Ian Loring, inglese, è il pastore della chiesa evangelica di Korca, città del sud dell’Albania. Vi presta servizio da più di un quarto di secolo. Non aveva in programma di mettere radici qui, a dire il vero. Questa è una storia nata per caso. “Nel 1991 andai in Bulgaria, dove c’era stata una grande alluvione, per distribuire aiuti alla popolazione locale. Da lì mi spostai per un giorno a Salonicco, per questioni logistiche, ed ebbi modo di incontrare alcuni profughi albanesi. Erano emigrati in quello stesso anno, mentre il sistema comunista stava collassando”.
Quell’incontro diede modo a Loring di entrare in contatto con la situazione albanese, che suscitò in lui curiosità. Così si recò a Korca, che non è lontana dal confine con la Grecia e dove sorgeva, prima del periodo comunista, la più vecchia comunità protestante del Paese. Fu fondata a fine ‘800. “Mi ricordo di un pomeriggio grigio, scuro. C’era molta gente che camminava per le strade di Korca. Erano tutti o quasi vestiti di nero. Pensai che quello fosse un gregge senza pastore, e sentii Dio che mi esortava proprio a questo: essere il loro pastore. Non volevo lasciare l’Inghilterra, ma la chiamata del Signore fu chiara. E così tutto cominciò”.
Ian Loring, alla guida della chiesa evangelica di Korca, ha fatto un lavoro importante. Ha ricostruito la comunità e rilanciato l’azione della Fondazione Kennedy, un ente legato alla chiesa evangelica, anch’esso molto antico, che fornisce assistenza sociale e medica ai più bisognosi. Gestisce una casa di riposo per anziani, un’infermeria, un centro ricreativo per i ragazzi rom e una struttura per ragazze minorenni che provengono da contesti disagiati, o sono persino state violentate. E poi ci sono i pastori sociali, che girano per la città e visitano le famiglie in difficoltà.
Nel 1991 non c’era nulla di tutto questo: né la chiesa e i fedeli, né la Fondazione Kennedy. Il comunismo aveva sradicato tutto. Il regime si accanì contro ogni credo. Processò molti religiosi, condannandone alcuni persino a morte. Distrusse tantissimi edifici di culto. E nel 1967 giunse a mettere fuorilegge la religione, chiudendo chiese e moschee, seminari, scuole coraniche e ogni organizzazione sociale legata alle confessioni. Fu instaurato l’ateismo di Stato e inculcata l’idea che professare una fede fosse contro natura.
“Quando arrivai a Korca c’erano solo cinque fedeli ancora vivi, a fronte dei duecento che se ne contavano prima dell’avvento del comunismo. Alcuni erano morti di morte naturale, altri furono perseguitati. Partivamo veramente da zero, ma queste cinque persone erano motivate, e così riuscimmo a far rivivere la chiesa. Fu dura, sì, perché durante il comunismo la fede fu del tutto disconnessa dalla vita reale. Basti pensare che molti di quelli che oggi sono nella nostra chiesa si sono uniti a noi solo negli ultimi otto, nove anni. Si erano come abituati ai principi imposti dal comunismo”.
Quella di Ian Loring è solo una delle tante testimonianze di ricostruzione religiosa dell’Albania moderna. Anche Anastasios Yannoulatos, arcivescovo della chiesa ortodossa autocefala albanese, è dovuto partire da zero. Quando giunse a Tirana nel 1991, con il compito di ricostruire la chiesa, c’erano solo macerie. “Dobbiamo enfatizzare il tipo di persecuzione che ci fu in Albania. Fu ben diverso da quello che si registrò negli altri Paesi comunisti. Qui fu molto più accentuata e dal 1967 divenne assoluta, sancita costituzionalmente. A partire da quell’anno ogni forma di espressione religiosa fu vietata. E la cosa non durò per cinque o dieci anni. Durò per 24 anni”, spiega l’arcivescovo, ricordando che gli anni del bando alle religioni ebbero anche l’effetto di creare un buco generazionale nel clero. Nel 1991 mancavano i religiosi, e tanto la chiesa ortodossa quanto le altre confessioni dovettero chiamarli dall’estero.
Oggi l’Albania è di nuovo un Paese dove si può liberamente professare un credo, ma la religione, a differenza di altri Paesi ex comunisti, non è diventata un fattore chiave della vita civile e politica. O almeno non è tale da influenzarle così a fondo. Viene vissuta per lo più in maniera privata, discreta. Non si parla mai di maggioranza musulmana e minoranze cristiana. E spesso si cita l’idea di Vaso Pasha, poeta del “risveglio nazionale albanese”, nel secondo ‘800, secondo cui la vera religione degli albanesi è l’Albania stessa. In tanti sono dell’avviso che questa visione resti valida anche oggi.
“Il nostro modello è molto moderato e più spesso ci si definisce musulmano o cristiano sulla base di una tradizione di famiglia, più che di un reale istinto di fede. Quella albanese è una società credente, ma non oltre modo religiosa”, afferma Artur Nura, corrispondente di Radio Radicale da Tirana e noto conduttore televisivo, lasciando intendere che non ci sono fenomeni bigotti o situazioni in cui la religione detta l’agenda della politica o da essa viene piegata a certe esigenze di consenso.
A ogni modo, si è ancora all’interno di un percorso di transizione, sia in relazione alla vita delle chiese in quanto tali, sia per ciò che concerne il rapporto tra il cittadino e la fede. Su quest’ultimo aspetto sentiamo il pastore Altin Hysi, rappresentante della sezione albanese della Società biblica. “La libertà di religione è stata introdotta solamente nel 1991. All’inizio degli anni ’90 ci su una gran fame per tutto ciò che prima risultava proibito, e dunque anche per le religioni. Ora la situazione è cambiata. Il rapporto con Dio è più privato”, dice Hysi, che poi squaderna una riflessione interessante. “Sotto molti aspetti il credere, l’accettare una fede o il non accettarla, sono scelte di tipo nuovo. Ancora oggi noi albanesi stiamo cercando una nostra via alla fede. La strada è ancora lunga, ma ciò che vale la pena di dire è che ogni individuo è libero, e ha delle garanzie in questo senso. Non dobbiamo prenderla per una cosa che ci è stata donata. Viviamo finalmente in una società che ci permette di affrontare questa scelta e dobbiamo celebrare ciò come una cosa eccezionale”.
Che la via alla religione per gli albanesi e l’Albania sia ancora tutta da scrivere lo dimostra in un certo il progetto di lungo periodo che la Società biblica sta portando avanti: la traduzione della Bibbia in albanese. “Non significa che prima mancassero i testi. Però non c’era mai stata una traduzione fedele e integrale delle due lingue originali della Bibbia: l’ebraico per il Vecchio testamento e il greco per il Nuovo testamento. Abbiamo creato una squadra di traduttori, uno per ogni confessione cristiana (cattolica, ortodossa e protestante). Nel 2007 abbiamo completato la traduzione del Vecchio testamento, e speriamo che nel 2018 porteremo a termine quella del Nuovo”, afferma Hysi, spiegando che questo progetto, nel quale è immerso da anni (e una prova sono le centinaia di Bibbie presenti nel suo studio), è un’opportunità in tutti i sensi. Favorisce la collaborazione tra le chiese cristiane, aggiorna i testi sacri e aiuta i fedeli nel rapporto con le fonti della loro stessa fede. E anche questo è uno spaccato, piccolo ma indicativo, della transizione religiosa: una delle tante transizioni che questo Paese, condannato per lungo tempo all’isolamento da un regime repressivo e paranoico, è tenuto oggi ad affrontare.