Le narrative descrittive e normative sull’europeizzazione e lo sviluppo dello stato sociale sono spesso pervase da pessimismo (Ferrera, 2018). Focalizzandosi sulla politica europea da una prospettiva di lunga durata, si sono interessate soprattutto ai passati processi fondativi, a carattere conflittuale. Di gran lunga inferiore è l’attenzione dedicata al cambiamento tecnologico in atto, che investe gli accordi riguardanti il Modello sociale europeo (MSE) e il possibile sviluppo dell’Unione sociale europea (USE) (Vandenbroucke e Vanhercke, 2014).
L’inarrestabile processo di robotizzazione nel nuovo contesto dell’industria 4.0 sta già provocando profonde trasformazioni nelle democrazie del welfare. Questa quarta rivoluzione informatica e tecnologica guidata dalla diffusione globale di internet e dell’automazione sta intensificando nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Prima o poi, la robotizzazione in corso renderà superfluo il bisogno di gran parte del lavoro umano retribuito. Come sarà la convivenza tra robot e umani? Tutto sembra indicare che la transizione verso una completa robotizzazione di attività economiche in grado di incorporare processi di automazione efficienti sarà graduale ma accelerata. Seguirà i criteri fondamentali di massimizzazione della redditività nell’attuale configurazione del capitalismo globale (Moreno e Jiménez, 2018).
Gli europei continuano a fare affidamento soprattutto sull’azione del loro stato sociale nazionale. Ciò conferisce legittimità politica a un MSE onnicomprensivo, i cui contorni politici vanno oltre l’elaborazione di un’entità istituzionale o un insieme di politiche sociali nette e definite. Alcuni osservatori continuano a negare l’esistenza del MSE e parlano di un mito, in quanto l’integrazione economica europea non avrebbe creato un’Europa sociale (Höpner, 2018). Questo tipo di narrative negazioniste tende a ridurre la discussione sull’Europa sociale al raggiungimento di un grado ottimale di omogeneità rispetto all’eterogeneità all’interno dell’UE. A volte, i critici puntano implicitamente sull’opportunità di costruire un nuovo super-stato continentale nuovo di zecca, sulla falsariga dell’obsoleto stato nazionale della Westfalia.
Ritengo che la costituzione degli Stati Uniti d’Europa non possa essere considerata il risultato finale del processo di europeizzazione. Le scuole di pensiero neo-funzionaliste hanno generalmente adottato l’idea che il progresso universale richieda una modalità di integrazione equivalente all’assimilazione culturale, secondo il modello proposto dai sostenitori del melting pot americano. Una concezione alternativa, per un’integrazione non omogenizzante, deve porre l’accento sulle caratteristiche storiche, psicologiche e sociali di un’Europa plurale. Ciò dovrebbe tradursi in una programmazione politica che concili l’unità e la diversità attraverso un patto politico inclusivo tra gli Stati membri coinvolti.
Questo contributo verte sull’impatto della robotizzazione in corso sui mercati del lavoro di tutto il mondo e sulle sue implicazioni per le politiche sociali dell’Unione Europea in materia di protezione/assicurazione contro la disoccupazione ed eventuale adozione di regimi di reddito minimo (RMG). I riferimenti alla robotizzazione includono tutti i relativi processi di calcolo, digitalizzazione, automazione e, in generale, tutte le applicazioni interdipendenti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
Vivere con i robot: lavori condivisi e sostituiti
La convivenza tra robot e umani è già un dato di fatto. Non accade solo nei contesti amministrativi in cui si svolge un lavoro meccanico e ripetitivo. Per mezzo di sofisticati algoritmi, i robot danno anche consigli ai ricchi su dove è meglio investire fondi e risparmi. Un robot può scegliere l’intrattenimento con suggerimenti di svago; può anche elaborare diagnosi e ottimizzare la nostra salute attraverso la cosiddetta e-health. Tale convivenza tra umani e robot implica grandi cambiamenti nella nostra vita sociale, come mostra in modo esemplare la sostituzione dei lavori svolti fino a oggi solo dagli umani.
