Da Reset Dialogues on Civilizations
La presa del jihadismo nelle Filippine meridionali va oltre ogni aspettativa e tiene in scacco l’esercito filippino, con possibili ricadute devastanti su tutto il Sudest asiatico. Per tutta risposta, il governo di Rodrigo Duterte adotta il “pugno duro” e dispone il prolungamento della Legge marziale (in una prima fase proclamata per sessanta giorni) fino alla fine del 2017. Ci vorrà tempo – ha annunciato il “presidente-sceriffo” nel discorso rivolto alla nazione dopo il primo anno di presidenza – per debellare la piaga dei gruppi estremisti e violenti, presenti nei territori del Sud e ammaliati dalle sirene dello Stato Islamico.
Era il 23 maggio quando oltre 500 terroristi del gruppo “Maute”, fedele all’Isis, con un attacco a sorpresa hanno occupato la città di Marawi, capoluogo della provincia di Lanao del Sud, a Mindanao, grande isola delle Filippine meridionali abitata dalla consistente minoranza musulmana (oltre 5 milioni di cittadini sui 100 milioni di filippini).
Due mesi di assedio, segnati da intensi combattimenti “corpo a corpo” e da bombardamenti aerei a tappeto, non sono riusciti a stanare e sconfiggere i jihadisti: è la riprova di un’azione preparata dai militanti nei minimi dettagli, che ha messo impietosamente in luce le falle nel controllo dell’intellingence filippina su un territorio che pure da diversi anni è militarizzato come in tempo di guerra. I terroristi hanno mostrato abilità strategica, chiarezza di idee, addestramento alla guerriglia: hanno occupato la città di Marawi e si sono asserragliati in un quartiere dove in precedenza avevano scavato tunnel sotterranei ben riforniti di viveri e munizioni, pronti a sopportare una lunga resistenza. I cecchini si sono appostati in punti strategici, sulle sommità degli edifici, rendendo ardua, lenta e a caro prezzo (oltre 100 i soldati uccisi in due mesi) la controffensiva dell’esercito. Infine i jihadisti filippini hanno stipulato un’assicurazione sulla loro vita, prendendo in ostaggio circa 300 civili da usare come merce di scambio e come scudi umani. Tra loro 15 fedeli cattolici e il sacerdote Teresito Suganob, prelevati dalla cattedrale cattolica della città, prima di devastare e dare fuoco all’edificio sacro.
Jihadismo galvanizzato
Sta di fatto che, nonostante la sperequazione tra le forze in campo (settemila i militari impegnati) e perfino l’assistenza tecnica delle truppe americane, giunte in soccorso dell’esercito filippino (con tanto di droni e sofisticate tecnologie), le milizie jihadiste, sia pur notevolmente indebolite (oltre 430 i terroristi uccisi), resistono pervicacemente e non danno cenni di resa. L’inatteso successo di quanti sono già definiti sugli account dei social media legati all’Isis “gli eroi di Marawi” – puntuale controcanto rispetto alla solenne celebrazione funebre dei giovani militari caduti nei combattimenti, anch’essi “eroi” per le istituzioni statali – alimenta l’immaginario simbolico e la narrativa propagandista dello Stato Islamico nei territori del Sudest asiatico.
La riuscita occupazione – evento senza precedenti – di una città di 200mila abitanti (attualmente tutti sfollati in campi profughi nei dintorni), importante capoluogo di provincia, ha galvanizzato i gruppi jihadisti nelle Filippine e nelle nazioni limitrofe a maggioranza musulmana, come Indonesia e Malaysia. Secondo l’Institute for Policy Analysis of Conflict (IPAC), think-tank con sede a Giacarta, gli stati della regione dell’ASEAN (l’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico) potrebbero vedere moltiplicarsi nei prossimi mesi attentati dell’insorgenza estremista islamica che – pur storicamente radicata in paesi dell’Asia sudorientale e motivata da peculiari ragioni legate al contesto politico, sociale e religioso – ha trovato nello Stato Islamico un brand comune che ben funziona nel mercato della visibilità internazionale.
Il califfato a Mindanao
Scopo dichiarato è creare un “hub ufficiale dell’Isis nella regione”. Oggi l’attacco di Marawi costituisce una iniezione di entusiasmo: la tenacia dei combattenti filippini, giunta all’attenzione del comando centrale dello Stato Islamico a Raqqa, in Siria, rafforza l’obiettivo di istituire un mini-califfato nel Sudest asiatico, prospettiva oltremodo allettante per ridare smalto a un’organizzazione che in Medio Oriente sta inesorabilmente perdendo terreno. I foreign fighters mediorientali, individuati dall’esercito filippino a Marawi, non fanno altro che confermare l’avvenuta saldatura tra le formazioni del jihadismo indigeno (come il gruppo terrorista Abu Sayyaf, attivo da oltre trent’anni nei mari de Sud) e lo Stato Islamico che, come suggerisce il recente rapporto dell’IPAC, dispone nel Sudest asiatico di “piccole cellule abili al combattimento quanto capaci di indottrinare altri giovani”.
