E’ in libreria per La Nave di Teseo il pamphlet “Europa, nonostante tutto”, raccolta di scritti di cinque esperti di diverse materie sulle ragioni per riconoscere e consolidare la ricchezza dell’unità europea sotto altrettanti punti di vista. Pubblichiamo di seguito due estratti dal libro dedicati al tema della complessa e proprio perciò florida identità europea.
Piergaetano Marchetti
Troppa Europa (ma, secondo le mode “sovraniste”, l’Europa comunque) comporterebbe offuscamento, se non distruzione dell’identità nazionale. Anche qui occorre anzitutto, sul piano del metodo, bandire parole a effetto che suscitano suggestioni irrazionali sorrette da scarsa informazione.
A parte la difficoltà di stabilire con esattezza in che cosa consista l’“identità nazionale” (neppure l’unicità della lingua, ben sappiamo, lo è), assumiamo pure che ci si riferisca all’insieme di tradizioni, culture, gusti, valori, abitudini. È subito evidente, allora, che l’identità può essere attribuita a comunità ben più ristrette di un singolo Stato nazionale: a regioni, a comunità addirittura intraregionali, così come a comunità trasversali, a varie unità di rilevanza politico-amministrativa all’interno di uno stesso Paese.
Il problema del rispetto delle identità non è dunque esclusivo dell’Europa, ma è un tema che, al pari dei singoli Stati tra cui il nostro, essa ha ben presente. Leggiamo l’articolo 4 del Trattato sull’Unione europea: “L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali.”
Le citazioni tratte dal Trattato sull’Unione europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione potrebbero continuare per pagine e pagine. E così, fra i molti, va rammentato il principio del solenne richiamo alla “diversità culturale e linguistica” dei Paesi europei (art. 3), come quello del “dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile” di ciascuno di essi (art. 11).
Va ricordato come l’Europa rivendichi di essere “unita nella diversità”. E del resto che cos’è l’Italia unita, quante volte lo si è ripetuto, se non un fecondo insieme di diversità?
La ricchezza di una comunità, allora, sta proprio nella capacità di far convivere, di potenziare tante diversità e tante identità, facendo in modo che si valorizzino reciprocamente.
L’identità è come l’affetto, l’amore famigliare. A una identità se ne possono aggiungere altre che non annullano la prima. Come l’amore per le persone care, per i nostri figli. Ciascuno è legato a un luogo d’origine, a una cultura, a un ambiente, ma anche all’insieme del Paese. Sono plurime identità, di cui si è orgogliosi, che formano la nostra personalità e che convivono. L’una non uccide l’altra. L’una integra l’altra. Almeno in uno Stato democratico, in una collettività che sui diritti dell’uomo e della sua personalità è costruita. E questa è l’Europa, tanto più se, fra l’altro, con il rafforzamento del ruolo del Parlamento, con una forte valorizzazione del decentramento e con la comunicazione saprà rendere chiaro di essere già, e di poter essere sempre più, vicina ai suoi cittadini, di costituire (come ampiamente dimostra Alberto Martinelli) una comunità di cultura, di principi, di risultati.
Alberto Martinelli
Elencare i numerosi diritti di cui godiamo in quanto cittadini europei, argomentare razionalmente che in quanto membri di una grande Unione sovranazionale gli Stati membri sono più forti, sicuri e sovrani e che è nel nostro interesse rimanere nell’UE non è sufficiente a esorcizzare le sirene nazionalistiche, che sembrano rispondere più immediatamente al bisogno di appartenenza e di radici identitarie in un clima sociopolitico di diffusa insicurezza.
Brexit e i risultati elettorali in molti Paesi mostrano che le scelte politiche dei cittadini non avvengono solo in base agli interessi percepiti, ma anche a pulsioni identitarie. Il progetto europeo rischia di essere un ideale “freddo”, che fa appello alla ragione più che ai sentimenti. La questione dell’identità va quindi presa sul serio, affermando che, come la cittadinanza europea non è in contrasto con quella nazionale, così l’identità europea comune non è alternativa, ma complementare rispetto a quella nazionale.
Coloro che negano la possibilità stessa di un’identità europea usano essenzialmente tre argomenti. Il primo è che l’Europa è stata nei secoli un mondo aperto e multiforme, in cui si sono incrociate e confrontate diverse identità culturali che hanno costantemente messo in discussione le credenze condivise e i legami unificanti, ragion per cui non vi può essere un’identità comune. A questa obiezione si risponde osservando che la varietà dei codici culturali e la pluralità dei percorsi verso e attraverso la modernità dei popoli europei non impedisce di riconoscere l’esistenza di un’identità comune, portato di una lunga eredità storica di radici culturali condivise (la filosofia greca, il diritto romano, le tradizioni religiose ebraica e cristiana, la civiltà rinascimentale) e consistente in un nucleo di valori e atteggiamenti culturali specifici organizzati intorno al rapporto dialettico tra razionalità e individualismo/soggettività.
