Pochi mesi prima dello scoppio delle proteste che avrebbero decretato l’improvvisa ed inaspettata caduta del suo regime, Hosni Mubarak riportava un successo elettorale senza precedenti. Il partito di regime conquistava infatti oltre il 97 percento dei seggi parlamentari nelle elezioni egiziane di fine 2010. Solamente due mesi più tardi, tuttavia, questo dominio assoluto sarebbe stato abbattuto da una straordinaria rivolta popolare. Basterebbe ricordare questo paradigmatico caso per giungere all’eloquente conclusione che nei contesti autoritari l’affermazione elettorale del partito – o dei partiti – di governo non permette di esprimere alcun giudizio sulla stabilità del regime. Per essere più precisi, qualsiasi valutazione deve necessariamente seguire criteri altri rispetto a quelli che vengono tradizionalmente utilizzati in contesti liberal-democratici. Evidentemente, con questo non vogliamo in alcun modo concludere che il successo dei partiti di governo nelle elezioni legislative recentemente svoltesi in Algeria sia l’ineluttabile preludio ad uno scoppio rivoluzionario nel paese. Proprio per evitare facile e scontate conclusioni su quanto le elezioni dello scorso 4 maggio ci dicano della temperatura politica in Algeria, occorre chiarire brevemente quale sia la natura delle elezioni in contesti non-democratici.
Negli ultimi decenni, molti regimi autoritari hanno assunto un carattere istituzionale decisamente più ibrido rispetto al passato. Spesso infatti, il partito unico è stato affiancato da una pluralità di forze politiche che competono in elezioni ricorrenti, ma certamente né libere né corrette. In tal modo, mentre la vittoria delle forze leali ai veri detentori del potere – sito nella presidenza o in nicchie militari-burocratiche ancora meno accessibili – non è mai messa in discussione, le forze di opposizione possono sperare di ottenere rappresentanza parlamentare, accedendo così a varie risorse di natura economica, mediatica, ed organizzativa. Tale parziale partecipazione alle ricompense messe in palio dal regime rende le forze di opposizione interessate alla protezione di quel sistema che le opprime. Per quanto possa suonare contradditorio, i regimi illiberali multipartitici tendono così ad essere meno esposti a rivolte dal basso quando concedono spazio alle opposizioni in Parlamento, ricorrono limitatamente a brogli elettorali, e danno vita ad ampie coalizioni di governo.
Questa premessa ci aiuta a comprendere come il dato meno interessante delle elezioni algerine sia la netta affermazione dei due partiti di maggioranza – lo storico Front de Libération National (FLN), nato dalla vittoriosa guerra di liberazione combattuta contro la Francia, ed il Rassemblement National Démocratique (RND), emerso invece nella seconda metà degli anni novanta nel contesto della guerra civile che ha insanguinato il paese per circa un decennio. Come ha laconicamente dichiarato il politologo algerino Rachid Tlemçani “non ci sono sorprese: i due partiti di governo hanno preso le prime due posizioni e gli islamisti sono saliti sul gradino più basso del podio”. Ad onor del vero, in un contesto caratterizzato dalla stabilità elettorale della maggioranza, alcuni assestamenti ci sono stati. Il FLN ha perso oltre 60 seggi, scendendo da 221 a 161, mentre il RND è balzato da 70 a 100. La somma ci dice quindi che la coalizione di governo ha lasciato sul terreno 30 seggi, assestandosi a quota 261 – comunque, ben oltre la soglia della maggioranza assoluta fissata a 232.
A guadagnare dal leggero arretramento del tandem di governo FLN-RND non sono stati però né le forze islamiste né l’opposizione di marca secolarista. Nel complesso, gli islamisti lasciano sul terreno 13 seggi rispetto a 5 anni fa. L’alleanza tra il Mouvement de la Societé pour la Paix (MPS) ed il Front du Changement (FC) conquista 34 seggi, mentre 15 vanno al terzetto Nahda-Adala-Bina (MAB) ed uno a El Islah che, invece, correva in solitudine. Sul versante opposto, anche le forze laiche segnano il passo, riportando un arretramento totale di 8 seggi. Il prezzo maggiore lo pagano le due più importanti forze di opposizione nel panorama algerino: il Front des Forces Socialistes (FFS) che passa da 26 a 14 seggi ed il Parti des Travailleurs (PT) guidato da Louisa Hanoune che invece vede scendere la propria pattuglia di parlamentari da 24 ad 11. Le loro perdite sono state parzialmente compensate dai 9 seggi conquistati dal Rassemblement pour la Culture et la Démocratie (RCD), che aveva boicottato le precedenti legislative, e dal sorprendente avanzamento del decisamente più ambiguo Mouvement Populaire Algérien (MPA) che allarga la propria base parlamentare da 6 a 14 seggi. Come evidenziato da un articolo uscito sul quotidiano algerino El Watan, la traduzione diretta di questi numeri è l’impossibilità per tali partiti di dar vita a gruppi parlamentari autonomi, con la conseguente perdita di incisività nei lavori parlamentari ed una minore esposizione mediatica. Anche la geografia elettorale delle forze di opposizione laiche conduce ad un quadro a tinte fosche. Il RCD è presente solamente ad Algeri e in Kabylia, la principale regione berbera del paese. Nelle stesse circoscrizioni il FFS concentra 11 dei suoi 14 seggi, mentre il PT deriva dalla capitale oltre il 50 percento della sua forza in termini di rappresentanti eletti.
