«I valori e i comportamenti degli esseri umani sono modellati dalla misura in cui la loro sopravvivenza è sicura». L’incipit darwiniano (l’evoluzione) e hobbesiano (la paura che scatena il bisogno dell’autorità) dell’ultimo libro di Ronald Inglehart (Cultural Evolution. People’s Motivations are Changing and Reshaping the World, Cambridge 2018) riflette l’esperienza di cinquant’anni di indagini condotte su scala globale con l’impegno, di una vastità che non ha eguali, e che è stato reso possibile dalla creazione della rete mondiale del World Values Survey, un istituto di analisi che nel tempo, lavorando su 80 paesi del mondo che coprono l’85% della popolazione, ha dato conto del cambiamento dei valori morali, religiosi, socioculturali e della connessione tra questi e la politica e l’economia. Il lavoro di questo sociologo e politologo americano di 83 anni disseziona le tendenze nel mutamento dei valori scrutando i percorsi che portano, per esempio, nella storia all’emergere sia dei movimenti LGBTQ sia del populismo xenofobo. I suoi lavori precedenti hanno scoperto come dagli anni 70 e 80 si sia affermata, con la sostituzione generazionale, la supremazia dei valori post-materiali su quelli materiali. Negli ultimi anni è avvenuto però un colpo di scena, che ha rovesciato quella «rivoluzione silenziosa» nel suo opposto, con vaste conseguenze sulla divisione delle parti in società tra destra e sinistra, di cui qui gli chiediamo conto.
Quali sono i criteri per distinguere preferenze materialiste e postmaterialiste?
Nella nostra indagine sugli Stati Uniti del 2017 abbiamo chiesto di rispondere a sei domande circa la scelta da fare tra gli obiettivi più importanti per il bene del loro paese e possiamo definire “materialisti” quelli che scelgono la crescita economica, la lotta al carovita, l’ordine pubblico, il pugno duro contro la criminalità e postmaterialisti quelli che danno priorità alla libertà di espressione, alla partecipazione politica, a una maggiore autonomia nel loro lavoro, all’autoaffermazione, all’ambiente, alla libertà di scelta sessuale. Già nel 2012, seconde presidenziali vinte da Obama, tra i “materialisti” c’era una certa prevalenza del voto per il repubblicano Romney e tra i “postmaterialisti” una predilezione per Obama, ma questa differenza è cresciuta poi in modo spettacolare: tra i “materialisti” quasi 4 volte più probabile il voto per Trump, tra i postmaterialisti 14 volte più probabile il voto per la Clinton.
Prima di questo spettacolare cambiamento lei aveva individuato una tendenza simile in tutte le società a economia avanzata e ne ha ricavato una teoria a cui applica il concetto darwiniano di evoluzione. Può sintetizzarla qui?
Il sentimento che la sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi nella battaglia per sopravvivere. L’evoluzione ha sviluppato un “riflesso autoritario” per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo alle norme del gruppo. E all’opposto alti livelli di sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura verso outsiders e nuove idee.
I cambiamenti nella scala dei valori richiedono molto tempo perché le nuove generazioni che sfidano le tradizioni non prevalgono subito, l’eredità del passato resiste, però poi la modernizzazione si afferma. Come?
Quando si raggiunge lo stadio per cui una gran parte della popolazione cresce assumendo la sopravvivenza com qualcosa di scontato avviene uno spostamento dal “materiale” al “postmateriale”, dalla sicurezza economica e fisica alla libertà di scelta e all’auto-affermazione. Questo passaggio trasforma le norme prevalenti che riguardano la politica, la religione, l’eguaglianza di genere, la tolleranza per gli outgroups, gli “altri” e porta a un maggiore interesse e sostegno per la tutela dell’ambiente e della democrazia.
La forza della democrazia dipende dunque dalla sicurezza della sopravvivenza ed è esposta a rischi se quella sicurezza vacilla
Qui abbiamo oggi una autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero di paesi. Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali avanzate, l’Europa e il Nord America. È qui dove è più forte. Non riguarda la Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha seri problemi ma diversi. La cultura della tolleranza che si è affermata nel dopoguerra sta vivendo un contraccolpo legato alle minacce alla sicurezza economica.
Eppure, non abbiamo un collasso economico in Europa e negli Stati Uniti, c’è ancora una ricchezza molto maggiore che nel resto del mondo.
È vero che non abbiamo la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita ma il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito. Il problema dei paesi sviluppati è la crescente insicurezza, mentre la crescente prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni 30 quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro sicuri.
Se la situazione è così chiara, se il trend populista dipende da questa insicurezza che minaccia il presente e il futuro di tanta gente, come spiega che i leader democratici non abbiano saputo rispondere e che solo leader estremisti e populisti riescano a farsi interpreti delle ansie di tanta gente?
Perché erano fiduciosi che le cose andassero bene. E sembravano davvero andar bene per gli strati più garantiti della popolazione, inizialmente per i due terzi, poi per la metà più in alto, ma alla fine solo per il dieci per cento in cima. I liberal, i progressisti, la parte della popolazione più istruita e più garantita, danno per scontata la sicurezza elementare della propria esistenza e tendono a rimuovere la xenofobia come il vizio di una parte arretrata, ignorante, stupida della popolazione. Non sono consapevoli della necessità di correzioni radicali alle politiche liberali standard degli ultimi due decenni. Hillary Clinton ha rimosso la sfida attaccando con arroganza i sostenitori di Trump come “deplorevoli”. Bisogna riconoscere invece che ci vogliono nuove soluzioni e un ruolo del governo che nessuno dei leader liberali ha finora concepito.