Quanti tipi di lavoro spariranno con l’espansione dei robot? La questione è di cruciale importanza, in quanto le democrazie del welfare sono basate sul lavoro salariato. La Costituzione italiana del 1948, per esempio, dichiara esplicitamente che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Lo studio di Frey e Osborne (2013) ha analizzato con innovativi metodi di ricerca le caratteristiche di oltre 700 occupazioni negli Stati Uniti nel 2010, identificate come passibili di automazione e robotizzazione nel corso dei decenni successivi. I loro calcoli e stime hanno innalzato fino al 47% il numero di lavori potenzialmente sostituibili da robot o applicazioni digitali di intelligenza artificiale o big data. Naturalmente, i lavori candidati a scomparire più rapidamente erano quelli con scarse qualifiche e bassi salari (per esempio i lavori alla catena di montaggio o agli sportelli bancari). Solo quelli basati sul “pensiero esperto”, capace di risolvere problemi per i quali non esistono soluzioni fisse o predeterminate, sarebbero al sicuro, rendendosi anzi necessari in quantità sempre maggiori.
Ovviamente, non c’è accordo sui tempi e le proporzioni della sostituzione robotica del lavoro. Applicando la stessa metodologia di Frey e Osborne al caso del Regno Unito, la società di revisione e consulenza Deloitte ha offerto una lettura alternativa dei dati disponibili. In uno studio successivo, in questo caso con uno sguardo retrospettivo e non rivolto al futuro, la società ha concluso che tra il 2001 e il 2015 i posti di lavoro creati a causa dell’influenza della tecnologia in generale (non solo dalla robotizzazione) ammontavano a quattro volte quelli persi per la stessa ragione (Deloitte, 2015).
Nella produzione industriale degli Stati Uniti è in atto una competizione tra capitale umano e tecnologia. Alcune aziende cercano di automatizzare quasi ogni aspetto della produzione, ma molte altre dimostrano scarso interesse all’idea di investire nella robotica. Innanzitutto, i macchinari robotici sono molto costosi. Inoltre, le aziende soggette a flessioni stagionali o cicliche guardano con preoccupazione ai costi conseguenti al mancato utilizzo di tali macchinari; i lavoratori umani, invece, possono essere lasciati andare quando la produzione cala. E, tra manager ed economisti, è in corso un dibattito sugli effettivi guadagni di produttività resi possibili dai robot (Acemoglu e Restrepo, 2017; West, 2018).
Inoltre, si prevede che il cambiamento tecnologico influenzerà la struttura dell’occupazione, più che il suo livello, plasmando un mercato del lavoro ancora più polarizzato tra lavori altamente e pochissimo qualificati. Di conseguenza, emergerebbero disuguaglianze salariali più significative tra i due poli. Poiché il cambiamento tecnologico crea sia vincitori che perdenti, e comporta un aumento dei “lavoratori poveri”, una delle principali sfide per il futuro del lavoro consiste nel far fronte alla crescente disuguaglianza (Amtz et al., 2016).
Si stima che negli Stati Uniti la spesa per la robotica sarà pari a circa 90 miliardi di dollari nel 2018, principalmente per la produzione industriale. Anche se tale spesa dovrebbe ammontare a “solo” il 3% del totale dei 3.000 miliardi di dollari di investimenti di capitale, indica chiaramente una tendenza che può solo intensificarsi. A livello mondiale, e dopo essere cresciuto tra il 2010 e il 2015 a un tasso composto del 17% annuo, secondo le stime dell’IDC (2017) il mercato dei robot avrà un valore di 135 miliardi di dollari entro il 2019.
In effetti, l’incertezza ha un ruolo importante nel guidare i cicli economici, anche nel caso della robotizzazione. In passato, gli shock di incertezza hanno portato di solito a cali di circa il 2,5% del PIL, con un brusco calo, un rapido recupero e quindi un rallentamento costante della produzione (Bloom et al., 2018). Nel caso della robotizzazione, e se le proiezioni di sostituzione di posti di lavoro presentate da Fry e Osborne si materializzassero, la situazione emergente per le democrazie del welfare sarebbe un capovolgimento economico piuttosto che una recessione ciclica. Le possibilità di sostenere i sistemi di protezione sociale in Europa, come li abbiamo conosciuti finora, affronterebbero una congiuntura critica.
