La prima condanna a giornalisti nella Turchia del dopo tentato golpe del 15 luglio 2016 è un ergastolo aggravato. A doverne farne i conti sono Nazlı Ilıcak ed i fratelli Ahmet e Mehmet Altan, che con i loro editoriali, programmi televisivi e commenti hanno accompagnato e contribuito a plasmare le trasformazioni del Paese da oltre trent’anni. Inclusi gli ultimi sedici anni del governo del Partito della giustizia e sviluppo (AKP) di cui, in periodi e forme diverse, sono stati sostenitori, diventandone poi estremamente critici.
I tre erano stati arrestati a fine settembre 2016 con l’accusa di aver preso parte nel colpo di Stato fallito, attraverso il “braccio mediatico di FETÖ (Fetullahçı Terör Örgütü)”, acronimo coniato dal governo turco per definire “l’organizzazione terroristica ispirata a Fethullah” (Gülen), imam e magnate residente negli Stati Uniti. Gülen, già stretto alleato di Ankara, è considerato dall’esecutivo e da buona parte dell’opinione pubblica turca la mente del golpe. Dopo le vicende di quella notte, diversi giornalisti – per lo più afferenti ai media legati al movimento – sono stati accusati e fermati con la stessa accusa. Alcuni sono fuggiti mentre altri, tra cui i fratelli Altan e la Ilıcak, sono stati arrestati.
La procura ha chiesto per ciascuno dei tre giornalisti un triplice ergastolo aggravato, presentando quali prove del reato i loro articoli, intercettazioni telefoniche, dichiarazioni di testimoni ed affermazioni fatte dai giornalisti nel corso di programmi televisivi. In particolare un talk show al quale Ahmet Altan aveva partecipato un giorno prima del 15 luglio come ospite del fratello e di Ilıcak, sulla rete televisiva Can Erzincan – poi chiusa per affiliazione gülenista – in cui criticava duramente il governo. Le frasi pronunciate nel talk show dagli Altan sono state considerate dei “messaggi subliminali” dalla procura, affermazioni che indicavano che i due fratelli “sapevano” che da lì a poco ci sarebbe stato un colpo di Stato e sufficienti a far scattare il loro arresto.
Prima che venisse concluso il procedimento, lo scorso 11 gennaio, la Corte Costituzionale turca, esaminando un’istanza presentata dagli avvocati di Mehmet Altan e Şahin Alpay – un altro giornalista in prigione da 18 mesi con la stessa accusa – ha stabilito che il periodo di custodia cautelare a cui erano stati sottoposti i due scrittori aveva violato i loro diritti costituzionali, dando il via libera alla loro scarcerazione, come era già accaduto nel febbraio 2016 nel processo all’ex direttore di Cumhuriyet Can Dündar e al giornalista della testata Erdem Gül.
Una decisione esemplare, che non solo avrebbe prevenuto l’imminente intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) sul caso, ma che, secondo alcuni giuristi, avrebbe anche rappresentato un precedente per gli altri giornalisti in prigione. Tuttavia i tribunali locali si sono rifiutati di eseguire l’indicazione della Corte suprema – mentre il portavoce del governo Bekir Bozdağ affermava che la Corte aveva “oltrepassato il limite” – contravvenendo per la prima volta alla gerarchia giuridica che vige nel Paese. Inoltre, nel corso delle udienze, i giudici hanno impedito più di una volta ai legali di difendere i propri assistiti, espellendo gli avvocati dall’aula e impedendo a Mehmet Altan di leggere la sentenza della Corte Costituzionale a proprio favore durante il processo.
Venerdì 17 febbraio, il ventiseiesimo tribunale penale di Istanbul ha ritenuto gli Altan, Ilıcak e altri 3 imputati colpevoli aver tentato di “cancellare l’ordine costituzionale della Turchia”, condannandoli alla pena più severa prevista dal codice penale turco, l’ergastolo aggravato. Una punizione che ha sostituito la pena di morte, abolita nel 2003 nell’ambito delle riforme effettuate dalla Turchia per avviare i negoziati di adesione con l’Unione europea, e il cui protocollo porta la firma del presidente Recep Tayyip Erdogan. La pena comporta un regime di isolamento di 23 ore per i prigionieri e limitazioni estreme anche per quanto riguarda il diritto di ricevere visite, di effettuare telefonate o di trascorrere tempo con altri carcerati.
La condanna ha suscitato numerose critiche, soprattutto all’estero, a partire dalla dichiarazione di David Kaye, Rapporteur speciale delle Nazioni Unite per il diritto alla libertà di opinione e di espressione. “La decisione della corte che condanna i giornalisti all’ergastolo aggravato a causa del loro lavoro, senza presentare una prova sostanziale del loro coinvolgimento nel tentato golpe o assicurare loro un processo equo, minaccia in maniera critica il giornalismo e con esso i resti della libertà di espressione e dei media in Turchia”, ha affermato Kay. Una considerazione simile è stata fatta da Harlem Désir, rappresentante OSCE per la libertà dei media, che ha sottolineato come la mancanza del rispetto della gerarchia giuridica “sollevi domande fondamentali sulla capacità del potere giudiziario di sostenere la libertà di espressione garantita dalla costituzione”.
Mentre resta aperta la possibilità dell’appello per i tre giornalisti, le vie legali risultano incerte come mai prima. Secondo il giurista Kerem Altıparmak il mancato eseguimento delle decisioni della Corte Costituzionale porterebbe il governo a perdere dinanzi alla CEDU tutti i ricorsi di critica importanza. “Diventerebbe impossibile sostenere che la Corte Costituzionale è una via giuridica efficiente e si andrebbe direttamente alla CEDU, bypassando la Corte Costituzionale”, afferma l’esperto.
Ergin Cinmen, tra gli avvocati del processo, ha commentato la sentenza dicendo che “la decisione della Corte Costituzionale non viene applicata solo in Azerbaijan e in Turchia”, aggiungendo che “questa decisione dimostra che la giustizia in Turchia, o quantomeno quella parte di essa che stiamo sperimentando è diventata una succursale del governo”.
Ma l’indipendenza della giustizia è stata messa a dura prova anche dalla scarcerazione improvvisa del corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt, Deniz Yücel, trattenuto in prigione per oltre un anno senza conoscere le accuse a proprio carico e rilasciato lo stesso giorno in cui i fratelli Altan e Nazlı Ilıcak sono stati condannati all’ergastolo. Due giorni prima del rilascio, il premier Binali Yıldırım, in visita in Germania, aveva sibillinamente affermato di avere “l’impressione che a breve ci saranno sviluppi” sul caso del giornalista turco-tedesco. Una liberazione, quella di Yücel, che ha lasciato l’amaro in bocca a molti. Lo stesso giorno la procura ha infatti consegnato il testo d’accusa a suo carico, imputandolo di propaganda terroristica e domandando una condanna da 4 a 18 anni di carcere, senza però vietargli di lasciare il Paese. Esito del traffico diplomatico tra Ankara e Berlino che secondo la stampa tedesca avrebbe avuto luogo segretamente anche durante la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a Roma con il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel, all’inizio di febbraio, e poi in Turchia. Ed è lo stesso Gabriel che a gennaio aveva prospettato la possibilità di riprendere la vendita di armi alla Turchia, se Yücel fosse stato scarcerato.
Credit: Ozan Kose / AFP