La cittadinanza comune prima dell’identità personale. La politica per il potere prima di quella dei movimenti. I sindaci e i governatori prima di marciatori e manifestanti. È da qui che la sinistra liberale degli Stati Uniti deve ripartire, se vuole invertire la rotta suicida imboccata negli anni Settanta che l’ha condotta nel vicolo cielo della identity politics. Ne è convinto Mark Lilla, docente alla Columbia University, il quale, dopo aver suonato l’allarme sul New York Times nei giorni successivi all’elezione di Donal Trump, ha alzato il tiro ampliando le sue tesi nel libro L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica. La resistenza a Trump è incoraggiante e coraggiosa, sostiene in questa intervista a Reset Mark Lilla, ma non basta. Piuttosto, serve una nuova visione del futuro degli Stati Uniti. Che può essere elaborata soltanto se i liberal archiviano la politica delle identità ed escono dalla “grotte in cui si sono cacciati da soli, scavate con le loro stesse mani”.
Nell’introduzione al suo libro, lei scrive che “nel ventunesimo secolo il liberalismo americano è in crisi: una crisi di immaginazione e di ambizione da un lato, una crisi di legame e di fiducia da parte del grande pubblico”. Secondo la sua analisi, per decenni a impedire ai liberal di elaborare un ambizioso piano e un’adeguata visione degli Stati Uniti è stato il liberalismo identitario, figlio della ‘identity politics’. Vuole spiegare al pubblico italiano cosa si intende per ‘identity politics’?
Ci sono due tipi di identity politics. La prima è quella che si riferisce alle richieste che in una democrazia vengono avanzate per ottenere uguali diritti. Si tratta di una forma politica ordinaria, di interessi di gruppo, portata avanti da persone che hanno un problema comune e che avanzano una rivendicazione attraverso le istituzioni democratiche. A partire da alcuni diritti negati, la rivendicazione in questo caso si basa sulla richiesta di essere considerati cittadini come gli altri, di non essere trattati diversamente. Qui, dunque, è la cittadinanza ciò che conta. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni Ottanta si è affermata però anche un’altra forma di identity politics, che non ha a che fare tanto con le rivendicazioni di gruppo, quanto con rivendicazioni che riguardano l’identità personale e le differenze sociali. A cambiare è l’immagine della società che tali rivendicazioni restituiscono: da una società di uguali di fronte alla legge a una società nella quale ogni individuo ha una identità sempre in divenire, che rimanda alla sua sessualità, alla sua “razza” e ad altri elementi. In questo caso, l’idea è che le persone con identità diverse non abbiano soltanto interessi ed eventualmente preoccupazioni diverse, ma modi differenti di vedere il mondo, e che ci sia una sorta di gioco a sommo zero tra le identità. La società diviene una società di tribù, o una somma di individui che rivendicano un riconoscimento sociale sulla base delle loro differenze, piuttosto che sulla base di interessi o convincimenti politici condivisi.
Come ha appena ricordato, la seconda forma di ‘identity politics’ si afferma negli anni Ottanta, durante la presidenza di Ronald Reagan. Nel suo libro lei divide la storia politica statunitense del Novecento in due ‘dispensations’, quella di Roosevelt e quella di Reagan. Perché usa il concetto di ‘dispensation’ e cosa intende quando scrive che quella di Roosevelt era politica, mentre quella di Reagan antipolitica?
