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Chiamiamolo trend. Trend illiberale. Parole per definire quello che sta accadendo nella vita politica dei paesi europei, dell’Est e dell’Ovest, degli Stati Uniti, in Turchia, in India e forse anche altrove: la caduta del soft power della democrazia occidentale e la fine di quello che sembrava un fascino irresistibile. Non mettiamo tutti insieme e sullo stesso piano: c’è chi sta peggio di noi italiani per gravità delle misure prese contro le opposizioni, contro l’indipendenza della stampa e dei magistrati (finora), ma, attenzione, il collasso dei partiti politici tradizionali si somiglia quasi dappertutto, così come la diffusa pulsione contro le élites e la stampa indipendente, e come il successo di movimenti politici anomali, più o meno radicali e antagonisti nei confronti di chi ha governato prima di loro. Si tratta di movimenti antagonisti anche nei confronti della realtà, per cui quel che non funziona è sempre da imputare a qualcuno nel nome degli interessi del popolo. Un popolo che viene immaginato come una entità indiscutibile e compatta, eticamente omogenea e legittimata ad avere sempre e comunque la meglio su ogni genere di resistenza, non solo sugli avversari politici, ma anche sulle istituzioni liberali di garanzia, sugli organi amministrativi («si facciano eleggere…»), su ogni obiezione tecnica, economica, giuridica ai desideri «del popolo». L’incompetenza alla guida di questi movimenti è pericolosa e di per sé foriera di ulteriori sviluppi illiberali.
Oltre che di un trend potremmo parlare anche di svolta a partire da una data, quella della grande recessione iniziata nel 2008, con le bolle del debito e le bancarotte scoppiate quando gli americani cominciarono a non pagare più i mutui. Le radici di questa svolta sono più lunghe: la globalizzazione economica e finanziaria dopo l’89, la deindustrializzazione di vaste plaghe dell’Occidente, ma il fenomeno ha subito certo una grande accelerazione negli ultimi dieci anni. Le istituzioni, le pratiche, lo stile delle istituzioni liberal-democratiche vengono abbandonate a partire da un certo momento nel linguaggio (presidenti americani che parlano di «paesi di merda», ministri europei che dicono: «me ne frego dell’Europa») e nei fatti (i decreti e i dazi sovranisti di Trump e quelli di Orban contro la stampa, le università, i giudici).
La massa delle novità ci costringe a pensare che siamo entrati in una fase nuova, che è avvenuto, come si dice, un cambio di paradigma, che richiede un salto di qualità nella capacità di comprendere quel che accade, prima ancora di immaginare come uscirne. Su questa svolta bisogna far luce.
Una somma di fattori a lungo non compresi o trascurati ha prodotto un tipping point, un punto di non ritorno, un «transizione di fase» che preannuncia un possibile «cedimento strutturale», proprio come per i ponti. Da fattore marginale il radicalismo populista è diventato centrale sulla scena, lo ha fatto negli Stati Uniti, in Italia, in Ungheria, in Polonia, potrebbe farlo prossimamente in Francia e in Germania. A Trump è ancora aperta la via a un secondo mandato, mentre l’Unione europea, dopo il Brexit, potrebbe finire, dopo le prossime elezioni, nelle mani dei movimenti che la vogliono sgretolare.
I fattori di debolezza presentano crudelmente il conto: l’incertezza economica per sé e per i propri figli (pochi, sempre meno) ha preso ormai il posto delle aspettative crescenti di prosperità, che sono ormai un ricordo nella mente delle generazioni più anziane; la disaffezione dalla democrazia ha sostituito il tenace e fiero attaccamento di chi aveva conquistato o difeso la libertà al prezzo molto alto della guerra a metà del secolo scorso oppure dopo la lunga oppressione dei regimi comunisti dell’Est Europa. Gli equilibri economici mondiali si spostano a beneficio dei paesi in via di sviluppo, ex Terzo Mondo, mentre l’invecchiamento della popolazione europea e le dinamiche demografiche, espongono il vecchio continente a una pressione migratoria che non si riesce a gestire. Le tecnologie intanto divorano posti di lavoro e non ne creano in quantità equivalente.
In questa situazione l’ansia si trasforma rapidamente in risentimento per gran parte della popolazione, delusa e frustrata di fronte a una palese assenza di prospettive nuove, mentre le élites liberali, le persone con ruoli più elevati e responsabili nella politica, nell’economia, nel mondo del sapere, dei media appaiono distanti dai sentimenti del «popolo», appaiono come al servizio di se stesse e della propria perpetuazione e – parole dure dell’Economist in una recente requisitoria, autocritica, sui fallimenti del liberalismo – prive della capacità e della volontà di risolvere i problemi della gente comune.
Ora la mobilità sociale appare congelata e i buoni propositi meritocratici, propugnati all’insegna dell’offerta delle «pari opportunità», appaiono un’ideologia che finisce per aggravare anziché alleggerire l’onere di condizioni sociali ineguali. Il merito sembra trasmettersi più che in passato ai figli esattamente come un patrimonio ereditario precluso ai più. La bandiera della meritocrazia ha finito per legittimare le posizioni conquistate e per dissolvere la spinta riformista che la democrazia liberale aveva nella sua propria ragion d’essere. Questo aspetto audace del liberalismo non si vede più: la «distruzione creatrice», tipica del capitalismo che piaceva a Schumpeter (e alla sua maniera anche a Marx), continua ad agitarsi, ma fa male solo alle fasce più basse e numerose della società, non a tutti. L’élite non se ne accorge, dentro la sua bolla protetta, dalla quale ha continuato, finché ha potuto, un discorso rassicurante che non piaceva più, non poteva più piacere a chi di sicuro non vede più niente di promettente intorno a sè. Tutto ciò è vero per ogni disegno di governo dell’economia, che finisce in uno strascico di dolori da distribuire, senza che chi ha le leve di comando si renda conto di quanto velocemente stia perdendo consensi.
