicazione del principio meritocratico alla società garantisce, infatti, in un mondo in cui gli individui nascono ineguali, che ciascuno possa acquisire nella vita una posizione proporzionale alle proprie capacità, indipendentemente dalle origini sociali.
Fu Michael Young, sociologo e attivista politico inglese, autore del manifesto che nel 1945 portò al successo elettorale il partito laburista, ad inventare questo termine nel suo libro The Rise of Meritocracy (L’avvento della meritocrazia): un saggio satirico (o distopia), pubblicato nel 1958, in cui Young immagina e analizza l’affermarsi in Gran Bretagna nel 2033 di una società meritocratica, in cui non soltanto ognuno ha ciò che si merita, ma dove la meritocrazia diventa una vera e propria forma di governo: “non una aristocrazia di sangue, non una plutocrazia della ricchezza, ma una vera meritocrazia dell’ingegno”.
Il racconto di Young si svolge nel corso di un secolo e mezzo, durante il quale l’uguaglianza delle opportunità di partenza (un punto su cui Young per tutta la vita si spese con il suo impegno politico e intellettuale) viene garantita in Gran Bretagna grazie all’introduzione di alcune riforme, in particolare nell’ambito dell’istruzione.
Nella società meritocratica di Young, l’accesso all’educazione superiore di qualità avviene sulla base di selezioni mirate, che misurano il quoziente intellettivo, e gli insegnanti scelgono quei giovani da avviare alla carriera di dirigente. La selezione scientifica si applica anche al settore dell’industria, dove la promozione per merito sostituisce la promozione per anzianità.
Così si formano le migliori élite di funzionari pubblici, medici, fisici, psicologi, chimici, dirigenti aziendali e critici musicali. E, in questa comunità immaginaria, è vero che la divisione fra classi appare più netta, ma dal momento che la stratificazione sociale poggia sul principio del merito accettato a tutti i livelli della società, le classi inferiori non hanno una propria ideologia in conflitto con l’ethos della società e non negano il diritto delle classi superiori alla loro posizione.
L’ideale meritocratico nel secondo dopoguerra
In effetti, l’ideale meritocratico che ha ispirato il saggio di Young è stato anche il motore di quelle misure adottate nel corso del Novecento in Gran Bretagna (e nei Paesi europei del secondo dopoguerra, con l’affermazione della democrazia costituzionale) per favorire il superamento della vecchia gerarchia sociale, simile al sistema delle caste, in cui il rango veniva assegnato per nascita e non per merito e i figli ricalcavano fedelmente le orme dei padri, come i padri avevano ricalcato fedelmente quelle dei nonni.
In questo senso, la ratio delle cosiddette “discriminazioni positive” e dello sviluppo di uno stato sociale a garanzia del principio di eguaglianza è stata proprio quella di ridurre le diseguaglianze sociali di partenza e di mettere tutti gli individui, a prescindere dalla propria origine sociale, nelle stesse condizioni. E ancora oggi, ispirati dall’idea di una società meritocratica che cancella le diseguaglianze, in molti condividono una visione della gerarchia del prestigio sociale basata sul talento e sull’ingegno.
In realtà, Young, come testimonia il suo saggio, era ben consapevole dei limiti di un sistema puramente meritocratico e fondato sulla formula “quoziente intellettivo + sforzo = merito”, tanto che la conclusione del suo saggio lascia intuire l’autodistruzione della società meritocratica.
Se, infatti, da una parte, l’applicazione del principio meritocratico dovrebbe sviluppare le virtù e i talenti migliori garantendo la possibilità di una ascesa sociale e azzerando le condizioni di diseguaglianza di partenza, allo stesso tempo, come argomenta il filosofo britannico Kwame Anthony Appiah nel suo ultimo articolo pubblicato per la New York Review of Books “The Mith of Meritocracy. Who really gets what they deserve?”, la società meritocratica, nelle modalità con cui si è sviluppata, ha creato nuove élite di privilegiati, trasformandosi in quel sistema che, in realtà, avrebbe dovuto combattere, e ha reso la comunità di appartenenza più fragile e meno coesa.