Il termine dispensation proviene dalla teologia cristiana. È l’idea che in periodi storici diversi si applichino regole, precetti divini differenti. Così, per esempio, il mondo della Bibbia ebraica, dell’Antico testamento rimandava a una certa dispensation, mentre con l’arrivo di Cristo l’umanità ne ha una diversa. Si tratta di un cambiamento di regole e di paradigma. Uso dunque la dispensation come metafora, per sostenere che nei momenti di crisi politica possono formarsi mentalità precise, che condizionano molto a lungo il modo in cui vengono formulati e compresi i problemi politici, anche ordinari. Così, dagli anni Trenta e fino agli anni Settanta, nell’era progressista e roosveltiana, l’immagine della vita politica americana rimandava alle idee di solidarietà e giustizia, perché l’esperienza della seconda guerra mondiale aveva convinto molti americani che il governo rivestisse un ruolo importante nel tenere insieme i cittadini, e i cittadini si sentivano parte di un’impresa comune, di uno sforzo condiviso. Si trattava di un modo di concepire il Paese che era politico: per il fatto di essere cittadini, avevamo diritti e doveri, doveri gli uni verso gli altri, e il governo svolgeva un ruolo nel favorire questa reciprocità. Con Reagan cambia il modo di concepire il Paese e la politica, il Paese diviene composto da singoli individui, isolati, il governo viene percepito come l’attore che vuole imporre ciò che i cittadini devono fare. L’idea era che, se avessimo ridotto il livello di coinvolgimento del governo negli affari dei cittadini, lasciati al loro business, saremmo stati tutti più indipendenti e finanziariamente più forti. In qualche modo potremmo dire che il reaganismo ha condotto la politica fuori dalla politica e, attaccando direttamente il paradigma roosveltiano, ha modificato il modo in cui venivano intesi i rapporti di reciprocità tra cittadini e tra cittadini e governo.
Il suo libro può essere letto come la cronaca della trasformazione di una “efficace politica liberale improntata alla solidarietà in una fallimentare pseudo-politica dell’identità”. Se all’inizio, come scrive, la ‘identity politics’ di sinistra aveva a che fare con “ampie classi di persone”, com’è accaduto che negli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, nel corso della “dispensation di Reagan”, la ‘identity politics’ si sia trasformata in narcisismo e autoreferenzialità, provocando la “grande abdicazione dei liberal”?
Le cause principali hanno a che fare con i cambiamenti nello stile di vita americano. Nel libro spiego che a causa della crescita economica e dei cambiamenti tecnologici, avvenuti in modo molto rapido, gli americani hanno cominciato a pensarsi come meno vincolati gli uni rispetto agli altri. E a vedersi non come cittadini portatori di diritti e doveri, ma solo come individui con diritti individuali. C’è stato un cambiamento reale nel modo di vivere, con la dispersione geografica delle famiglie, i cambiamenti tecnologici, nel mercato del lavoro e l’emancipazione delle donne, il controllo delle nascite che ha portato a famiglie meno numerose, la crescita dei divorzi, una serie di elementi che hanno reso le persone più assorbite da se stesse, convinte che fossero autonome. Non è un caso che Tom Wolfe abbia definito gli anni Settanta come il “me-decade”, il decennio del me. Sia il reaganismo che la identity politics riflettono un cambiamento nell’autopercezione degli americani e degli Stati Uniti. Oggi possiamo dire che sul paese è calata una sorta di illusione di totale autonomia individuale.
Questa illusione sembra in qualche modo legata a ciò che nel libro definisce come romanticismo politico. Una forma di fascinazione, perfino di ossessione per la propria identità che “non contrasta il principio fondamentale del reaganismo, l’individualismo, ma che al contrario lo rinforza”. Perché sostiene che la ‘identity politics’ sia una forma di reaganismo di sinistra, e com’è legata al romanticismo politico?
A dire il vero di romanticismo politico parlo poco, nel mio libro. Ma è vero che è anche a causa di quel romanticismo, dell’idea cioè che la società sia una costruzione artificiale che costringe e limita l’individuo, che la sinistra americana ha faticato a capire che con il reaganismo era finita sotto attacco l’intera vita politica democratica, non solo il welfare o la concezione tradizionale dello Stato o del governo, e che era dunque necessario offrire una visione alternativa del destino nazionale e del bene comune. In un periodo così libertario, con il collasso del marxismo e il drastico calo di fiducia in molti programmi socialdemocratici, è stato difficile immaginare quale fosse il passo successivo. A ciò si aggiungevano i limiti e i fallimenti della visione socialdemocratica di matrice roosveltiana, che aveva dimostrato di non saper risolvere tutti i problemi, producendo a volte conseguenze inaspettate e controproducenti. Era un periodo in cui occorreva re-immaginare il futuro dell’America, ma anziché battersi per la solidarietà e per il bene comune l’accento è caduto sui diritti individuali, sullo sviluppo dell’autonomia personale. Alla fine di quel periodo, i liberal si sono ritrovati rinchiusi nelle caverne in cui si erano cacciati da soli. Scavate con le loro stesse mani.