Non basta richiamare l’attenzione sulle buone cose che funzionano come la sanità gratuita o quasi, dove c’è e funziona. La percezione negativa dell’incerto prevale ed è alimentata dalla inetta gestione dell’immigrazione, un caso nel quale è più evidente che in ogni altro campo come le strade tra le élites liberali e la gran parte del popolo si siano divise. C’è una separazione, distruttiva, tra chi vive l’ansia indotta dalle grandi migrazioni in corso e da quelle potenzialmente ancora più grandi che potrebbero seguire, e chi neppure la percepisce, quest’ansia, vivendo nel perimetro protetto del proprio benessere nelle zone di residenza meglio garantite.
Forze democratiche di ogni genere, sinistra, destra, centro, che non riescano a far propria questa ansia sono destinate a scomparire e stanno di fatto scomparendo. Questa separazione sta facendo le fortune smisurate dei partiti e dei leader capaci di strillare più forte contro gli immigrati. E chi sostiene che l’ansia è esagerata o immotivata non fa che allargare il monopolio dei consensi di chi invece la cavalca. Nell’Est europeo lo spopolamento dei nativi e le emigrazioni massicce dalle aree più povere della campagna – emigrazione, si badi bene, in uscita – aggravano la paura, che diventa panico, e portano al potere «uomini forti» sotto le bandiere del nazionalismo e nel nome di una minaccia di stranieri in arrivo pressoché uguale a zero. Una conferma che la tendenza demografica negativa è carica di conseguenze nefaste che stiamo cominciando solo ora a valutare.
Andiamo dunque per ordine nel mettere insieme gli elementi di una analisi in profondità del trend illiberale. Cominciamo dalla fragilità della democrazia che credevamo solida, esaminiamo la divaricazione che si sta producendo tra ispirazione e regole liberali che ne rappresentavano un carattere fondamentale per impedire la degenerazione autoritaria. Cerchiamo le cause della disaffezione e dell’indifferenza che ora sembra circondarla anche e soprattutto tra i giovani. Concentriamoci poi sulla centralità della questione Europa: le contraddizioni di una unione monetaria senza unione politica devono ormai essere risolte con una risposta che sappia «addomesticare» il nazionalismo, tenendo conto delle ragioni di chi ha visto sottrarre al proprio paese e al proprio controllo la vita politica nazionale e le leve dell’economia senza il corrispettivo di una nuova dimensione democratica sovranazionale. In tutto questo l’immigrazione insieme alla crisi dei rifugiati ha avuto una funzione formidabile nel fare avanzare il radicalismo populista, xenofobo e antieuropeo. L’evidente incapacità di controllare e coordinare sul piano dell’Unione i flussi sia di rifugiati sia di migranti ha avuto effetti scatenanti. Il fatto di avere lasciato agli estremisti il monopolio della coltivazione e condivisione delle ansie provocate da questi fenomeni ha prodotto conseguenze politiche catastrofiche. Una parte dell’opinione pubblica progressista si è concentrata esclusivamente sull’azione umanitaria per il salvataggio delle vite in pericolo nel Mediterraneo perdendo di vista la complessità di una gestione internazionale della crisi, che è invece indispensabile. Il ministro italiano degli Interni del governo Gentiloni, Marco Minniti, che ha compiuto una svolta in questo senso è stato inizialmente preso di mira da una campagna scriteriata. Il suo successore, Salvini, con metodo e linguaggio crudeli e disumani, ha preso la via contraddittoria di una alleanza con le forze europee meno disponibili a condividere la responsabilità della gestione dei migranti e dei rifugiati, con conseguenze potenzialmente gravissime.
Ci dobbiamo poi interrogare sulle ragioni che hanno indebolito così fortemente la coesione tra i cittadini degli stati europei e all’interno di ciascuna società nazionale, facendo prevalere l’idea surrettizia di un «popolo» tenuto insieme soltanto dal risentimento e dal desiderio di vendetta nei confronti dei governanti, spesso a prescindere da una seria analisi del loro operato e sospinti dal semplicismo e dalla faciloneria, spacciati per novità e cambiamento. Si dovrà soprattutto considerare, a fronte della propaganda populista e xenofoba, la debolezza di risposte che si limitano a rivendicare, come è comprensibile, il principio di realtà e i limiti di ogni possibile azione correttiva delle angosce del presente. Non basta se non si riesce ad offrire una idea chiara, ben descrivibile, delle ragioni per cui vale la pena di difendere il progetto europeo e una idea di Europa, che significa difesa dei principi della libertà, del suo carattere inclusivo, della difesa dignità umana, dei diritti, ma anche della prosperità
Proseguiamo e concludiamo con una delle radici più importanti della crisi presente e che attraversa tutti i momenti della riflessione sul trend illiberale: la vulnerabilità sociale cui è esposta una parte della popolazione a causa della recessione e dell’incertezza economica nei paesi occidentali, un tempo baluardo del benessere e della sicurezza: precariato, disoccupazione, competizione galoppante delle economie dei paesi in via di sviluppo, tecnologie che tagliano fuori dal ciclo produttivo milioni di persone, il morso della povertà che si fa sentire più forte. Una condizione che produce una risposta emotiva e che traduce la frustrazione in nuove illusioni destinate a peggiorare gli effetti della crisi. L’ipotesi di aumentare indefinitamente il debito e di accelerare il pensionamento aggrava l’ipoteca sulle generazioni più giovani, che sono già ora le più danneggiate.