“Rinchiudersi nella propria omogeneità culturale è una fuga dalla realtà”, invocare la chiusura dei confini un atto di miopia rispetto alla transizione demografica ancora incompiuta, che provocherà nuovi equilibri geopolitici. Così sostiene Massimo Livi Bacci, tra i più autorevoli studiosi internazionali dei processi demografici, che in quest’intervista a Reset fornisce numeri chiari: nell’ultimo mezzo secolo lo “stock migratorio” nel mondo è triplicato, da 76 milioni nel 1960 a 254 nel 2017. E se nel 1950 l’Africa racchiudeva il 9% della popolazione mondiale, ne racchiuderà il 40% a fine secolo, mentre l’Europa passerà dal 22% del 1950 al 6% nel 2100. Il vecchio continente, demograficamente debole, vive un paradosso: “il paradosso esplicito e schizofrenico dell’Ungheria, dei paesi di Visegrad e dell’Italia: la loro demografia è in gravissima crisi, ma nel contempo essi si chiudono all’immigrazione”. Per affrontare il paradosso, sostiene Livi Bacci, non c’è che una via: riconoscere le spinte demografiche in atto, governarle attraverso un nuovo sistema sovranazionale e puntare alla redistribuzione di potere, risorse e opportunità. È la grande sfida del ventunesimo secolo.
Nell’epilogo al libro Il pianeta stretto lei scrive che in diecimila anni di storia “il pianeta si è ristretto mille volte o, se preferiamo, è mille volte più affollato”. Tra mezzo secolo, anno più anno meno, l’umanità raggiungerà i 10 miliardi. Eppure, all’inizio di questo secolo il tasso di incremento della popolazione è sceso all’1%, rispetto al 2% tra il 1960 e il 1980. E molti interpretano il rallentamento della crescita della popolazione del pianeta come il segnale della prossima “fine della demografia”, con l’avvento di un mondo a crescita zero, comportamenti riproduttivi omogenei, bassa mortalità universale, esaurimento delle migrazioni internazionali. Lei, al contrario, pensa che non sia affatto così. Perché?
La dinamica della popolazione è la risultante di milioni di comportamenti individuali, dettati da innumerevoli fattori della più varia natura, che non restano costanti nel tempo. Donne e uomini decidono di avere figli in base a motivazioni affettive, a condizioni economiche, a prospettive sociali, che cambiano continuamente nel tempo, sono diverse da regione a regione, da cultura a cultura. La stessa sopravvivenza, oltre a variare a seconda delle condizioni di vita materiali e sociali e a seconda della disponibilità di cure mediche, dipende da comportamenti individuali che variano nel tempo, e dal mondo delle patologie, che muta in continuazione. Infine, le popolazioni generano, o attraggono, flussi migratori che dipendono in buona misura dalle politiche e dai rapporti di forza internazionali. Ecco perché non penso che ci si avvii verso la “fine della demografia” e che, anche nel prossimo secolo, le dinamiche demografiche saranno tutt’altro che piatte.
Con queste premesse, mentre è plausibile che nel corso del secolo, per quanto riguarda l’intero mondo, continui il rallentamento della crescita, è illusorio pensare che questa si stabilizzi per sempre attorno allo zero, mentre è più probabile che si abbiano fluttuazioni in accordo con il mutare dei fattori che influenzano i comportamenti individuali e collettivi. E questo vale se ci riferiamo alla popolazione dell’intero globo. Queste considerazioni valgono ancor più per i singoli continenti, per le singole regioni, per i singoli paesi, per i quali è assurdo pensare che si possa approdare a condizioni politiche, economiche o sociali uniformi: anzi, queste continueranno a influenzare, in modo diverso, gli andamenti demografici. Ecco perché è fuorviante pensare che si sia avviati verso la “fine della demografia”.
