«Attualmente non stiamo vincendo in Afghanistan, ma rimedieremo il prima possibile». Così ha dichiarato il segretario alla Difesa Usa, James Mattis, in una recente audizione al Senato. È un giudizio insolitamente esplicito, che fa seguito a quello del generale John Nicholson, a capo delle truppe statunitensi e della Nato in Afghanistan, per il quale la più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti si è trasformata in uno «stallo». Per uscirne, il presidente Donald Trump ha delegato al Pentagono le decisioni sulla nuova strategia da adottare nel Paese centro-asiatico. Dovrebbe essere pronta per la metà di luglio, ma sui giornali si discute da settimane intorno al numero di soldati americani da inviare a sostegno degli attuali 8.500 già presenti. Il generale Nicholson a febbraio ha chiesto un «rinforzo» di qualche migliaio di uomini. Gli verranno accordati. Il segretario alla Difesa Mattis è d’accordo, ma invoca una strategia più ampia, regionale, che segnali una discontinuità rispetto al passato. E «con urgenza».
Da dove possa venire una simile discontinuità, non è chiaro. È chiaro invece il paradosso dell’amministrazione Usa: Trump vorrebbe lavarsi le mani del dossier-Afghanistan, ma non può farlo, né può replicare le politiche del predecessore, Barack Obama. C’è l’immagine da superpotenza da tutelare. Verrebbe meno, se si abbandonasse l’Afghanistan così com’è ora: con i Talebani più forti di prima, un governo di unità nazionale litigioso e privo di legittimità, l’economia che arranca, i morti civili che aumentano, la presenza – marginale ma significativa – dello Stato islamico nelle aree a ridosso con la frontiera pachistana, le potenze regionali pronte a colmare il vuoto del disimpegno americano, 2,5 milioni di rifugiati all’estero e 1,5 milioni di sfollati interni.
Eppure l’immagine da superpotenza è già compromessa. A causa dello scarto tra gli obiettivi iniziali e i risultati conseguiti. Ma anche dell’incertezza su quali fossero, e siano oggi, i veri obiettivi della guerra afghana. Uno dei più autorevoli studiosi del Paese, Antonio Giustozzi, insieme ad Ali Mohammad Ali ha esaminato l’impegno degli Usa in Afghanistan dal 2001, quando l’amministrazione Bush ha deciso di rovesciare l’Emirato islamico come reazione agli attentati dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono. Il risultato? Altalene e cambi di passo continui.
Ricapitoliamo: all’inizio l’intervento militare è servito a dare una sonora lezione ad al-Qaeda e ai Talebani, accusati di ospitare lo sceicco saudita Osama bin Laden. Poi è subentrata l’idea di fare dell’Afghanistan una sorta di Corea del Sud dell’Asia centrale, un Paese alleato e malleabile, che garantisse ospitalità ai militari americani per il controllo della regione. Poi si è ritenuto più utile puntare sullo State-building, per accorgersi che è un’operazione che ha costi diplomatici, finanziari e politici molto alti. In seguito, riconosciuta la resilienza delle forze anti-governative, si è arrivati alla conclusione che l’unico modo per uscire a testa alta dal pantano afghano fosse un processo negoziale. Non è mai veramente decollato, e forse è definitivamente tramontato nel maggio 2016, quando il leader dei Talebani, mullah Akhtar Mansour, nominato successore del defunto mullah Omar, è stato polverizzato da un drone americano mentre viaggiava nel Beluchistan pachistano, di ritorno dall’Iran. A dispetto della sua controversa nomina come leader degli studenti coranici, «nessun altro leader politico talebano era meglio posizionato per trascinare un’ampia fetta dei Talebani a sostenere i colloqui di pace», nota Antonio Giustozzi.
Congelato il piano negoziale, gli Stati Uniti si sono ritrovati a fare i conti con le contraddizioni del loro intervento. Con «la metà non scritta» della storia della presenza Usa in Afghanistan: «la storia di come le potenze regionali siano intervenute per limitare i danni ai loro interessi causati dalle azioni americane». È, in altri termini, la questione «regionale» a cui ha accennato il segretario alla Difesa Usa, Mattis. Sempre più ingarbugliata. Tra il 2009 e il 2013, Pakistan, Iran, Cina, Russia, Arabia saudita – potenze regionali che guardano con sospetto e ostilità alla presenza degli Stati Unti nell’area – trovano un obiettivo consensuale: impedire la cristallizzazione dello status quo. Sauditi e cinesi trasferiscono denaro e aiuti ad alcuni gruppi anti-governativi, tramite il Pakistan, mentre gli iraniani e i russi preferiscono stabilire contatti diretti. Nel 2015, conclusa la missione di combattimento Isaf, con il disimpegno progressivo delle truppe Nato e Usa, la preoccupazione per la presenza statunitense in Asia centrale declina. E si incrina il consenso regionale in chiave anti-americana. Oggi, all’amministrazione Trump e al segretario alla Difesa Mattis spetta il compito di muoversi in uno scacchiere simile, frammentato, in cui la stessa presenza Usa è un fattore di instabilità.
