Quello che sta per intraprendere Jorge Mario Bergoglio è un viaggio che va ben al di là dei confini della Colombia. Non a caso il conflitto tra esercito colombiano e Farc si è sbloccato a Cuba e proprio al riguardo di Cuba il papa avrebbe detto al presidente Obama: “se lei vuole risolvere il problema tra il suo paese e l’America Latina, risolva il problema di Cuba”. Questo viaggio è proprio un viaggio nel cuore della sfida del terzo millennio, che ha nel conflitto colombiano il suo simbolo, forse poco conosciuto qui da noi, ma forse il più evidente, globale. Non serve sapere che le Farc abbiano dichiarato beni per 900 miliardi di pesos, cifra non enorme sebbene in Colombia molto significativa ma ritenuta parziale da alcuni e soprattutto che esclude “capitali all’estero”, che le Farc negano di avere, ma che è legittimo pensare che possano esistere visto che questo conflitto ha coinvolto i protagonisti della guerra fredda, ma anche se non soprattutto i protagonisti della nuova emergenza, i poteri criminali. Così si comincia a capire che il viaggio colombiano di Bergoglio è un viaggio per aiutare a fare il primo passo nel dissequestro della politica, quella con la P maiuscola, come lui ama dire. Il conflitto colombiano ha avuto infatti fasi molto diverse: quella del conflitto reale, quella del conflitto ideologico, quella dei sabotaggi, quella della compromissione e dell’intreccio con i narcotrafficanti.
Accostandoci da profani alla questione colombiana possiamo dunque notare come la questione ideologica sia sempre stata intrecciata con l’accusa di “terrorismo”, che ha coperto e negato i problemi reali, spalancato le porte al narcotraffico, sequestrato la Politica in tutto il paese. Trattativa o fermezza? Tutto si è ricomposto in questo drammatico bivio, da mezzo secolo e per mezzo secolo. La linea della sicurezza, dello stato di “seguridad” ha esasperato la violenza, avendone un disperato bisogno per affermarsi come scelta “popolare” e senza alternative. Così, come è nella loro natura, gli opposti estremismi hanno finito col legittimare sempre di più l’idea che solo la violenza potesse risolvere i problemi, rafforzando l’opzione violenta nel campo proprio e in quello altrui. Questo è accaduto in tanti altri Paesi, ma raramente come in Colombia “l’ideologia” ha finito col farsi veicolo dei poteri criminali, delle mafie.
La storia di questo conflitto può essere letta come spirale distruttrice che ha fatto del conflitto tra i blocchi la forza capace di rimuovere le sue ragioni originarie: rileggerla aiuterà a vedere come la politica è stata sequestrata in Colombia, i narcotrafficanti sono diventati sempre più potenti, il bipolarismo globale tra impero americano e impero sovietico ha reso sempre più difficile la ricerca di una terza via. E i colombiani sono spariti, e con essi la popolazione indigena, i neri, i contadini, i dimenticati delle grandi periferie… Niente più richiesta di diritti, di giustizia sociale, di sviluppo, niente più confronto sulle politiche economiche, sui piani di investimento, sugli orari di lavoro, sulle privatizzazioni, o sul ruolo del pubblico. Le vittime sono diventate infinite, vittime di una violenza sempre più feroce, che ha alimentato una sete di giustizia senza riconciliazione.