Nel corso dei prossimi 35 anni la popolazione mondiale aumenterà di quasi un terzo, tra 2 miliardi e 2 miliardi e mezzo, ma “con articolazioni territoriali molto differenziate: nessun aumento nei paesi ricchi; un aumento pari a un quarto nei meno poveri tra i paesi in via di sviluppo; un raddoppio tra i più poveri di questi”. Lei attribuisce queste articolazioni territoriali allo sfasamento temporale dei processi di transizione demografica nelle varie regioni del globo. Ci spiega cos’è la transizione demografica?
È un lungo processo durante il quale una popolazione da una situazione di equilibrio tra natalità e mortalità, e quindi di crescita molto lenta, passa a una nuova situazione di approssimativo equilibrio, ma su livelli molto più bassi di natalità e mortalità. Per esempio, nei paesi europei, questa transizione ha determinato l’abbassamento della riproduttività da una media di 5 figli per donna – quale era ovunque prima del XIX secolo – a meno di 2, come è attualmente, mentre la sopravvivenza dei neonati si è innalzata da una media di 30 anni di vita ad una di oltre 80. Nel XVIII e XIX secolo, in Europa, i migliorati livelli di alimentazione, di igiene privata e pubblica, le scoperte mediche, hanno posto le condizioni per un miglioramento della sopravvivenza; in risposta a questo miglioramento che ha implicato l’abbassamento della mortalità infantile, anche le coppie, dopo qualche decennio, hanno iniziato a porre sotto controllo la propria fecondità e ad avere meno figli. Per portare all’età adulta due figli, in passato occorreva metterne al mondo il doppio o il triplo; l’abbassamento della mortalità ha ridotto il numero di nascite necessarie per portare due figli a quel traguardo. Insomma, il declino della mortalità ha fatto da battistrada a quello della natalità, provocando un aumento del tasso d’incremento dell’intera popolazione; col tempo le due curve discendenti sono andate convergendo, e l’incremento della popolazione si è via via attenuato.
Questo processo di transizione, secolare nel mondo sviluppato, è avvenuto con ritmi molto più accelerati nel mondo povero, dove fino alla metà del secolo scorso la mortalità era ancora elevatissima (speranza di vita alla nascita attorno ai 40 anni) così come la riproduttività (numero medio di figli per donna pari a 5, 6 o ancora di più). Ma verso la metà del secolo scorso, il massiccio trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie mediche verso i paesi poveri ha provocato una rapidissima discesa della mortalità, mentre la lenta diffusione del controllo volontario delle nascite ha mantenuto a lungo la natalità su alti livelli. Nel corso della transizione il tasso d’incremento della popolazione ha toccato livelli elevatissimi, spesso superiori al 3% (contro un massimo dell’1% durante la transizione dei paesi sviluppati), un livello di crescita che implica il raddoppiarsi della popolazione in poco più i vent’anni.
La grande rivoluzione demografica, ancora incompiuta, fa sì che oggi “convivano nel mondo gruppi umani mossi da dinamiche diversissime”, configurando un vero e proprio “disordine demografico”. Per affrontarlo, lei suggerisce di seguire due linee di riflessione e azione: con la prima, occorre incentivare il controllo dei processi riproduttivi, sostenendo il declino della natalità dove è molto alta; con la seconda, bisogna evitare un’ulteriore caduta della natalità nelle regioni dove è molto bassa. Come tenere insieme due linee così asimmetriche e divergenti?
È così: oggi convivono paesi dove la riproduttività fa sì che le generazioni dei nati siano numericamente insufficienti a sostituire quelle dei genitori (si parla di popolazioni con un numero di figli per donna inferiore a 2, “sotto il livello di rimpiazzo”, e popolazioni con un numero medio di figli maggiore del doppio o del triplo, la Cina per esempio, con 1,5, la Nigeria, con 5). Le prime sono su un percorso di declino demografico, le seconde su un percorso di crescita che, se mantenuto nel tempo, porterà le loro popolazioni a raddoppiare nel giro di una generazione (o meno).