Il litigioso governo di unità nazionale di Kabul si aspetta che Trump archivi la tradizionale prudenza dell’amministrazione Obama e del suo segretario di Stato, John Kerry, per i quali bisognava muoversi con delicatezza, senza colpi di testa, in chiave domestica e regionale. Il presidente Ashraf Ghani auspica che Trump traduca il sospetto verso Islamabad in politiche concrete. Non gli dispiace neanche l’ostilità verso Tehran, con cui Kabul riesce a dialogare a fatica. Ma se Washington esercitasse pressioni contestuali su Tehran e Islamabad, a uscirne rafforzati e più uniti potrebbero essere proprio i Talebani. Inoltre, per convincere Islamabad ad archiviare la tradizionale politica di sostegno ai Talebani, Washington ha pochi strumenti a disposizione. Il “paese dei puri” non è più così dipendente dagli Stati Uniti, e se Washington alzasse troppo il tiro, per esempio mirando a significative sanzioni finanziarie, la mossa non verrebbe accettata dai Paesi del Golfo, oltre che da Cina, Russia, Iran. Le uniche alternative a disposizione sono la minaccia di rafforzare l’esercito afghano, che il Pakistan preferisce debole, e i legami con l’India, storico antagonista di Islamabad. Anche in questo caso, si tratta di mosse delicate: se gestite in modo troppo muscolare, à la Trump, rischiano di allontanare ulteriormente Islamabad da Washington, e di alzare lo scontro con Kabul.
Contraddizioni simili valgono nel rapporto con l’Iran, che dal 2007 al 2015 ha lavorato ai fianchi gli americani e la Nato in Afghanistan, tramite il sostegno ai gruppi anti-governativi. Preoccupata per la fragilità statuale afghana, Tehran ha poi fatto un passo indietro. Non vuole che il governo collassi, né che i Talebani tornino al potere. Ma se Trump decidesse di aumentare il numero di soldati in Afghanistan, nota Giustozzi, le Guardie della rivoluzione – da cui dipende il dossier Afghanistan – potrebbero cambiare idea. «Nel 2016 e all’inizio del 2017, le Guardie della rivoluzione hanno sollecitato i loro alleati e clienti tra i Talebani ad evitare di esercitare pressioni sulle forze governative afghane, concentrandosi invece sull’espansione della propria presenza in Afghanistan e nel combattere le forze dello Stato islamico».
Paradossalmente, proprio lo Stato islamico potrebbe offrire una legittimità ulteriore agli Stati Uniti. Se la minaccia della cosiddetta “Provincia del Khorasan” diventasse più significativa, Washington avrebbe una ragione in più con cui giustificare la presenza dei soldati a stelle e strisce in Afghanistan. Per ora, gli uomini del Califfo vantano un certo sostegno soltanto nell’area a ridosso della frontiera con il Pakistan, soprattutto nelle province del Nangarhar e del Kunar, ma al loro attivo hanno alcuni sanguinosi attentati nella capitale, Kabul, e soffiano pericolosamente sul fuoco delle divisioni confessionali. La Russia, in particolare, si dice preoccupata che i militanti di al-Baghdadi siano attivi nel proprio “cortile di casa”. La strategia del gruppo di istituire un califfato islamico, ha detto di recente il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu, «pone una minaccia non solo all’Afghanistan, ma anche ai paesi vicini». Per questo, la Russia ha annunciato di voler rinforzare con nuove armi due basi militari in Asia centrale, in Tajikistan e Kyrghizistan.
Anche se si dovesse trovare un comune denominatore intorno alla “minaccia” del Califfo in Asia centrale, resterebbe comunque irrisolta la questione-Afghanistan. La cui soluzione, oggi, sembra passare per la Cina. Cinesi e sauditi hanno già provato a far sedere tutti gli attori al tavolo negoziale. E la Cina, in particolare, ha in mano le carte migliori: «molto vicina alle autorità pachistane, ha buone e strette relazioni con l’Iran e la Russia così come con l’Afghanistan, e potrebbe essere un interlocutore accettabile anche per i sauditi», scrive Giustozzi. Difficile, però, che l’amministrazione Trump sia disposta a lavorare a stretto contatto con Pechino, e tanto meno a cedergli la guida del processo di pace e, dunque, la regia del futuro assetto del Paese.
In attesa di vedere quali siano le scelte dell’amministrazione Trump, i punti fermi rimangono due. Il primo è che, «in assenza di un’efficace strategia diplomatica, più truppe potrebbero rendere l’Afghanistan meno stabile, anziché più stabile», ha notato sul New Yorker Barnett Rubin, gran conoscitore dell’area. Il secondo è che «non importa quante truppe Mattis deciderà di inviare questa estate», perché di per sé «non rimedieranno alla profonda crisi politica a Kabul», ha scritto Ahmed Rashid. Si tratta di una crisi prevista, e prevedibile. Innescata proprio dagli Stati Uniti. Tre anni fa, per porre fine alla contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale, l’allora segretario di Stato Usa John Kerry ha imposto ai due contendenti, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, un accordo politico per un governo bicefalo, di unità nazionale. Che ha finito per istituzionalizzare l’antagonismo tra i due, paralizzando le attività governative. Chissà se ne terrà conto il segretario alla Difesa Usa, Mattis, nell’elaborare la nuova dottrina per la vecchia guerra afghana. La più lunga per gli Stati Uniti.