Queste radici comuni sono tratti europei distintivi da lungo tempo, ma si sono cristallizzati nello specifico contesto storico della modernità e della cultura dell’Illuminismo, producendo profonde trasformazioni strutturali e audaci innovazioni istituzionali (economia di mercato e capitalismo industriale, liberal-democrazia rappresentativa, Stato nazionale, università di ricerca). In questa prospettiva l’Unione in costruzione è espressione di una modernità radicale, un progetto orientato a un futuro migliore del presente e del passato.
Lo sviluppo dell’identità e della cultura europee non è stato un percorso omogeneo e continuo, privo di fratture e di snodi critici, ma un processo in costante mutamento, che ha assunto manifestazioni eterogenee nei diversi contesti nazionali e locali, in rapporto dialettico con le diverse identità. Oggi le differenze culturali sono una grande ricchezza dell’Europa, un patrimonio che il processo di unificazione non può e non vuole cancellare. Il Trattato di Lisbona (TUE, artt. 3 e 4) afferma, infatti, che “l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali” e fa esplicito riferimento alla diversità culturale e linguistica e alla ricca articolazione della società civile europea e delle sue associazioni rappresentative.
La seconda obiezione è che solo alcuni degli elementi costitutivi dell’identità collettiva di un popolo sono presenti nel caso dell’identità europea, perché non esistono né un demos europeo, né una memoria storica univoca (dal momento che non è possibile la trasformazione mitica e celebrativa in epopea di eventi condivisi, le vittorie militari degli uni sono le sconfitte degli altri, Austerlitz è celebrata a Parigi, Trafalgar è celebrata a Londra), né un linguaggio comune, né una densa rete di rapporti di parentela, lignaggio e stirpe (le famiglie europee imparentate attraverso i confini nazionali sono ancora una minoranza, sia pur crescente).
A questa seconda obiezione si risponde ricordando che i cittadini dei Paesi membri dell’Unione condividono una memoria storica comune non soltanto divisiva; che l’assenza di un’unica lingua non impedisce la formazione di una koinè culturale europea né ostacola l’intreccio di interazioni e comunicazioni quotidiane tra gli abitanti dei vari Stati (anzi, la rinuncia consapevole all’omogeneità linguistica è giustificata ed è il prezzo da pagare se si vuole conservare lo straordinario mosaico di lingue e culture del nostro continente); e, soprattutto, che l’identità comune europea, pur facendo riferimento a una memoria condivisa, non consiste nella conservazione passiva di ideali passati, ma è la realizzazione di un progetto aperto, dinamico, alimentato quotidianamente da processi “spontanei” di integrazione “dal basso” (interazioni economiche, rapporti di lavoro, gemellaggi scolastici, scambi culturali, matrimoni misti, servizio civile europeo per i giovani) ancor più che dall’azione deliberata delle istituzioni “dall’alto”.
La terza obiezione è di natura psicologica: come hanno affermato molti sostenitori di Brexit, a cominciare da Boris Johnson, ex ministro degli esteri del Regno Unito, gli europeisti vivrebbero delle “lealtà scisse”. Ma perché mai? La pretesa di monopolio dello Stato nazionale sull’identità è anacronistica, il rifiuto di identità plurime è frutto di un pregiudizio e contrasta con la nostra esperienza quotidiana: la maggior parte di noi ha sentimenti di appartenenza a diverse comunità, cittadina, regionale, nazionale, europea. La diffidenza e l’ostilità di partiti e movimenti nazional-populisti nei confronti di persone e stili di vita cosmopolitici nascono dal rifiuto di ammettere che è la complessità stessa del mondo globalizzato a far sì che molte persone si sentano allo stesso tempo radicate in una realtà municipale, appartenenti alla comunità nazionale e cittadini europei. Non solo abbiamo identità multiple, ma adottiamo l’una o l’altra a seconda delle circostanze. Se l’attaccante polacco della mia squadra di calcio segna un gol al portiere italiano della squadra avversaria, mi rallegro della comune appartenenza; ma se lo stesso attaccante segna per la nazionale polacca contro quella italiana, difesa magari da un portiere di origine brasiliana o senegalese, diventa un avversario.
Abbiamo identità multiple che condividiamo con intensità variabile a seconda delle circostanze, così come abbiamo una doppia cittadinanza, anche se la cittadinanza europea è ancorata e subordinata a quella nazionale.