Davvero tutto è cominciato il 27 maggio 1964, quando un pugno di contadini armati e guidati da Manuel Marulanda Vélez difesero con qualche schioppo la piccola Marquetalia da 16mila soldati dell’esercito nazionale? Davvero sono nate allora le Farc? È molto più probabile che tutto sia cominciato quando Fidel Castro conquistò Cuba e alla Casa Bianca elaborarono il piano di contrasto al castrismo e al comunismo in tutta l’America Latina: Cile, Argentina e Nicaragua ne assaggeranno presto la crudeltà, ma è la Colombia il posto ideale per testarlo. Perché a Marquetalia dei contadini comunisti stavano perseguendo un progetto rivoluzionario, che poteva essere la testa di ponte del castrismo nell’America del Sud. Di quel progetto il governo colombiano, che era uscito dal golpismo degli anni Cinquanta con l’amnistia, si preoccupava poco, visto che era ben saldo nei grandi centri urbani. L’azione del 27 maggio ha prodotto dunque la grande trasformazione: il piccolo gruppo di autodifesa diveniva l’embrione delle Farc, e del progetto guevarista, capace di espandersi su ampie porzioni di territorio nazionale. Sono seguiti anni di scontro feroce, fino a quando il presidente Belisario Betancourt ha raggiunto un accordo di pace, stipulando il cessate il fuoco, forse simbolicamente firmato il 28 maggio, questa volta del 1984. Gli accordi dell’Uribe hanno prodotto due nuove forze politiche, l’Unione Patriottica e il Partito Comunista. Ma molti loro esponenti sono stati in breve tempo eliminati dalla ferocia da gruppi paramilitari che avversavano il cessate il fuoco e il processo di pace, con tanto di reinserimento nell’agone politico di esponenti delle Farc, e alle elezioni del 1986 i nemici dell’accordo hanno vinto.
Si è passati così a nuovi scenari, militari ovviamente, che nel 1990 hanno prodotto l’operazione Centauro, il cui culmine è stato l’assassinio del capo delle Farc. Ma con lui non è morto il negoziato: le Farc sono tornate a trattare nel 1997 con il “nuovo Betancourt”, quel neo-presidente Pastrana che ha vinto le elezioni nel nome del negoziato di pace. La base negoziale era la smilitarizzazione di cinque municipi e lo scioglimento dei gruppi paramilitari, le milizie che coinvolgevano molti esponenti del latifondo, del narcotraffico e ufficiali dell’esercito. I negozianti prendevano ufficialmente il via il 9 gennaio del 1999, ma i gruppi paramilitari riuscivano nel sabotaggio, uccidendo in poche ore in diversi centri del Paese oltre 200 civili, colpevoli di simpatizzare per le Farc. Come salvare il negoziato? Le Farc consegnavano a Pastrana i nomi dei politici, degli ufficiali, dei narcotrafficanti, degli imprenditori e dei latifondisti che a loro avviso sostenevano gli “squadroni della morte”. Ma il presidente veniva presto costretto a bloccare tutto: a far saltare di nuovo il tavolo è stato un altro crimine feroce e oscuro: uomini armati hanno fatto irruzione nell’abitazione di una grande proprietaria terriera, Elvira Cortès, pretendendo che gli consegni molto denaro, “una tassa per finanziare il movimento del popolo”. Davanti al suo rifiuto la imbottirono di tritolo, quindi la fecero esplodere. Azione di sabotaggio feroce: da parte di un’ala “intransigente” della guerriglia o dei sabotatori legati alle milizie paramilitari? Con lei comunque saltò per aria anche la pace. A rendere difficile la tenuta degli accordi c’era però anche altro, come l’idea sostenuta dagli Stati Uniti di distruggere le piantagioni di coca con il bombardamento di erbicidi, mentre la base d’intesa prevedeva, proprio come quella odierna, lo sradicamento manuale delle piantagioni illegali. Si è arrivati così al terzo millennio, quello che ha visto l’arrivo vero e proprio del terrorismo urbano delle Farc, esordito con il terribile attentato dinamitardo contro un esercizio di Carmen de Bolivar.
Bergoglio arriva con un manifesto programmatico, il suo viaggio infatti è all’insegna del motto “facciamo il primo passo”. Facciamolo noi, non demandiamo all’altro. E beatificando il vescovo degli indio, Jesús Emilio Jaramillo Monsalve, assassinato con quattro colpi in testa, una notte dell’ottobre 1989, quando venne sequestrato dai “comunisti combattenti” dell’ELN (delitto per il quale proprio in queste ore il leader dell’ELN in trattative di pace con il governo -Pablo Beltràn- ha chiesto tardivamente perdono), Bergoglio dimostrerà la forza di questa scelta. Che non sta nel cancellare la follia ideologica, ma nel riconoscere che tutte le ideologie hanno fallito, cedendo all’odio, alla violenza e ai sabotaggi della pace, come ai tempi dell’accordo tentato dal presidente Betancourt: sono stati sabotaggi comunque lucidi, perché solo eternizzando il conflitto ogni “establishment” poteva eternizzare sé stesso, obbligando il proprio campo internazionale a seguire. È così che è sparita la politica ed è nato un sistema bloccato, a beneficio miliardario dei nuovi poteri. È questa la sfida epocale, la sfida di questo millennio nel quale organizzazioni terroristiche vengono sempre più spesso a patti con mafie, costruendo cartelli che ci sfuggono, ci sovrastano.