La riproduttività altissima è propria, oggi, dell’Africa sub-sahariana, ed è urgente che vengano messe in atto quelle politiche che sostengono l’autonomia delle donne per quanto riguarda le scelte riproduttive (oggi condizionate dagli uomini, dalle famiglie, dai clan), diffondano la conoscenza e la disponibilità di metodi contraccettivi, investano nell’istruzione femminile, favoriscano le attività economiche e sociali delle donne fuori del ristretto ambito familiare. Queste politiche, quando accompagnate da processi di sviluppo, hanno avuto successo in molte popolazioni dell’Asia e dell’America centro-meridionale che adesso hanno tassi di natalità relativamente moderati.
Nel mondo sviluppato, particolarmente in Europa e in Giappone, la bassa fecondità (inferiore anche di un terzo rispetto al livello di rimpiazzo) è alla radice del rapido invecchiamento della popolazione e del declino della popolazione in età attiva. Mentre le politiche orientate ad abbassare il numero delle nascite hanno avuto spesso esiti positivi, assai più difficile è porre in atto politiche che ne facciano aumentare il numero. Le esperienze esistenti non sono univoche, e sono generalmente orientate ad aumentare i trasferimenti pubblici a favore delle famiglie con figli; sono perciò assai costose e con esiti spesso deludenti. Tuttavia i problemi di natura economica e sociale generati dalla bassissima natalità sono così seri che è obbligatorio tentare. Per l’Italia, si tratta di agire in varie direzioni: potenziare l’autonomia dei giovani che oggi rinviano le decisioni riproduttive ad età relativamente avanzate; cercare di avere più donne al lavoro, perché un doppio reddito familiare è in molti casi condizione di stabilità economica familiare, necessaria per pianificare una nascita; riequilibrare le asimmetrie di genere, che vedono le donne sopportare carichi familiari eccessivi che le costringono, spesso, a rinunciare o ritardare una maternità.
La transizione demografica incompiuta si riflette anche in pesanti disuguaglianze. Per ridurre le disuguaglianze e la povertà planetaria, lei sostiene che servirebbe una crescita rapida e continua dei paesi poveri e, insieme, schemi di redistribuzione della ricchezza dai paesi ricchi a quelli poveri. Ma ricorda anche la terza via suggerita dall’economista John Kenneth Galbraith: la migrazione. Quanto sono importanti le migrazioni transfrontaliere nella riduzione delle disuguaglianze? E cosa aspettarsi in futuro?
L’esperienza della grande migrazione transoceanica otto-novecentesca si è risolta in un abbassamento della distanza economica tra Europa ed America, con beneficio delle due sponde. La migrazione fu, allora, parte integrante della grande globalizzazione verificatasi tra la metà dell’ottocento e la Prima Guerra Mondiale. Quella migrazione fu, per i flussi di poveri migranti, la via più veloce ed efficiente per uscire dalla povertà. Il processo di globalizzazione contemporaneo, iniziato alla metà del Novecento, ha tentato di prescindere dalla mobilità del lavoro, ingabbiando le migrazioni entro limiti quantitativi abbastanza rigidi. Oggi il processo di globalizzazione sembra rallentare il suo corso, e quasi tutti i paesi ricchi stanno ponendo in atto politiche sempre più selettive e restrittive dei flussi migratori. Tuttavia c’è un nuovo protagonista nel gioco mondiale, ed è la grave debolezza demografica del mondo ricco – o comunque di una sua cospicua parte. Debolezza che può essere moderata dai flussi di immigrazione. Ecco dunque il paradosso esplicito e schizofrenico di Ungheria e dei paesi di Visegrad: la loro demografia è in gravissima crisi, ma nel contempo essi si chiudono all’immigrazione. In Italia, almeno a parole, ci si è messi sulla stessa strada.