Alla Bernie Sanders?
Anche lui ha sbagliato la diagnosi della situazione, ma credo che sul ruolo redistributivo del governo abbia colto un punto.
Le opposizioni al populismo faticano a riorganizzarsi e a riprendere in mano l’agenda. Poche eccezioni, ma non è ancora cominciata una vera reazione.
Direi che ora è suonata la sveglia. I cambiamenti radicali non avvengono fino a che non c’è uno shock, fino a che non ti gettano nell’acqua fredda o non ti prendono a schiaffi. I partiti xenofobi costringono a guardare una genuina serie di problemi: il primo è quello della crescente ineguaglianza, ma c’è anche l’immigrazione che va gestita meglio. I leader politici tendono a seguire il tracciato della minor resistenza fino a che non prendono una vera grande legnata.
Il problema migrazioni. Tutto sembra decidersi lì in Europa e negli Stati Uniti. Ed è qualcosa che durerà nel tempo, con l’aggravante in Europa dall’invecchiamento.
L’ineguaglianza geografica è il maggiore problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla spagnolo della stessa Spagna. Qualcosa che cambia la faccia degli Stati Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva.
Ora la legnata è arrivata, in America con Trump e in buona parte d’Europa.
Ora nel mondo sviluppato siamo consapevoli che c’è qualcosa di sbagliato nella vita politica, ma siamo ancora nella fase in cui ci si chiede “che cosa è?”. Abbiamo seminari come questo che fate a Milano che cercano di rispondere e stiamo comprendendo che non si tratta di qualcosa di piccolo e temporaneo, ma di qualcosa che richiede un fondamentale riorientamento del governo e che le vecchie politiche liberal non sono adeguate per tirarci fuori da qui.
Guardando alle vicende politiche in Europa, US, ma anche in Turchia, Cina, Russia, India, parliamo di un trend illiberale nel mondo, ma si tratta della stessa cosa? Una bassa crescita in Europa non ha creato situazioni paragonabili alla povertà di paesi in via di sviluppo. Eppure, le politiche liberali sono in difficoltà ovunque.
No, non c’è un trend illiberale dovunque. Possiamo raccontarci molte storie che sembrano somigliarsi, ma non è così. La Cina stava liberalizzando la società fino al regime ora in carica, altri paesi stanno diventando più democratici. Xi Jinping è chiaramente un leader autoritario e sta respingendo quelle che considera (credo a ragione) minacce al monopolio del potere del Partito comunista. Stava crescendo una tendenza opposta, ma i top leaders del partito, dell’esercito, dei media hanno paura e schiacciano qualunque tentativo di affermare la libertà di espressione e qualunque autonomia. Ma questo fenomeno non ha le stesse radici del trend che affligge l’Europa, non nasce dalla mobilitazione xenofobica o dalla insicurezza come in Europa.
Diverso il caso della Cina, ma il populismo induista al governo in India ha molte analogie con quello europeo, contro l’enorme minoranza musulmana.
Ma questa non è una novità in India, un paese che si trova ad uno stadio arretrato rispetto alla Cina e che ha una piccola (relativamente) minoranza della popolazione che ha conquistato la sicurezza e una grande parte che vive ancora in povertà. L’India ha una società divisa culturalmente e xenofobicamente. L’ascesa del partito Hindu Nazionalista è recente e riflette situazioni di vecchia data, fin dalla nascita dello Stato indipendente e dalla Partition tra India, Pakistan, Bangladesh con quel che ne è seguito: esodi e perdita di milioni di vite. Il Partito del Congresso ha cercato di gestire un’India unita, combattendo le immense divisioni dovute alle caste e alle differenze religiose. L’opportunismo di Modi usa la mobilitazione xenofobica per raccogliere voti ma al governo si comporta in modo più moderato. Non credo che sia una tendenza di lungo periodo, anche se non ne possiamo essere sicuri. Nel lungo periodo vedo comunque una crescente prosperità.
Ha ancora fiducia nel future della democrazia e dei valori liberali?
Certo sì! Se guardo la tendenza nel lungo termine vedo che la sicurezza per la propria vita è cresciuta. La crisi che attraversiamo non è di scarsità ma di ineguaglianza nella distribuzione e questo è qualcosa che si può risolvere con la politica. Non è diciamo una certezza deterministica ma probabilistica, perché una delle qualità della democrazia è che la gente può scegliere nuovi leader. Qui hanno scelto Trump e credo che abbiamo commesso un grave errore, ma la democrazia ha flessibilità, a differenza dell’autocrazia. Ha il grande vantaggio di far ruotare le leadership e produrre pacificamente nuove politiche. Dopo tutto è una buona invenzione. Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale. Io e lei potremmo sederci a un tavolo e spendere un week end per pensare le politiche necessarie per uscire dai guai presenti, ma poi farle passare e funzionare è questione un po’ più complicata.