Era molto diversa la Colombia quando vi giunse Paolo VI nel 1968, Bogotà sembrava ancora un’isola quasi felice, tra paesi latinoamericani già piegati a regimi totalitari: la violenza degli anni Cinquanta era alle spalle. Pochi dubitavano che si fosse imboccata la via che avrebbe portato, prima o poi, allo sviluppo, sospinta dal governo del presidente Carlos Lleras Restrepo, e dal suo programma di industrializzazione. La conferma migliore la dà proprio il discorso che Restrepo rivolse al papa, quando giunse in Colombia: «Un clima di pace politica regna fra quanti prima si combattevano aspramente, e nel suo contesto cerchiamo di formare le strutture di una società egualitaria, fiduciosi nel fatto che lo spirito evangelico, più efficace del timore e più costruttivo dei sentimenti di ribellione, agevoli quest’opera di giustizia; domini gli egoismi, plachi le ire; ci conduca, in fine, verso nuovi piani di moralità e di benessere.» I sentimenti di ribellioni… Le cose andarono diversamente.
Giovanni Paolo II, che visitò il paese nel cruciale 1986, colse un punto fondamentale: «Nella mia enciclica Dives in misericordia (n. 77) ho voluto porre in risalto il fatto che sul mondo gravita una inquietudine morale, che va aumentando in rapporto all’uomo e al destino dell’umanità […]. Questa inquietudine morale è alimentata dai fenomeni della violenza, della disoccupazione, dell’emarginazione e da altri fattori che provocano lo squilibrio, minacciando la pacifica convivenza umana. Nel guardare spassionatamente il panorama della vostra patria non avete anche voi una chiara impressione della presenza di questa inquietudine morale nella vostra società?»
È interessante che il primo viaggio in un solo paese dell’America del Sud del primo papa latino-americano avvenga proprio in Colombia. Come è interessante che il primo viaggio all’estero del papa che sta facendo studiare la scomunica di corrotti e mafiosi successivo a questo annuncio abbia luogo in Colombia. È interessante anche che nel fronte ostile al compromesso che la pace richiede emerga la figura, legata all’ex presidente Uribe, dell’avvocato anti-conciliare Josè Galat, nostalgico della messa in latino. Cosa c’entra la messa in latino? C’entra, perché rappresenta una Chiesa in cui l’officiante guida “il popolo di Dio”, non celebra con esso. Non lo vede, è solo lui che conosce la strada, è solo lui che sa, non ci sono “compromessi” da fare. È una Chiesa “spagnola”, che dall’altro non ha nulla da apprendere, perché sa già tutto. Una Chiesa che non ha paci di costruire, ma “giustizia da imporre”. È una Chiesa che non ha a cuore Cartagena de Indias, dove molti ricordano ancora i tempi della schiavitù accettata da quella “società cristiana” che si rifiutava di entrare nelle chiese dove il gesuita Claver, per la cui canonizzazione si è dovuto attendere l’800, riuniva i suoi “negri”, che battezzava nonostante gli si rimproverava che “a malapena avevano un’anima”.
Bergoglio sa benissimo quanto conti la Colombia per il sogno bolivariano, ma sa anche quanto pesi la Colombia nel sequestro della politica con la P maiuscola nel continente latino-americano e non solo. Così questo viaggio assume il carattere di un viaggio nelle pieghe e nella piaga del nostro tempo: la demonizzazione dell’altro, l’incapacità di affrontare i problemi nazionali e regionali, deriva in gran parte dalla crisi della politica, dal sequestro della politica che non può che favorire da una parte l’espansione di poteri occulti e criminali e corruzione e dall’altra l’illusione che esistano soluzioni radicali, totali, capaci di eliminare per sempre tutto il male. Questo viaggio avrà molto da dire al terzo millennio, molto più di quanto si creda.