Lei ricorda come il “sorgere e il rafforzarsi degli Stati-nazione, lo stabilirsi di un’identità tra popolazione insediata e cittadini” abbia posto vincoli ai movimenti di lungo raggio. E imputa ai governi nazionali molte responsabilità per “confini blindati e migranti morti”, “le due patologie più evidenti di un sistema migratorio mondiale affidato a forze tanto pervasive ed energiche quanto difficile da governare”. Ritiene che gli Stati-nazione, ancorati alla propria sovranità e al legame tra legittimità politica e territorio nazionale, siano costitutivamente inadatti ad affrontare le sfide attuali e future? Occorra pensare a nuove architetture politico-istituzionali?
Mi limito a considerare le migrazioni internazionali, e la mia risposta è sì, occorre pensare a un nuovo sistema che aiuti i paesi nella gestione delle migrazioni oggi essenzialmente senza governo, e affidate all’impari confronto tra paesi di immigrazione e paesi di emigrazione. Questo confronto finisce per limitare, schiacciare o cancellare i diritti dei migranti. La comunità internazionale è debolissima su questo fronte, e gli stati rifiutano di cedere anche un frammento della propria sovranità in favore di un “governo” sopranazionale. L’assenza di un embrione di governo sopranazionale, tra l’altro, rende difficile il pacifico e collaborativo rapporto tra paesi in materia di sviluppo e di migrazioni. Mentre per gli scambi di beni e merci si è creata una complessa impalcatura normativa coordinata dall’Organizzazione internazionale del commercio, niente di simile si è tentato di fare per quanto riguarda gli scambi di persone. La varie Convenzioni sui diritti dei migranti, lavoratori e familiari, sono rimaste, in genere, lettera morta. Le crescenti difficoltà che incontra l’Unione europea nel costruire una politica migratoria comune sono la prova dell’impotenza della comunità internazionale.
Lei considera la grande migrazione transoceanica del XIX secolo e delle prime due decadi del XX come “un esempio classico di un processo di adattamento dei sistemi demografici, economici e sociali del Vecchio e del Nuovo mondo”. In sintesi, come “uno ‘scambio’” tra un mondo ricco di capitale umano e povero di risorse (l’Europa) e un mondo ricco di spazi e di risorse naturali (l’America)”. Ritiene che un simile scambio sia inevitabile tra l’Europa e l’Africa subsahariana?
Siamo in un’epoca e in un mondo diverso. L’America, a metà dell’Ottocento, era ancora un mondo relativamente “vuoto”, e l’immigrazione europea si dirigeva verso paesi già modellati dalla colonizzazione europea, iberica e britannica, con istituzioni, cultura, religione molto simile a quella dei paesi di partenza. L’Africa, oggi, è un paese con popolazione in rapidissima crescita e cultura molto diversa da quelle europee. Penso che l’integrazione tra i due continenti, che è già avviata, continuerà con modalità e ritmo assai diversi da quelli che avvicinarono Europa e America uno o due secoli addietro.
In Europa, ha notato in un suo articolo, “desta timore l’immigrazione delle popolazioni islamiche, percepite come una marea montante, minacciose per l’identità culturale e la pace sociale”. Un timore che si traduce in pericolose derive razziste. Perché ritiene che il timore della marea che ci sommerge sia infondato?
Esiste sicuramente una crescita delle comunità islamiche in Europa, valutate in 26 milioni nel 2016 e pari, quindi, al 5% circa della popolazione dell’Ue. Il loro numero è destinato a crescere sia per l’incremento naturale (la loro natalità è più elevata di quella degli autoctoni, anche se la distanza si sta riducendo) sia per la loro giovane struttura per età. Contribuiranno alla crescita anche i flussi di immigrazione, anche se le politiche migratorie restrittive tendono a ridurne il numero. È plausibile pensare che attorno alla metà del secolo le comunità islamiche ammontino a 40-50 milioni di persone, tra l’8 e il 10% della popolazione dell’Ue. Una cifra cospicua, ma lontana dalla marea che si paventa possa “sommergere” l’Europa. Sta alla politica intervenire per neutralizzare le derive fondamentaliste che da questa crescente minoranza possono emergere.