Più che un sistema efficiente, la meritocrazia avrebbe, infatti, creato una élite dominante impermeabile ad una redistribuzione sociale diversa da quella imposta dall’interesse di classe. In Gran Bretagna, ad esempio, alcune misure introdotte del partito laburista nel corso del Novecento per favorire l’accesso all’educazione di qualità hanno fatto sì che, generazione dopo generazione, l’istruzione superiore si sia trasformata in un fattore di stratificazione sociale, dove l’alta borghesia ha continuato a favorire solo sé stessa (i propri figli e i figli dei propri figli), consolidando una classe sociale che non lascia spazio ad altri.
In altri termini, “quelli che dovevano essere meccanismi di mobilità, sono diventati fortezze di privilegi”, sostiene Appiah, alimentando la divisione in classi.
E le ripercussioni sul piano politico non sono mancate. Il sistema meritocratico così concepito non solo ha indebolito largamente la mobilità sociale, ma anche mandato in pezzi quel tacito patto sociale tra le élite e la gente, per cui la gente concede alle élite dei privilegi e in cambio chiede una certa assunzione di responsabilità: quella di costruire e garantire l’esistenza di una comunità in cui le condizioni di vita siano migliori per tutti (e non solo per una minoranza di privilegiati). La frantumazione di questo patto ha alimentato risentimento e rabbia nei confronti di una classe dirigente ben istruita, cosmopolita e inaccessibile, ben lontana dalle condizioni di vita spesso precarie e poco soddisfacenti della maggioranza.
In aggiunta, poi, se, da una parte lo sviluppo del mondo digitale e dei suoi device ha tolto alle élite alcuni monopoli e ha redistribuito alcuni poteri, permettendo a tutti di avere accesso molto velocemente e facilmente alle informazioni disponibili e a una certa gamma di servizi, dall’altra parte esso non ha portato ad una redistribuzione della ricchezza, rendendo la situazione esplosiva.
La pluralità dei valori e la concezione del valore umano
Per i rischi che già nel 1958 aveva visto nell’ideale di un sistema meritocratico, Young faceva chiedere nel suo saggio agli autori del Manifesto di Chelsea, dopo diverse proteste scoppiate in Gran Bretagna, che una società agisse sulla base di una pluralità di valori e non solo del merito, tra cui la gentilezza, il coraggio e la sensibilità, in modo che tutti avessero la possibilità di sviluppare le proprie capacità per condurre una vita ricca, e che le persone venissero valutate non solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità. In questo modo, sostenevano gli autori del Manifesto, le classi non avrebbero più potuto esistere.
In questa visione del mondo alternativa, racconta Appiah nel suo articolo riprendendo il saggio di Young, ognuno partirebbe dalle proprie capacità, ponendosi obiettivi e traguardi diversi. Non esisterebbe alcuna misura di valutazione che permetta di stabilire se una vita è migliore di un’altra. E, in questo senso, il merito si sgancerebbe completamente dal valore attribuito all’individuo e alla vita umana. Proprio rivedere i modi in cui concepiamo il valore umano, ponendolo al servizio dell’uguaglianza morale, resta secondo Appiah un’impresa collettiva urgente.
Certamente, quella degli autori del Manifesto di Chelsea era una visione utopica della realtà sociale, ma diversi autori concordano nella necessità di interrogarsi sulla possibilità di ricercare misure alternative rispetto al merito per governare una società, abbandonando il principio meritocratico come unico valore su cui fondare il prestigio e la mobilità sociale.
Non soltanto per promuovere l’uguaglianza sostanziale ed interrompere il rafforzamento di una società di classi, ma per aprire una riflessione filosofica più ampia sul senso di “comunità”, sulla scelta dei valori che la caratterizzano e sulla possibilità di riconoscersi in un “noi” collettivo e inclusivo, in cui tutti possano trovare il loro posto e ruolo sociale. Perché, se da una parte la meritocrazia ha fallito, dall’altra parte sembra rafforzarsi un nuovo paradigma, quello dell’espulsione e non dell’inclusione, di cui già raccontava Saskia Sassen nel suo libro “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”: espulsione ed esclusione di individui, di comunità e luoghi dagli ambiti della società e dell’economia. Al contrario, per Young, vivere bene significherebbe l’opposto: affrontare la sfida posta dalle nostre capacità, dalle circostanze in cui nasciamo, dai progetti che consideriamo importanti, trovando ciascuno il proprio ruolo e contribuendo insieme alla costruzione della comunità.