L’antico contenzioso tra Barcellona e Madrid si è dunque trasformato in aperto conflitto cogliendo di sorpresa il mondo intero. Come e perché è accaduto tutto ciò? Decisivi sono stati, con ogni evidenza, gli errori compiuti dal ceto politico di entrambi i protagonisti dello scontro: il governo conservatore di Mariano Rajoy e quello catalano di Carles Puigdemont. Il punto che qui interessa, tuttavia, è che non si tratta di errori congiunturali, frutto della tensione emotiva che condiziona la vita pubblica in Catalogna dal momento in cui la Generalitat ha deciso il referendum sulla indipendenza sfidando apertamente il governo di destra e i partiti che lo sostengono dall’esterno (i socialisti del Psoe e i neo liberisti di Ciudadanos). Si tratta invece di errori indotti da antiche e radicate posizioni politiche, rimaste in ombra per decenni e ora, per diverse ragioni queste si legate alla vicenda contemporanea. Vediamo:
La Repubblica Catalana. No, non è la prima volta che viene dichiarata. Era già successo nel lontano 1641, in piena Guerra dei Cento Anni, quando le Cortes catalane rifiutarono le misure centralizzatrici decise dal Re Filippo IV, intese, come affermò il Conde Duque de Olivares, l’uomo forte di quel periodo, a “uniformare i diversi regni che compongono la Spagna sulla base dello stile e delle leggi del regno di Castiglia”. I catalani, in effetti, non intendevano sostenere a proprie spese l’esercito asburgico, accusato di violenze e sopraffazioni in modo particolare dalle masse contadine. La sollevazione ebbe inizio il 7 giugno 1640. Con la dichiarazione della Repubblica, pochi mesi dopo, i catalani “tradirono” la monarchia spagnola e chiesero, ottenendola, la protezione di Luigi XIII. Ma le truppe francesi si comportarono come quelle spagnole e la Repubblica Catalana tornò, dodici anni dopo, sotto il controllo di Filippo IV.
Lo scontro tra Barcellona e Madrid non si era esaurito. Le ragioni del contenzioso, che in verità risalivano al periodo dei Re Cattolici, ovvero all’unificazione per via matrimoniale tra il Regno di Aragona e quello più potente di Castiglia (un tema sul quale il dibattito tra storici è ancora aperto), non erano state risolte. Ed esplosero nuovamente nel 1700 con la Guerra di Successione tra il candidato asburgico e quello francese. Vinse il secondo e divenne così Re della Spagna un Borbone, Filippo V, fin dall’inizio intenzionato a “modernizzare” lo Stato spagnolo chiudendo il capitolo delle antiche espressioni di autogoverno locale che la dinastia asburgica aveva, pur con alti e bassi, rispettato.
I catalani si batterono contro il monarca borbonico. Lo scontro durò a lungo, fino all’11 settembre 1714 quando Barcellona, dopo più di un anno di durissimo assedio, si arrese alle truppe di Filippo IV. Quella data, la Diada, divenne il simbolo della aspirazione catalana alla indipendenza.
Dopo le confuse vicende dell’Ottocento spagnolo (guerre di successione carliste e loro intreccio con le diverse spinte autonomiste) la questione catalana ricompare con forza negli anni trenta del secolo scorso. E ricompare, anche se per pochi giorni, la Repubblica Catalana, dichiarata dal leader di Erc ( Sinistra repubblicana catalana) Francesc Macia il 14 aprile 1931, alla vigilia della vittoria elettorale repubblicana in Spagna che favorirà il rapidissimo rientro delle istituzioni catalane. Fino al 1934, quando il presidente della Generalitat, Lluis Companys, preoccupato dalla avanzata elettorale della destra, proclama la nascita dello Stato Catalano all’interno della Repubblica Spagnola. Il presidente repubblicano della Catalogna fuggirà alla fine della guerra in Francia, dove verrà arrestato dalla Gestapo e consegnato alle autorità franchiste per essere fucilato.
La dittatura di Franco. Arrivò, dopo tre anni di guerra civile, il regime franchista. Il dittatore considerò sempre la Catalogna come una parte del paese profondamente infida. Proibì con durezza ogni manifestazione di protesta, in modo particolare l’uso del catalano. Provocando in questo modo un radicato risentimento antifranchista anche di settori della dinamica borghesia catalana che pure avevano sostenuto, o almeno giustificato, il golpe militare antirepubblicano del 1936. Un passaggio storico cruciale per riflettere sulle peculiari caratteristiche ideologiche dell’attuale nazionalismo catalano che proprio per il suo radicato antifranchismo non può essere semplicemente tacciato di populismo di destra. Parlare catalano in famiglia o con gli amici protetti dalle mura di casa, si trasforma, negli anni plumbei della dittatura, in una chiara testimonianza antifranchista. E non di chiusura culturale, come appare oggi a molti. All’opposto si consolida una sorta d’identità catalana che mentre contesta la dittatura si fa al tempo stesso europea e cosmopolita. Chi da Madrid andava a Barcellona, in quel periodo, avvertiva un’atmosfera ben diversa da quella dominante a Madrid. “Qui a Barcellona si ha già la netta impressione di essere in Europa”, diceva chi veniva dalla capitale spagnola e attendeva con ansia la trasformazione in senso democratico del regime.
