Ma ha perso il Pd o Matteo Renzi? Difficile separare le due cose in questa stagione politica e le dimissioni postdatate del segretario sembrano un’ulteriore conferma. Renzi ha voluto e costruito con ostinazione un partito che fosse la fotocopia del suo ego, che rispecchiasse nella pratica quotidiana una sua visione politica fatta di strappi a velocità forsennata e mai di una velocità di crociera adeguata. Renzi è parso, in particolare negli ultimi tempi, un velocista in montagna che non riesce a far girare i pedali: e quando la strada sale i velocisti si staccano dal gruppo di testa.
Renzi è il Pd e il Pd è Renzi. Il segretario in questi anni si è circondato di uomini e di donne che non sono stati in grado di sentire – in primo luogo umanamente – quello che stava accadendo nel paese, anche nelle zone che avrebbero dovuto conoscere bene.
E allora, dopo una scuffia delle proporzioni di quella del 4 marzo, cosa rimane del Pd? Solo solo macerie o a qualcosa può ancora servire questo partito nato a freddo e che ha sempre perso (se si eccettua l’effimero 40% delle Europee 2014).
Per ora lo zoccolo duro – lo dice la mappa dell’Italia post-voto – è nei quartieri centrali delle principali città e lungo il tratto della A1 tra Firenze e Bologna. È l’ultimo residuo di quel voto di appartenenza culturale e sociale su cui si è fondata per 50 anni la democrazia italiana. L’ultima roccaforte ideologica e generazionale di un’Italia che oggi va da un’altra parte, cerca un voto nuovo e leggero. E questo rappresenta una beffa ulteriore per chi come Renzi cercava anche un voto d’opinione oltre gli steccati tradizionali e il superamento dell’area tradizionale del centrosinistra.
Se il paese ha travolto l’ambizione renziana, cosa rimane da fare? Le mura diroccate del Partito democratico possono sostenere un nuovo tetto? Difficile dirlo. Uno dei volti nuovi della recente stagione gentiloniana, il ministro Carlo Calenda, la mette così in un tweet. «Non bisogna fare un altro partito ma lavorare per risollevare quello che c’è. Domani mi vado ad iscrivere al pdnetwork». Sarà lui con il suo pragmatismo di governo – vedi caso Embraco – e la sua efficacia comunicativa il volto del Pd post-renziano? Chissà. Certo è che con Renzi dovrebbe lasciare anche una classe dirigente che ha incarnato una stagione politica ambiziosa e fallimentare in fin dei conti.
“Perché siamo antipatici?”
La sconfitta di Marco Minniti nel fu feudo rosso di Pesaro rappresenta in modo lampante come le ragioni di una debacle non risiedano tanto nelle politiche proposte o realizzate quanto piuttosto nella “reputazione” e nella capacità di incarnare una qualche sorta di rappresentanza. Minniti non è stato bocciato per quel che ha fatto al Governo ma per quel che rappresenta.
“Marco Minniti ha saputo cambiare la percezione del problema migratorio e anche la sostanza della soluzione del problema con un lavoro che gli viene riconosciuto anche dagli avversari”. Renzi nel day after rivendica la bontà di quella politica e di quelle scelte sull’immigrazione. Ma allora, perché Minniti ha perso se la sua azione è stata in sintonia proprio con gli elettori che gli hanno voltato le spalle?
Renzi nel suo discorso lo ribadisce più volte: il popolo che non ci ha capito, i nostri governi hanno fatto le scelte giuste ma il popolo non le ha comprese. Tutto questo quando il “popolo”, il popolo dei populismi, ha guardato con una maggioranza schiacciante dall’altra parte e la rappresentanza politica degli “incazzati”, della “gente” di cui bene ha scritto Leonardo Bianchi, supera in tromba il 50% nazionale.
Ecco, passa di qui, da questa contrapposizione tra noi e il “popolo”, la crisi del Pd. Da una parte c’è il “popolo ha sempre ragione” (perché sta con noi) e dall’altra c’è il “popolo che sbaglia” (perché non ci capisce).
Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori si intitolava un libro di Luca Ricolfi uscito quasi una quindicina di anni fa. Vero, parlava di un’altra sinistra e di un’altra epoca. Eppure il problema sembra ancora tutto lì sul tavolo e inevaso. E che le faccette, i tweet simpatici e che lo stile scanzonato non funzionassero lo si era visto da un pezzo.
Perché manca l’empatia
«Abbiamo dato la sensazione di essere un partito delle elite (te lo dice uno che se ne intende). È successo in tutto l’Occidente ai progressisti. Ma è anche effetto del nostro modo di comunicare ottimistico/semplicistico. Tornare a capire le paure non tentare di esorcizzarle». È ancora Calenda a offrire un’interpretazione con un tweet.
La “reputazione”, ossia quella aura che ti rende degno di ascolto, che in primo luogo fa sì che io ti ascolti e poi, magari, che ti dia anche ragione e condivida le idee che mi offri, per il “renzismo” è veramente pochissima cosa oggi. Questo è il vulnus. Quali ne siano le ragioni non è oggi il momento di analizzarlo anche se sarebbe buona cosa prima o poi capire come sia accaduto, al netto dei comportamenti del singolo.
Fatto sta che oggi Renzi e il suo Pd avrebbero potuto sventolare qualsiasi bandiera senza successo, qualsiasi parola d’ordine, qualsiasi slogan attraente sarebbe rimbalzato sul muro di gomma dell’indifferenza. Quel che è mancata è in primo luogo una capacità d’empatia con fette (sempre più ampie) di quello che un tempo si sarebbe detto il popolo di centrosinistra. La distanza siderale tra il discorso del segretario dimissionario e la percezione diffusa – al di là della tattica politica – ne sembra un’ulteriore conferma.