La geopoetica interculturale una nuova analisi del mondo moderno

Il saggio in lingua inglese Intercultural Geopoetics in Kenneth White’s Open World, pubblicato per la Cambridge Scholars Publishing (2017) da Mohammed Hashash, ricercatore marocchino e docente alla LUISS di Roma costituisce una preziosa ed innovativa lettura critica dell’opera e del pensiero di uno dei massimi intellettuali del nostro tempo, lo scozzese Kenneth White (1936).

White è poeta-pensatore d’espressione sia inglese che francese, celebre per aver introdotto sul finire degli anni ‘70 la nozione di ‘geopoetica’, che ha avuto un profondo riverbero ed un consistente impiego nell’ambito degli studi culturali e spaziali come approccio filosofico fondato sulla correlazione tra la creazione artistica, le teorie spaziali e la geografia culturale.

Inserendosi nel filone degli studi sullo spazio (Spatial Turn), emersi nelle scienze sociali europee nella seconda metà del Novecento, l’opera di White aspira a rileggere il rapporto tra pratica letteraria e spazio geografico, rimettendo la terra al centro dell’esperienza umana e creativa, e dunque suggerendo la radicale disseminazione dell’umano attraverso il più ampio ordine della natura e del cosmo.

Hashas ha il pregio di collocare la proposta poetico-filosofica di White in un orizzonte critico ben definito, quello in cui la geopoetica è frutto di una visione umanistica transdisciplinare, ed è pertanto osservata come pratica intellettuale al servizio di ogni civiltà umana. Leggere la geopoetica in chiave interculturale significa porre in risalto gli elementi di critica al pensiero della civiltà occidentale, alla sua egemonia e alla sua concezione di modernità, di cui si permea la riflessione filosofica di White, rendendo ancor più manifesto il suo appello ‘universale’ ad un dialogo autentico sul posto dell’uomo sulla terra a partire da una superficie comune che trascenda le barriere identitarie e geo-culturali, e riaffermi invece i valori della coesistenza e dello scambio di idee e visioni.

L’interesse di Mohammed Hashas per la geopoetica whitiana risale agli anni della sua formazione universitaria ad Oujda, in Marocco; ai primi input trasmessi dal suo docente, il professore Khalid Hajji, a sua volta studente di Kenneth White a La Sorbonne, che ha avuto il merito di introdurre la geopoetica nel mondo arabo.

Lo stesso Hajji, oggi Presidente del Brussels Forum of Wisdom and World Peace (BFWWP) presso la Commissione Europea di Bruxelles, nella prefazione al saggio spiega come il nomadismo intellettuale, uno dei concetti chiave della geopoetica, sia già di per sé una pratica volta al superamento delle barriere culturali, laddove il geo-poeta, vagando in territori inesplorati “in cerca di segni che alludono ad insospettati insiemi armonici” diviene “agente di scambio interculturale” (pp. XI-XII). Non meno rilevante è scoprire come la lettura critica suggerita da Hashas sia il risultato, da una parte, del suo sforzo ermeneutico, ovvero di un’attenta disamina dei testi e delle idee espresse dal poeta scozzese; dall’altro, della sua diretta esperienza dei principi e delle suggestioni della geopoetica, legata all’ambiente in cui cresce e si forma: il villaggio di Mestegmer in Marocco. Come spiega nell’introduzione, il suo “rapporto personale con la natura ha giocato un ruolo di primo piano” nel costruire la sua affinità con la geopoetica. Le tradizioni arabo-islamiche e quelle locali berbere attribuiscono grande valore alla terra, al contatto con essa, alla capacità di trarne beneficio per la sopravvivenza e per la vita comunitaria. “È la prima fonte di significato perché è il punto di contatto con il sé, la società e il cosmo” (pp. 1-2).