Punto di riferimento locale a Mindanao è oggi il comandante Isnilon Hapilon, leader del gruppo Abu Sayyaf, uomo che ha giurato fedeltà all’Isis già nel 2014 e che risulta tra gli organizzatori e gli esecutori dell’assalto di Marawi. Gli oltre 500 militanti che hanno messo a ferro e fuoco la città sono invece per la maggior parte membri del “Maute”, uno dei tanti gruppi armati capillarmente diffusi nelle Filippine del Sud, espressione di uno storico irredentismo islamico che si presenta diviso per linee etniche (la comunità musulmana conta 12 gruppi etnici principali). Maute è il cognome identificativo di uno dei clan familiari che si spartiscono da secoli il potere politico e il controllo del territorio a Mindanao anche con piccoli eserciti privati, spesso creati grazie al traffico illegale di armi. Proprio grazie a tali dinamiche Abu Sayyaf esiste e resiste da tre decenni; parimenti i Maute, dinastia dei maranao che supportava il disegno autonomista del Moro Islamic Liberation Front – storica formazione guerrigliera scesa a patti con Manila – si sono trasformati in gruppo sovversivo che, in primis per iniziativa dei due fratelli Omar e Abdullah, ha virato verso il progetto del Califfato e la lotta armata.
Un piano regionale
La crescente minaccia dei gruppi affiliati all’Isis nella regione richiede il superamento degli ostacoli politici (come, ad esempio, la storica diffidenza tra Filippine e Malaysia) e il lancio di un’azione coordinata tra i governi dell’Asean per combattere efficacemente l’estremismo e rendere l’humus sociale meno fertile al reclutamento jihadista. Nonostante i primi passi compiuti in tal senso, la strada resta ancora lunga: urge adottare misure concrete di carattere transnazionale, soprattutto a livello di intelligence e di prevenzione, ma anche operare sul piano culturale, sociale, politico ed economico per prosciugare il brodo di cultura – fatto di povertà, disagio sociale, conflittualità, emarginazione, carenza di servizi educativi, rivendicazioni politiche – su cui l’ideologia dell’estremismo islamico fiorisce. Un esempio su tutti: che fine ha fatto il processo di pace nelle Filippine del Sud e la “Legge fondamentale Bangasamoro”, progetto di legge-quadro che dovrebbe ridisegnare confini e competenze della speciale provincia autonoma di Mindanao musulmana, nata proprio per rispondere, in senso federalista, alle istanze di autogestione di una corposa parte della nazione? Il provvedimento, arenatosi in Parlamento alla fine del mandato dell’ex presidente Benigno Aquino, predecessore di Duterte, dovrebbe essere nuovamente calendarizzato e discusso nell’assise. Un anno fa Duterte se ne era detto sostenitore.
La risposta di Duterte
Per rispondere all’emergenza nazionale – il paese sotto attacco del terrorismo – il presidente Rodrigo Duterte ha dichiarato il 23 maggio la Legge marziale sull’intera isola di Mindanao. Il provvedimento, che ha validità costituzionale di due mesi, è stato di recente prolungato dal Parlamento fino al dicembre 2017. Nei giorni scorsi Duterte si è recato personalmente a Marawi per ridare morale ai soldati impiegati nella difficile campagna militare e subito dopo, nel secondo “Discorso sullo stato della nazione” pronunciato il 24 luglio – relazione programmatica all’inizio del suo secondo anno di presidenza – non ha mancato di rimarcare come la sfida della “sicurezza” resti centrale nel suo mandato politico. Gruppi jihadisti e terroristi proliferano a Mindanao, ha detto, soprattutto a causa della disastrosa situazione economica in cui versa la popolazione dell’isola. Per questo il focus del governo e il suo conseguente impegno finanziario, ha promesso il presidente, sarà rivolto a piani di sviluppo economico per alleviare la povertà nelle Filippine del Sud (la popolazione delle province a maggioranza musulmana naviga agli ultimi posti nella classifiche relative all’indice Onu di sviluppo umano, che include istruzione e servizi sociali). Duterte ha parlato di “economia inclusiva”, con l’intento precipuo di raggiungere la popolazione cristiana e musulmana, di migliorare la rete delle infrastrutture, di creare occupazione e benessere per tutti, di ricostruire Marawi.
Intanto nel territorio di Mindanao la popolazione lamenta disagi e abusi compiuti dai militari in forza delle leggi speciali. Anche i vescovi cattolici, condividendo gli appelli di numerose organizzazioni a tutela dei diritti umani, hanno dissentito sul prolungamento della legge marziale per l’intera Minadanao e, nella loro recente assemblea plenaria, hanno chiesto un urgente “ritorno della normalità e della pace” sulla travagliata isola.
Tuttavia un dato emerge da questa vicenda: il consenso di cui gode Duterte, pur messo alla prova, per ora resta solido. La fama di “giustiziere” e la figura di leader “tutto d’un pezzo” lo rendono, agli occhi dei concittadini, l’uomo giusto per contrastare la minaccia terrorista e il “comandante in capo” capace di sconfiggere i jihadisti. Secondo i sondaggi, ad esempio, i filippini sostanzialmente approvano la legge marziale. Paradossalmente, lo scacco subito a Marawi potrebbe perfino rafforzare l’indice di gradimento del presidente nell’opinione pubblica.
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