La transizione democratica. Ed ecco, finalmente, sono arrivate con la morte di Franco le libertà democratiche e lo Stato delle autonomie. In pratica uno Stato federale, è stato sottolineato da più parti. Che la destra ha subito in cambio di una sostanziale amnistia dei crimini commessi dal regime di Franco, protetta da un accordo generale tra le principali forze politiche – compresi i tanti franchisti che ora indossano abiti democratici. La Costituzione del 1978 riconosce l’esistenza delle quattro “nazionalità” (castigliana, catalana, basca e galiziana) storiche della Spagna. E mentre le cose non vanno bene nel paese basco, dove l’Eta continua a uccidere, in Catalogna – dove la sinistra è molto forte e i partiti moderati catalani sostengono a più riprese i governi a Madrid – si respira viceversa un clima pragmatico e ottimista.
L’esplosione della crisi. E allora perché, da un certo momento in poi, tanta polemica e infine l’attuale drammatica crisi? Il punto è che la storia spesso si ripete, ma spesso prende una piega imprevista. E’ quanto sta accadendo ora in Catalogna, la regione tradizionalmente più dinamica sul piano economico e imprenditoriale. Si tratta soltanto della richiesta di una maggiore o addirittura completa autonomia fiscale? Il nazionalismo catalano, moderato e pragmatico, perseguiva fino a pochi anni fa l’obiettivo classico di controllare più direttamente le proprie risorse. Era d’altra parte consapevole che la secessione avrebbe provocato, come gli eventi di queste settimane hanno ampiamente dimostrato, una crisi lacerante dell’economia catalana, da anni, pienamente integrata nel mercato spagnolo e quello europeo. E’ dunque evidente che l’origine della fuga in avanti della pulsione separatista vada individuata altrove.
In pochi anni i catalani favorevoli alla secessione sono passati da meno del 20% a circa il 50%. Un autentico tsunami. Perché? In parte lo smottamento eletttorale verso un nazionalismo catalano sempre più radicale si spiega con il rifiuto – voluto dalla destra e formalizzato dal Tribunale costituzionale (controllato dal Pp) – dello Statuto approvato con il referendum catalano del 2006.
Ma vi è un momento ancora più importante nell’evoluzione del fenomeno. E’ la grande manifestazione per la Diada del 2012. Centinaia di migliaia di giovani dietro le bandiere catalane. Una partecipazione che sorprende tutti, leader politici in primo luogo, per la sua imponenza e le sue caratteristiche. Non era mai accaduto in precedenza. Quell’immenso corteo era l’espressione tangibile di un malessere di massa che le forze politiche tradizionali, catalane e spagnole, avevano sottovalutato.
La svolta secessionista dell’11 settembre 2012, è stata il modo con cui una parte del ceto politico catalano ha cercato di cavalcare il diffuso risentimento sociale nei riguardi delle politiche economiche dominanti e della sfacciata corruzione che coinvolgeva alcuni partiti, in modo particolare CyU (Convergenza e Unione), rappresentante storico della borghesia catalana. In mancanza di alternative politiche convincenti, quei giovani, sempre più lontani dai partiti storici, avevano fatto propria la bandiera “ideale” della Repubblica e dell’Indipendenza. Era una protesta sociale inedita che, mentre si proponeva di superare i limiti della transizione democratica e della Costituzione del 1978 (quindi si poneva in alternativa alle scelte dei partiti tradizionali, popolari e socialisti), recuperava antiche esperienze repubblicane e libertarie, sperimentando le nuove forme di comunicazione di massa della rivoluzione digitale. Dietro lo slogan di Catalogna indipendente c’era la stessa spinta che, pochi anni prima, aveva prodotto la crescita del movimento degli indignados e la nascita a sinistra di nuove forze, tra le quali Podemos, che proprio in questi giorni si esprime sia contro l’indipendenza “illegale” della Catalogna , sia contro le misure repressive e punitive del governo Rajoy (l’ormai famoso 155 della Costituzione).
Il disagio esploso l’11 settembre 2012 rivelava identità collettive non consapevoli, ma in ogni caso profonde, che cercavano di superare il malessere comune identificandosi con un nuovo ideale. I sondaggi aiutano a capire: tra chi si sente catalano e basta, e chi si sente spagnolo e basta c’è una massa molto ampia che non si sente del tutto né l’uno nell’altro. O viceversa, si sente al tempo stesso catalano e spagnolo. Molti catalani, forse la maggioranza, sono culturalmente “meticci”: la loro identità, direbbe Zygmunt Bauman, è liquida, ovvero non più identificabile con una sola matrice culturale ma, al contrario, condizionata dal conflitto esistenziale tra culture diverse (quella catalana e quella castigliana in particolare) che prevalgono di volta in volta una sull’altra a seconda del contesto sociale e politico specifico. Non si può sottovalutare, a questo proposito, che una parte assai vasta della popolazione catalana è fatta di diverse generazioni d’immigrati dalle regioni meno sviluppate della Spagna. Rappresentanti, anche loro, della “identità liquida”. E soprattutto non si può sottovalutare che la divisione tra separatisti e unionisti attraversa quasi tutte le famiglie catalane: un conflitto emozionale prima ancora che politico. Che spiega, tra l’altro, il fatto che l’acuta tensione sociale non si sia trasformata in una sorta di guerra civile.
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Articolo molto bello! Complimenti, Marco! Milo