Nella progressiva trasformazione della sinistra americana, lei sottolinea il ruolo del sistema culturale universitario. Scrive tra l’altro che la ‘New Left’ “ha trasformato l’università in un teatro pseudo-politico per la messa in scena di opere e melodrammi” sociali. Cosa intende quando sostiene che la pedagogia liberale ha agito come una forza depoliticizzante?
Dagli anni Settanta, nelle università degli Stati Uniti – e non solo in quelle – c’è stato un cambiamento significativo, con una crescente attenzione verso i gruppi molto marginali della società e verso le questioni di “razza” e di genere. L’intento era condivisibile, ma presto si è perso il senso della misura, così molti giovani studenti sono cresciuti frequentando corsi relativi alla propria definizione sessuale o etnica. I curricula riflettevano una particolare concezione politica, secondo la quale ogni impegno politico doveva concentrarsi sulla propria identità personale, su aspetti particolari e individuali, piuttosto che promuovere un’ampia riflessione sulla storia, l’economia, la politica. Gli studenti hanno disimparato a pensare le grandi questioni, così come il difficile esercizio di persuadere persone che la pensano diversamente da noi a unirsi in una battaglia comune per un obiettivo condiviso. Sono stati educati a fare richieste senza compromessi, a pensare che l’unica politica è quella di movimento, a trascurare la politica elettorale, quella che si fa per ottenere il potere. Da allora, ci si concentra sull’espressione di sé, piuttosto che sul governo. Un grave errore.
Questo ci conduce al grande divario che lei individua tra la politica di partito, fatta di spinte centripete, e la politica di movimento, fatta di spinte centrifughe. Nel suo libro scrive che “in una democrazia l’unico modo per difendere in modo significativo le minoranze” e non limitarsi a gesti celebrativi “è vincere le elezioni, esercitare il potere sul lungo termine, a ogni livello di governo”. Significa che i liberal non dovrebbero più preoccuparsi di “conquistare il cuore e le menti?”.
La sinistra si è impegnata più nella politica dei movimenti e meno in quella istituzionale. Nell’editoria e nei media, negli Stati Uniti ha dominato la politica intorno alle questioni culturali, il riconoscimento e la rappresentazione, fondata sull’equivoco che se riesci a dare un’immagine diversa degli Stati Uniti, allora gli Stati Uniti cambiano. Ma questa tendenza non si è tradotta in potere politico. L’altra questione ha a che vedere con il modo in cui vengono condotte le battaglie politiche in ambito culturale, perché, se condotte in modo sbagliato, possono finire per allontanare coloro che vengono presi di mira, come è accaduto a una parte della popolazione bianca, che spesso si è sentita accusata tout courtdi essere razzista, sessista, diventando in qualche modo il nemico culturale della sinistra dei movimenti. La sfera mediatica della destra estrema ha sfruttato il risentimento dei maschi bianchi, rendendo più difficile tradurre le battaglie della sinistra in potere reale.