Shock di disoccupazione e reddito minimo garantito
Qualsiasi futuro sociale dell’UE è inestricabilmente legato alla sopravvivenza degli stati sociali europei. Al loro interno, l’erogazione di un adeguato livello di protezione per i lavoratori durante gli impatti degli shock di disoccupazione è fondamentale. Nel futuro robotico, i rischi sociali per i lavoratori non retribuiti richiederanno la solidarietà della cittadinanza nel suo insieme, in modo tale che sia possibile conseguire sia i diritti che i doveri sociali. Tuttavia, molte discussioni nel dibattito in corso sull’idea del reddito di base universale o del reddito di base garantito hanno sottolineato i possibili effetti disfunzionali che potrebbe avere l’erogazione di denaro senza lavoro (vedi la conversazione tra Ferrera e Van Parijs in EuVisions, BIG per una bibliografia completa sul reddito di base, e Ortiz et al. (2018) per una rassegna delle proposte sul reddito di base universale secondo gli standard dell’OIL).
L’accesso a posti di lavoro dignitosi e ben retribuiti continua a essere l’opzione preferita per molte persone. L’occupazione come mezzo di inclusione sociale è una risorsa condivisa dalla maggioranza delle persone nelle nostre società europee postindustriali. Ma i lavori che possono essere riorganizzati con l’intensificazione dell’automazione stanno diminuendo. In questa situazione, la migliore alternativa per gli stati sociali europei è garantire e rafforzare le garanzie di reddito minimo per i cittadini precari al fine di rendere possibile un’effettiva cittadinanza sociale.
Il RMG implica la distribuzione di una somma di denaro modesta ma sufficiente affinché le persone possano vivere dignitosamente nei loro luoghi di residenza. Tale reddito coprirebbe le necessità di base della vita e garantirebbe ai residenti legali il loro effettivo diritto alla cittadinanza sociale. Per consentire l’applicazione di questo nuovo contratto sociale indotto dalla robotizzazione, una politica redistributiva attiva basata sulla tassazione progressiva dovrebbe raccogliere risorse sufficienti per il suo finanziamento. Senza il consistente contributo dei più ricchi, non sarebbe possibile migliorare il benessere materiale di tutti i cittadini.
Tra le varie opzioni per far sì che i regimi di reddito minimo siano efficaci per tutti i disoccupati privi di protezione, ritengo che quella legata alla cosiddetta “imposta negativa sul reddito” sia la più adeguata. Viene fissato un minimo imponibile e, se il reddito del contribuente è inferiore a questa soglia, questi ottiene la differenza. In altre parole, se il reddito di una persona non raggiunge il minimo imponibile, le viene erogata la somma necessaria per raggiungerlo. Tra gli altri vantaggi, la gestione della riscossione fiscale mediante l’imposta sul reddito delle persone fisiche e l’applicazione del reddito di cittadinanza consentirebbe di: (a) evitare discrepanze tra entrate e spese; (b) rendere effettivo il diritto dei cittadini a un reddito che garantisca la progressività netta del sistema fiscale; e (c) ottenere una gestione amministrativa più semplice e trasparente attraverso le dichiarazioni annuali dell’imposta sul reddito. Nel caso di paesi con grandi economie esenti da imposte, questo sistema contribuirebbe a combattere l’evasione fiscale nelle fasce più basse della società.
Le politiche di RMG devono basarsi sulla reciprocità del contributo dei beneficiari al benessere e alla coesione della società. Pertanto, il requisito essenziale per percepirlo deve essere la partecipazione dei beneficiari a compiti comunitari. Questi potrebbero essere molti e vari, dalla propria formazione personale a incarichi di volontariato sociale o di cura della famiglia, per citarne solo alcuni. In ogni caso, l’attuazione capillare di tali programmi richiederebbe la volontà politica dello stato e dei suoi vari livelli di responsabilità.