Inoltre motivi e fattori geopoetici già si possono ritrovare in alcuni modelli di riferimento della tradizione culturale araba. Basti pensare alla letteratura della Rihla, tra i cui massimi esponenti Hashas cita il marocchino Ibn Battuta (1304-1369); o all’apporto di alcuni eminenti falasifa, i dotti musulmani che nell’epoca dello splendore della civiltà islamica animarono i dibattiti sulla conciliabilità tra filosofia e religione, in primis l’andaluso Ibn Tufayl (1105-1185). A ciò si aggiunga il contributo di pensatori arabi contemporanei come Adonis o Mohammed Bennis, intellettuali nomadi e poeti dell’erranza che hanno investito la poesia di quella missione utopica di interpretare i segni della natura e del cosmo, attraverso l’apertura polisemica del linguaggio, per tracciare un nuovo orizzonte umanistico. Le tracce di questo patrimonio sedimentato nell’immaginario dell’autore, in cui la ricerca di senso dell’individuo passa attraverso il contatto con la natura e il cosmo, e il riconoscimento dei segni della terra, sono ben visibili e in parte aiutano ad orientare la lettura del ‘mondo aperto’ di White.

Hashas suddivide il suo lavoro in tre capitoli. Nel primo, Geopoetics: Transdisciplinary Beginnings, Open Perspectives, si introducono i concetti chiave del pensiero geopoetico e si presentano la cornice teoretica e il background generale all’interno dei quali White getta le basi del suo progetto. I tre presupposti centrali della geopoetica – Cultura, Luogo, Mondo – vengono esaminati all’interno delle sue opere seminali, tra cui spiccano La figure du dehors, Le Plateau de l’albatros: introduction à la géopoétique, The Wanderer and His Charts. Sono concetti che dimorano nell’intersezione tra poesia, filosofia e scienza, le tre discipline entro cui si muove la geopoetica, che è appunto non una scuola letteraria, ma un ‘movimento’ il cui principale interesse è la relazione dell’uomo con la terra ed il suo essere nel mondo (p.15). In Open World White ribadisce la sua visione di ‘poesia del mondo’ (World Poetry), come l’espressione che emerge dal contatto tra la mente umana e l’energia-materia del cosmo. Per White il pensiero, la riflessione filosofica, è centrale in poesia, quest’ultima vista come “la chiave dell’ordine e dell’armonia nel mondo” (p. 23). Hashas, nell’argomentare questo nodo critico, indaga il concetto di nomadismo intellettuale, introdotto da White in La figure du dehors, legandolo alla visione del “poet-thinker”, poeta pensatore o filosofo, ossia un viaggiatore con un bagaglio di parole ed energia vitale che erra nel mondo, mosso dal desiderio di esplorarlo per conoscerne le linee e gli angoli più reconditi. Da lì la stretta correlazione tra landscape, paesaggio naturale; mindscape, sentieri mentali; wordscape, sentieri linguistici che l’intellettuale nomade non deve mai perdere di vista per la costruzione di un nuovo mondo, un mondo aperto.

La seconda parte del saggio Territories and Trajectories: With the Companions of the Road ci immette nei territori esplorati da White in compagnia di illustri intellettuali nomadi che suggellano la filiazione filosofico-poetica del suo progetto. Partendo dall’analisi della ricezione whitiana di alcune figure preminenti di intellettuali, che attraverso lo spazio del loro pensiero hanno aperto ‘campi di energia’, Hashas crea una rete di interconnessioni imprescindibili per capire in profondità il concetto di geopoetica interculturale (p. 31).

Il viaggio parte dall’Europa, Francia e Germania in primis, dove è imponente il lascito di Rimbaud, Holderlin, Heidegger, Nietzsche e persino Van Gogh, come comprovano i numerosi riferimenti rintracciabili in alcune poesie. In America incontriamo Emerson, Whitman, Thoreau, Melville, Kerouac, ma non mancano gli Indiani d’America che hanno contributo con altrettanto peso alla fondazione del progetto della geopoetica, avendo fatto del contatto con la natura e la terra il centro della loro esistenza.

E quando si approda in Asia si scopre che l’Oriente è un territorio dello spirito fondamentale per l’Occidente, una civiltà che ha perduto il senso del sé sulla terra, l’autentico contatto con il cosmo. Le energie vitali e le feconde intuizioni trasmesse da pensatori quali il monaco buddhista indiano Nagarjuna, o il poeta haiku giapponese Matsuo Basho, sono fonti di ispirazione a cui attingere per una poetica cosmica ben strutturata e multidirezionale. L’attrazione esercitata dai modelli orientali sugli intellettuali occidentali cela sempre il rischio di reiterare una visione orientalistica, gravida di stereotipi o cliché sul mondo dell’‘altro’. Hashas prende opportunamente in esame questo dilemma, illustrando come White superi la dimensione dogmatico-ideologica dell’alterità insita nel discorso Oriente/Occidente a partire dal linguaggio, ossia affrancandosi dallo stesso termine ‘Oriente’, a cui preferisce ‘Asia’ nella sua più ampia accezione di spazio geografico (p. 63).