Lei ha scritto che il movimento Black Lives Matter è un esempio paradigmatico di “come non andrebbe costruita la solidarietà”, ne ha criticato “le tattiche da Mau-Mau per eliminare il dissenso e ottenere confessioni di peccati e penitenze pubbliche”, una strategia che avrebbe finito per fare il gioco della destra repubblicana. Una posizione per la quale ha ricevuto critiche molto severe…
Nella frase precedente a quella da lei citata scrivo che il movimento Black Lives Matter all’inizio ha avuto il merito di portare all’attenzione e alla coscienza degli americani gli abusi verso i neri compiuti dalle forze di polizia. Un merito importante. Ma poi gli esponenti del Black Lives Matter si sono radicalizzati, finendo per impiegare gran parte del loro tempo nell’accusare i candidati di sinistra alla Casa Bianca, Hillary Clinton e Bernie Sanders, considerati non in linea. È pazzesco che abbiano danneggiato la candidatura di quei politici democratici che, se eletti, avrebbero potuto aiutarli.
Sulla ‘Los Angeles Review of Books’, una sua collega alla Columbia University, Katherine Franke, la ha accusata di “rendere la supremazia bianca di nuovo rispettabile”, con le sue posizioni. È una critica che accetta?
Non rispondo a chi mi paragona all’ex leader del Ku Klux Klan.
Passiamo all’elezione di Trump, che è stata l’occasione perché scrivesse quell’editoriale sul ‘New York Times’ che contiene in nuce le tesi de “L’identità non è di sinistra”. Nel libro sostiene che, rispetto a Democratici e Repubblicani, Trump rappresenta “una terza forza emersa dal basso per riempire un vuoto”. Ma scrive anche che ci sono molti motivi per credere che Trump rappresenti “l’inizio della fine della ‘dispensation’ di Reagan”. Ci spiega meglio perché ritiene che viviamo in un interregnum?
Perché nel corso della campagna elettorale Trump ha rotto uno dei tabù dei Repubblicani, parlando dei lavoratori, dei loro problemi. Avrebbe dovuto negare che esistono gravi problemi economici, sostenere che la crescita li avrebbe risolti tutti, e invece ha parlato di lavoro e commercio, di assicurazione sanitaria e vulnerabilità sociale. Il reaganismo si basava su un modello economico fondato sull’ottimismo, ma oggi la fiducia in quel modello è venuta meno e Trump ha reso pubblica questa sfiducia. Inoltre, mentre il reaganismo aveva a che fare principalmente con l’economia e con il governo, e tralasciava invece le questioni identitarie, Trump in qualche modo è riuscito a far emergere una sorta di identity politics dei bianchi, da usare contro quella delle minoranze.
Ci sono però anche delle somiglianze: lei scrive per esempio che il “reaganismo è durato perché non ha dichiarato guerra al modo in cui molti americani vivevano e si vedevano”, “non ha chiesto loro di cambiare niente”, “non aveva richieste morali”, era moralmente poco esigente. Non riconosce dei tratti simili anche nel trumpismo? E non ci sono dei rischi?
Si, in questo senso vedo dei rischi, perché anche Trump non invoca sacrifici, non pretende cambiamenti per il bene comune. Ma c’è una differenza cruciale: Reagan era convinto (e ha convinto il pubblico americano) che meno governo e un’economia più aperta, più religione e più famiglia avrebbero reso ognuno migliore, e che gli americani, resi migliori dai benefici comuni, non si sarebbero fatti la guerra tra di loro. Il nemico in qualche modo era il governo, non altri americani. Trump invece ha messo americani contro americani. Un elemento preoccupante.
Leggendo il suo libro, si ha come l’impressione che lei critichi i liberal perché fanno ciò che né Reagan né Trump hanno fatto: non assecondano gli istinti, ma chiedono cambiamenti, sono moralmente esigenti, alzano l’asticella dei comportamenti corretti. È vero che ciò può condurre – come lei sostiene – a un sentimento di superiorità, a guardare gli altri dall’alto al basso, ma non ritiene che fare politica significhi anche pretendere da noi e dagli altri di essere migliori, anche moralmente?
