Il giovane Fevzi è lì bendato. Non vede i soldati israeliani, di pochi anni e molti muscoli in più di lui, che lo circondano in massa e lo trascinano a forza. Ma non vede neppure Recep Tayyip Erdoğan che lo indica al mondo, musulmano e non solo, mentre la sua diapositiva gli spunta a fianco, simbolo di un’Intifada che ancora non c’è – almeno non del tutto – e forse proprio per questo chiede di essere promossa e accompagnata. Trattenuto nelle prigioni di Israele, il 16enne Fevzi al-Junidi poco o nulla sapeva di questa inattesa, amara celebrità. Ma la sua faccia, spaurita eppure ancora combattiva, è diventata l’icona delle proteste per Gerusalemme. E il presidente turco l’ha capito, come al solito presto, comunque prima di tanti altri.
Il vertice dell’Organizzazione della cooperazione islamica (OIC), convocato in fretta e furia il 13 dicembre a Istanbul, in modo da affrontare l’emergenza e non perdere l’occasione, Erdoğan ha voluto aprirlo con il volto di Fevzi. Come didascalia, le sue parole – “Israele stato terrorista che uccide bambini” –, capaci di riportarlo indietro di dieci anni, a quel “voi sapete bene come uccidere” spiattellato in mondovisione a uno stupefatto Shimon Peres, che gli sedeva accanto nel compassato consesso degli economisti di Davos e certo non si aspettava un attacco così, né tantomeno lì, dall’allora leader di un “Islam moderato” con il bollino di garanzia dell’Europa. Era un giorno di gennaio del 2009, e lì nasceva il Recep Tayyip Erdogan idolo delle folle palestinesi e acclamato nei suoi tour in Medio Oriente dopo l’assalto della Freedom Flotilla alle coste di Gaza.
Dopo gli infiniti guai interni, e i pasticci della diplomazia degli ‘zero problemi con i vicini’ – rovesciatasi nel frattempo a un ‘solo problemi con i vicini’, o quasi –, quei giorni parevano finiti; e il sogno di governare le ‘Primavere Arabe’ trasformato in un’illusione.
La palingenesi del Sultano è certo ancora all’inizio. In incubatrice, si direbbe. Non si può sapere se ci riuscirà davvero, a rigenerarsi agli occhi dei “fratelli e sorelle” arabi, che sempre un po’ diffidano dei turchi con mire espansionistiche, se non altro perché già li hanno dominati per secoli con l’Impero ottomano. Ma intanto, in un mercoledì di metà dicembre fin troppo tiepido per Istanbul, tra le pareti di un lussuoso hotel a poche centinaia di metri dalla modesta casa dove ha visto i natali, Erdoğan è rinato. O almeno, è tornato alle origini.
La sua scommessa appare chiara, forse azzardata ma certo lucida. Nel vuoto di leadership del mondo islamico, concentrato soprattutto sulle lotte fratricide e preso in contropiede dal salto in avanti di Donald Trump – o, forse, lasciatosi prendere –, il turco punta a fare il leader. Essere punto di riferimento per le piazze, prima ancora che per i palazzi. Se riuscirà a percorrerla, dopo averla esplorata la scorsa estate con la crisi del Qatar, la terza via tra il trono sunnita e filo-Usa dei sauditi e l’Iran sciita – ora alle prese anche con le proteste interne – potrebbe condurlo lontano. Nelle piazze di Gaza e Ramallah, le condanne del principe ereditario Mohammed bin Salman e del suo vecchio padre regnante alla mossa di Trump sono apparse tardive e sbiadite. Perché in effetti lo sono state, e pour cause, probabilmente. Mentre al summit di Istanbul il presidente iraniano Hassan Rohani e il re di Giordania Abdallah II portavano il loro sostegno (almeno simbolico) ad Abu Mazen, Riad ha inviato ‘solo’ il ministro degli Affari islamici – un tecnico, praticamente. Un po’ come un ministro dei Trasporti a inaugurare un’opera strategica a fianco di capi di Stato e di governo. Certo, l’Arabia Saudita non è stata sola nel downgrade del vertice di Erdoğan. Ma è quella l’assenza che fa rumore, di questi tempi. E che i palestinesi hanno già tradotto così: Gerusalemme sacrificata sull’altare della guerra totale a Teheran. Rohani non si è tirato indietro, denunciando davanti agli altri leader musulmani che su Gerusalemme Trump ha “osato” solo perché qualcuno in Medio Oriente gliel’ha tacitamente permesso, qualcuno che con Israele vuole in realtà scendere a patti contro un nemico comune: il suo Iran. È qui, nel caos del nuovo Medio Oriente, che Erdoğan ha trovato il suo campo da gioco. E non vede l’ora di giocare.
Di certo, per lui è un regalo insperato e graditissimo. Il leader che solo pochi mesi fa era diventato impresentabile per l’Europa, e molto meno gradito pure a diverse cancellerie mediorientali, è riuscito a tornare al centro della scena da protagonista. Sopravvissuto al golpe, ha imparato a incassare le sconfitte quando ha capito di non poter vincere – la permanenza di Bashar al Assad in Siria su tutte, offerta in dono a Vladimir Putin – e ora è pronto a rituffarsi dove in fondo è sempre stato più a suo agio, nell’arena della politica – termine che per la verità aborrisce, tanto da averlo fatto togliere dalla denominazione ufficiale degli stadi di Turchia.
La pax con Netanyahu, suggellata solo lo scorso anno, sembra ormai preistoria. Le accuse di ingerenze a Israele sono tornate anche in questi giorni per le proteste in Iran. Se questa nuova giravolta funzionerà, resta tutto da vedere. Il tema rimane caldo, e a ogni piè sospinto lui prova a spingersi un po’ più in là. Dopo il riconoscimento dell’OIC di Gerusalemme Est capitale della Palestina, ora tocca all’ambasciata di Ankara, che per adesso – spiega Erdoğan – non si può ufficialmente portare da Tel Aviv a Gerusalemme perché la città è “sotto occupazione” israeliana. Mosse uguali e contrarie a quelle di Trump. L’ambasciata americana non si trasferirà prima di alcuni mesi, almeno. Per quella turca, invece, “il giorno è vicino, se Allah vorrà”.
Credit: Yasin Akgul / AFP