Questa intervista è parte del progetto promosso da Reset sugli “Illiberal Trends”. Alcuni autori – come per esempio Yascha Mounk in Popolo vs Democrazia – sostengono che l’affermazione di formazioni populiste e di leader politici autoritari e illiberali dipenda in gran parte dalle nuove migrazioni e dal passaggio in Europa da società perlopiù monoculturali, monoreligiose e monoetniche a società multiculturali, multireligiose e multietniche, un passaggio che avrebbe provocato “una ribellione contro il pluralismo”. Lei è d’accordo?
È un ragionamento pericoloso che mi piace poco e che fa presto a scivolare in un vile giustificazionismo. Non diverso, in essenza, dal ragionamento di chi dicesse che se gli ebrei in Germania fossero stati meno visibili, in minor numero e di minor successo allora…non ci sarebbe stato il nazismo e l’olocausto. Il mondo andrà restringendosi, globalizzandosi, intrecciandosi sempre più: rinchiudersi nella propria omogeneità culturale (etnica, religiosa, estetica…) è una fuga dalla realtà, e rende incapace un paese di vivere con equilibrio questi inevitabili processi, mentre lo privano di stimoli, apporti, lieviti positivi.
Secondo i sostenitori della “fine della demografia”, in uno stato di stazionarietà demografica anche la geodemografia del mondo – parente stretta della geopolitica – finirebbe con l’assumere una struttura fissa. Per lei, invece, il forte dinamismo demografico del secolo in corso “non sarà neutro rispetto agli assetti geopolitici del mondo”. Che tipo di configurazione geodemografica e geopolitica dobbiamo aspettarci, allora?
Il numero non è, di per sè, potenza, come sosteneva Mussolini, tuttavia conta sicuramente negli equilibri internazionali. L’Africa racchiudeva il 9% della popolazione mondiale nel 1950, ne racchiuderà il 40% a fine secolo; l’Europa pesava per il 22% sulla popolazione mondiale alla prima delle due date, ma il suo peso scenderà a meno del 6% nel 2100…Sotto un altro aspetto, la Cina che pur cederà presto all’India il primo posto per popolosità, ha giganteschi piani di espansione internazionale, al centro dei quali sta la cosiddetta Belt and Road Initiative, con investimenti stratosferici per potenziare le comunicazione tra Asia, Africa e Europa (gasdotti, oleodotti, porti, aeroporti, ferrovie), che rafforzeranno enormemente la mobilità tra occidente e oriente. Popolosità e dinamismo economico consentiranno – forse – alla Cina di diventare il motore di una parte del mondo che conta miliardi di abitanti.
Ne “Il pianeta stretto” scrive che, se è vero che il rallentamento della crescita demografica rimane una priorità, “la demografia del XX secolo pone alla comunità internazionale un’ulteriore sfida: la conservazione di adeguati equilibri ambientali”, improntati a criteri di razionalità ed equità. Che rapporto esiste tra finitezza della biosfera e giustizia globale?
Non sono certo che esistano relazioni precise. Ma forse si può sostenere che la cura dell’ambiente – la cura, cioè, di un bene comune – che eviti forme di degrado è un fattore primario del benessere umano. L’inquinamento delle acque, quello dell’aria, il degrado dei territori, colpisce in maniera assai più dura i poveri dei ricchi, ed approfondisce le disuguaglianze economiche e sociali. La qualità dell’ambiente, inoltre, è in stretta relazione con la salute umana e con le disuguaglianze nei livelli di sopravvivenza. Il pianeta è “stretto”; più della metà delle terre emerse sono direttamente o indirettamente antropizzate, e lo spazio “disponibile” sul pianeta si riduce. Ecco perché dello spazio, che è finito, deve aversi maggior cura, deve essere utilizzato senza sprechi, mantenendone la qualità. Questo può non ridurre le disuguaglianze, ma è una premessa perché questo avvenga.