L’istituzionalizzazione dell’idea di reddito minimo richiederebbe una raccomandazione unanime, anche se “morbida”, da parte delle autorità dell’UE, come è avvenuto con l’iniziativa della Commissione (2018) sull’”accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi”. Il sostegno della Commissione, del Consiglio e del Parlamento dovrebbe comunque evitare di presentarsi come un piano di “comando e controllo”, imposto dall’alto verso il basso alle pratiche a lungo termine di contrasto alla povertà sviluppate a livello locale e nazionale nei vari livelli della governance europea. Un simile approccio “soft” non esclude la possibilità che le istituzioni dell’UE stabiliscano standard di copertura e che li integrino con finanziamenti condizionati agli Stati membri che hanno sistemi di protezione sociale meno generosi.
Il RMG non esaurisce le possibilità di articolare altri regimi di protezione e sicurezza per i disoccupati attraverso la previdenza sociale. Benché le misure di sostegno ai disoccupati siano condizionate dagli effetti delle recessioni economiche, non ci si può aspettare che esse risolvano i problemi strutturali di vecchia data degli Stati membri riguardo al mercato del lavoro nazionale (per esempio, la disoccupazione di lunga durata). Nell’immediato futuro, questi rimarrebbero nelle competenze degli Stati membri. Un vero e proprio sistema europeo di assicurazione contro la disoccupazione sembra essere fuori questione al momento. Nel frattempo, nulla impedisce la promozione di programmi di garanzie di reddito minimo in base all’ottimizzazione della governance multilivello nell’Europa sociale.
L’ambito del welfare è stato spesso lasciato fuori da questi accordi di tipo federale. Le ragioni di tale inibizione politica derivano in larga misura dalle caratteristiche del processo di europeizzazione, sempre fluttuante tra i due noti processi di “unirsi” e “tenere insieme” teorizzati da Alfred Stepan (1999). Non dimentichiamo che le dinamiche conflittuali sono servite fin dai tempi del Trattato di Roma del 1957 per cementare alleanze orizzontali tra gli svantaggiati e promuovere la giustizia politica attraverso scambi verticali tra governanti e governati.
Note conclusive
L’europeizzazione non può essere dissociata dalla necessità di andare avanti nel completamento dell’unione monetaria. Il sofisma di separare l’economico dal sociale sta danneggiando la stessa configurazione del welfare dell’UE rispetto ad altri modelli concorrenti (per esempio, le emergenti pratiche asiatiche di “neo-schiavitù” o la rimercificazione individuale anglo-americana). Dopotutto, il Meccanismo europeo di stabilità (MES) è un progetto politico articolato non solo attorno a valori di giustizia sociale (uguaglianza) e solidarietà collettiva (redistribuzione) ma anche di efficienza produttiva (ottimizzazione).
Internamente, i nemici di un’Europa unita sono i nuovi populismi, molti dei quali identificano nell’UE e nel processo stesso di europeizzazione il male che affligge i cittadini che vivono negli Stati membri. Alcuni nazionalismi che si riconoscono in uno stato invocano il mantenimento di un’impossibile sovranità di tipo ottocentesco. Altri nazionalismi che non si riconoscono in uno stato puntano a loro volta a raggiungere questa sovranità illusoria attraverso la secessione. I diversi partiti politici e gli altri attori impegnati nell’europeizzazione affrontano la sfida di ottimizzare il processo decisionale ed elaborare ulteriori proposte politiche. L’esito delle elezioni per il Parlamento europeo del maggio prossimo potrebbe indicare la direzione da seguire.
Per quanto riguarda la nostra discussione sugli effetti dei processi di robotizzazione in corso, questi devono essere incorporati nella promozione dell’Europa sociale. Uno studio sul caso italiano ha confermato che livelli più elevati di oggettivo rischio di disoccupazione tecnologica riducono significativamente l’opposizione all’introduzione di misure di protezione del reddito come potrebbe essere il RMG (Sacchi et al., 2018). In effetti, la robotizzazione sta mostrando conseguenze di ampia portata sullo sviluppo del welfare nel Vecchio Continente. È ora di superare ogni residuo scetticismo e inerzia politica.
Questo articolo è apparso per la prima volta in inglese su EuVisions – Tracking the ideas, discourse and politics of social Europe