Se essere moralmente esigenti significa pretendere che ognuno sia d’accordo con noi, allora non c’è spazio per questo tipo di atteggiamento nella politica per il potere, quando si intende governare. La politica per il potere non è per i puri, non ha a che fare con la conquista del cuore e delle menti. Significa governare, avere il potere di cambiare le cose, e per farlo occorre convincere coloro che non la pensano come noi, trovando un terreno comune, non alzando le barriere, le asticelle o amplificando le differenze. Rivolgersi soltanto a coloro che usano già il nostro stesso linguaggio, a quanti sono già d’accordo con noi, a quanti già si comportano correttamente, politicamente è un suicidio.
Lei sostiene che la resistenza causata dall’elezione di Trump è incoraggiante, ma che è cruciale guardare oltre Trump e allo stesso tempo archiviare l’era della ‘identity politics’. Da dove cominciare?
Ci sono voluti trent’anni per finire nella situazione in cui ci troviamo oggi e servirà molto tempo per elaborare l’immagine del paese che vogliamo costruire insieme, basato su principi chiari. Per prima cosa, i liberal dovrebbero comprendere meglio se stessi, cosa sono e cosa vogliono, per poi orientare ogni progetto verso il bene comune, verso ciò che possiamo condividere, articolando un messaggio che raggiunga quante più persone possibile. Questo riorientamento richiederà molto tempo. La cosa più importante è impegnarsi subito nella giusta direzione, evitando di pensare soltanto alle prossime elezioni.
Secondo la sua analisi, “i progressisti comprendono quanto sia necessaria la solidarietà” molto meglio dei liberal, ma “rimangono prigionieri della loro fissazione sulla classe”, incapaci di vedere che la giustizia economica va rivendicata non in termini di classe, ma di cittadinanza comune. Con l’enfasi sulla cittadinanza, sui valori condivisi, su elementi di appartenenza, di identità dunque, non le sembra di avanzare una lettura troppo culturalista, che dimentica la centralità dell’economia e replica gli errori della ‘identity politics’?
Non credo. Piuttosto, cerco una cornice all’interno della quale sia possibile occuparsi di tutte queste questioni, anche quelle economiche. La domanda centrale è: “perché dovrei occuparmi degli altri?”. Nella società attuale, una risposta non c’è. In molti saranno capaci di dire a cosa tengono, ma non le ragioni per cui dovrebbero preoccuparsi degli altri. Il primo punto da fissare chiaramente, dunque, è che siamo una repubblica, non un parcheggio, e vivendo in una repubblica abbiamo diritti e doveri, dei beni comuni e un destino comune. Ci sono molti ostacoli sulla strada del futuro che vogliamo costruire: una divisione crescente tra le classi, la discriminazione subita dagli afro-americani, etc. Di tutto questo, certo, dobbiamo parlare, ma solo come espressione di una cornice più ampia, che abbia a che fare con la solidarietà sociale e con l’uguale protezione di tutti sotto la legge. Solo a partire da questo ombrello comune potremmo poi parlare delle particolari preoccupazioni da parte di particolari gruppi sociali, potremmo parlare con i lavoratori disoccupati di Detroit e di cosa significhi per loro la solidarietà sociale, potremmo parlare con i neri che hanno subito ingiustizia e abusi e di cosa significhi per loro la solidarietà e uguale protezione. I democratici e i liberali finora non hanno pensato a questo mantello più grande. È ora che ricomincino a farlo.
Mark Lilla è professore di Humanities presso il dipartimento di Storia della Columbia University (New York). Oltre a scrivere regolarmente per The New York Review of Books e The New York Times è autore di molti saggi tradotti in una dozzina di lingue.
Nel suo ultimo libro L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica (Marsilio 2018) Lilla afferma che la sinistra liberale, sostenendo battaglie politiche basate sull’identità, abbia abdicato al suo ruolo e creato le basi per il successo di Trump. Secondo Lilla i progressisti dovrebbero concentrarsi non su ciò che ci rende diversi l’uno dall’altro, ma su quanto condividiamo come cittadini dello stesso paese, e immaginare un futuro per tutti. Soprattutto per i più deboli.