Della congiunta debolezza di forze secolariste e dell’Islam politico hanno approfittato i partiti nazionalisti, che con l’affermazione di Tajamoua Amel el Djazair (TAJ) e del Front el Moustakbal (FM) – 20 e 14 seggi, rispettivamente – hanno segnato il prepotente arrivo di due nuove forze tra i banchi della Camera bassa algerina. A questo si deve inoltre aggiungere la crescita della Alliance Nationale Républicaine (ANR), passata da 3 ad 8 seggi. Nel complesso quindi, verrebbe da concludere che il dominio dei due partiti di governo in Parlamento è saldissimo, che le forze di opposizione – soprattutto quelle con una maggiore carica sociale – si sono indebolite, e che la frammentazione partitica regna incontrastata. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto sembra sufficiente ricordare come ben 35 liste ed oltre 40 forze partitiche abbiano ottenuto rappresentanza. Per di più, 28 candidati indipendenti sono riusciti ad aggiudicarsi un seggio.
Questa cornice apparentemente idilliaca per il regime, potrebbe però riservare non poche sorprese nel futuro prossimo, attestando così la debolezza piuttosto che la forza della coalizione dominante. Vi sono, infatti, almeno tre aspetti che occorre prendere in considerazione qui. Per prima cosa, la partecipazione elettorale. Secondo quanto comunicato dal Ministero dell’Interno algerino questa si sarebbe attestata poco sopra al 37 percento, in calo rispetto al quasi 43 percento di cinque anni fa. Tale dato, si aggiunga, non solamente è considerato poco credibile da tutte le forze di opposizione, ma è già stato messo in dubbio da numerosi osservatori stranieri. Inoltre, tra gli otto milioni e mezzo di algerini che si sono recati alle urne, oltre due milioni hanno deciso di annullare oppure riconsegnare in bianco la propria scheda elettorale. Si tratta di un fenomeno non completamente nuovo e che ha preso piede a partire dai primi anni duemila – nel 2002 tra schede nulle e bianche si sfiorò il mezzo milione. Quello che stupisce è però la portata di quanto accaduto nelle elezioni dello scorso 4 maggio, quando circa 1 votante su 4 ha reso non valido il proprio giudizio. Come dichiarato da Belkacem Boukherouf, professore all’università di Tizi Ouzou, “il voto bianco è l’espressione di un malessere politico”. Un malessere – e siamo così al terzo elemento – che il regime ha faticato non poco a contenere, dovendo perciò ricorre, secondo quanto dichiarato dalle opposizioni, a brogli su larghissima scala. Il PT, tramite la bocca della sua segretaria, ha parlato di “colpo di stato civile”, il RCD, con toni più pacati, ha evidenziato “frodi che hanno superato di gran lunga la classica manipolazione elettorale”, mentre il FFS ha puntato il dito contro il Ministero dell’Interno per non aver fornito i dati dettagliati con i voti ottenuti dalle varie liste regione per regione. Per quanto rimanga difficile capire la portata reale della manipolazione messa in campo dal regime, appare pacifico constatarne l’esistenza. Una situazione pienamente confermata anche dalle parole di Abderrezak Makri, segretario del MSP e voce moderata dell’Islam politico, che ha parlato di un “insolito gonfiamento” dei partiti di maggioranza.
Proprio la limitata legittimità del nuovo parlamento ha già portato a numerosi tentativi di allargare l’area di governo ben oltre la coppia FLN-RND. La prima cartina di tornasole al riguardo è stata l’elezione del presidente del Parlamento algerino. In una competizione dall’esito ovviamente scontato si sono presentati ben quattro candidati – due islamisti, un membro del RCD, ed il vincitore annunciato, Saïd Bouhadja, del FLN. Partendo da una dote di 261 voti – ed è questo il dato più rilevante – Bouhadja è riuscito ad allargare il proprio consenso fino a raggiungere quota 356, attraendo molti indipendenti, alcune liste minori, ma anche e soprattutto il supporto del ANR (8 voti), del MPA (14 voti), e del TAJ (20 voti). Proprio queste ultime due forze hanno comunicato a mezzo stampa la loro disponibilità a far parte del futuro governo, che potrebbe anche comprendere il FC ed il MSP – quest’ultima già in passato forza di governo, anche se al momento travagliata da forti dissidi interni tra un’ala governista ed un gruppo ‘oltranzista’. Nuovo governo che, come annunciato nella tarda serata del 24 maggio da un comunicato della presidenza della repubblica, non sarà più guidato dal primo ministro uscente, Abdelmalek Sellal (FLN). A sorpresa rispetto a quanto la carta stampata algerina aveva rilanciato per molti giorni, Sellal sarà sostituito da Abdelmadjid Tebboune, già ministro in vari dicasteri in ben nove precedenti occasioni.
Insomma, il regime algerino sembra tenere ben a mente le lezioni impartite dalle recenti sollevazioni nel mondo arabo: dominio parlamentare non fa sempre rima con stabilità di regime in contesti autoritari. Basterà però l’inclusione di numerosi partiti con una limitatissima base sociale per evitare l’esplosione di un paese che sembra sempre seduto su un vulcano pronto ad eruttare?