Il suo fecondo Oriente è quello spirituale-filosofico-culturale, quello del taoismo di Lao Tzu o di Chuang Tzu che predica l’unità del cosmo e illumina il posto dell’uomo al suo interno (pp. 70-71); quello della contemplazione della natura alla base della composizione degli haiku; o quello mistico dei poeti sufi, spesso evocati nei suoi testi.

Nell’ultimo capitolo Kenneth White: From Intellectual Nomadism to the Open World, si passa dal nomadismo al ‘mondo aperto’ a coronamento di questo lungo viaggio. Se in precedenza avevamo registrato le peregrinazioni di White in ciò che egli definisce gli ‘spazi bianchi’ del mondo visitato in cui seminare, disseminare, decostruire e ricostruire, nella parte finale del volume si entra nel vivo del pensiero e dell’opera poetica dello scrittore scozzese, esplorato in quanto ‘praticante’ della geopoetica. Qui Hashas ci illustra come White abbia trasposto il suo vissuto e le sue meditazioni nelle varie tipologie di opere che compongono la sua bibliografia. Integrando l’analisi dei suoi scritti con quella dei dati tratti dalle esperienze di vita e di viaggio che hanno alimentato il materiale geopoetico, Hashas restituisce una visione d’insieme del pensiero di White e della sua aspirazione prioritaria – realistica e non utopica – di avere accesso nel mondo bianco, che è per l’appunto un mondo nuovo, aperto (pp. 96-97). In Scotia deserta, Open World e Atlantica si osserva da vicino la confluenza dei segni del landscape, del mindscape e del worldscape, e si penetra il significato più profondo della whiteness del mondo, quel ‘bianco’ che attraversa l’intera opera di White, simbolo cardine della terra, della sua energia, del contatto spirituale ed erotico con essa e con i suoi elementi, di quell’esperienza estatica che porta a un senso di unità cosmica (p. 96).

Dalle ultime due raccolte menzionate Hashas trae alcuni poemi, presentati in appendice all’epilogo, da cui si possono desumere i motivi-chiave dell’intellettuale nomade e del suo viaggio trans-territoriale verso l’agognato mondo bianco (pp. 116-123).

Il volume si completa con una postfazione di Francesca M. Corrao, che riflette sul valore umanistico e interculturale del geo-poeta oggi in un mondo sempre più globalizzato e polarizzato. In appendice troviamo un ampio apparato bio-bibliografico dell’opera di White, seguito dall’indice dei nomi.

Risulta evidente da questa lettura come la lungimirante progettualità di White abbia in germe anche un obiettivo politico, ossia quello di contrapporre la ‘geopoetica’ alla ‘geopolitica’, di rispondere alla crisi della civiltà occidentale e alle istanze cieche della modernità con un nuovo modello civile, in cui la voce dell’intellettuale nomade è viva, sonora e riverbera nelle ferite del pianeta terra martoriato dalla ferocia del presente.

Emerge un appassionato ritratto di questo poeta-filosofo della terra che parla a tutte le civiltà e a tutti i popoli. Un poeta-filosofo che scava negli strati più profondi della superficie terrestre per raccogliere le energie vitali, intellettuali, fisiche, biologiche, poetiche necessarie a dar forma a una scrittura inedita. Una scrittura che non si esaurisce sulla carta, ma viaggia con lo stesso poeta nomade in territori inesplorati per riaffermare la presenza umana sulla terra.

Nonostante la sinteticità (130 pp. complessive), il saggio interdisciplinare di Hashas risulta denso e molto ben articolato nelle sue diverse traiettorie critiche. Rappresenta, pertanto, un prezioso contributo agli studi sullo spazio, intersecando in modo omogeneo e armonico le diverse prospettive letterarie, filosofiche e geoculturali che uno studio meticoloso della geopoetica richiede.

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