Da Reset-Dialogues on Civilizations
La ‘terza ondata di democratizzazione’
A metà anni settanta del secolo scorso la democrazia sembrava toccare il suo minimo storico. In America Latina due delle storie democratiche di maggior successo, l’Uruguay e il Cile, venivano violentemente interrotte da colpi di stato militari nel 1973, mentre solamente due anni più tardi Indira Gandhi proclamava lo stato di emergenza in India, sospendendo il regolare svolgimento delle elezioni politiche ed eliminando le più basilari libertà civili.
In altre parole, quando nel 1974 la ‘rivoluzione dei garofani’ in Portogallo prese corpo, non solo regnava una profonda incertezza sulla possibilità di uno sbocco democratico della stessa, ma nessun studioso avrebbe mai immaginato che quell’evento sarebbe diventato il punto di partenza della cosiddetta – seguendo la celeberrima dizione del noto politologo americano Samuel Huntington – ‘terza ondata di democratizzazione’. Nell’arco di soli tre decenni, 83 regimi autoritari sono stati sconfitti in diverse regioni del mondo, producendo una diffusione della democrazia senza precedenti. Nel 2002, ad esempio, seguendo quanto riportato da Freedom House, 86 paesi potevano essere classificati come ‘liberi’ ed altri 58 come ‘parzialmente liberi’. I regimi non-democratici, secondo i dati dello studioso Milan Svolik, mentre rappresentavano ben il 75 percento del totale nel 1972 erano scesi al 39 percento a metà anni duemila.
Una delle ragioni che spiega la diffusione della democrazia a partire dagli anni Settanta in poi è la crescente incapacità dei regimi autoritari di legittimarsi come modelli alternativi e possibilmente migliori. Tale incapacità ruota prevalentemente attorno al fallimento delle grandi ideologie del Novecento sulle quali molti regimi autoritari avevano costruito le proprie fortune. Così, mentre tra le due guerre mondiali altri modelli ideologici contendevano lo scettro alla democrazia, negli anni Settanta la situazione era già profondamente mutata: il fascismo era uscito sconfitto e delegittimato dal secondo conflitto mondiale; la Chiesa Cattolica in seguito al Consiglio Vaticano II (1961-1963) imbracciava posizioni decisamente più in sintonia con le regole democratiche; e le classi medie – che spesso avevano rappresentato il punto di riferimento dei regimi autoritari di destra nell’Europa Meridionale e in America Latina – divenivano meno inclini alla privazione dei diritti politici e civili. Infine, la tragica conclusione della ‘Primavera di Praga’ nel 1968 con l’invasione dei carri armati sovietici e gli eventi degli anni successivi facevano rallentare la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre, definitivamente azzerata dalla disgregazione del blocco dell’Est e dal crollo del muro di Berlino.
In conclusione, negli anni novanta, era evidente che lo ‘spirito dei tempi’ fosse decisamente a favore della democrazia, mentre i regimi autoritari avevano perso tutto il proprio appeal, essendo perciò costretti a legittimarsi come forme di governo di transizione e rivolte al raggiungimento di obiettivi di piccolo cabotaggio. La democrazia, in poche parole, era diventata attrattiva e sinonimo di progresso.
La crisi democratica
A circa dieci anni dalla fine della ‘terza ondata di democratizzazione’ cosa rimane di tutto questo? Stiamo vivendo un riflusso democratico e una nuova affermazione di modelli autoritari? Le risposte a questi interrogativi non sono semplici, data la presenza di un quadro complesso che non si presta ad una lettura univoca. L’ultimo report pubblicato da Freedom House nel 2016 non è, comunque, incoraggiante. Per quanto la percentuale di paesi ‘liberi’ sia sostanzialmente rimasta invariata negli ultimi 10 anni – passando dal 46 percento del totale nel 2005 al 44 nel 2015 – vi sono da segnalare numerosi trend preoccupanti, come ad esempio il fatto che per il decimo anno consecutivo la libertà nel mondo sia calata. Al riguardo, ancor più significativo è l’emergere del 2015 come l’anno peggiore del decennio, con 72 paesi che hanno mostrato un declino nelle libertà politiche o civili e solamente 43 che, al contrario, hanno fatto registrare progressi. Oltre ai numeri, vi sono però alcuni movimenti ben identificabili e che potrebbero essere sintetizzati in una certa ‘stanchezza’ da parte delle democrazie di lungo corso e in un ritrovato protagonismo di ‘nuovi’ e ‘vecchi’ autoritarismi.
A partire dalla crisi globale scoppiata nel 2008, l’appeal delle democrazie consolidate è declinato in modo sensibile. Parzialmente questo è stato un effetto della tempesta economica che ha investito con particolare virulenza gli Stati Uniti e l’Europa. Ancor di più però, la crescente percezione che le istituzioni di questi paesi non fossero in grado di trovare risposte efficaci alla crisi ha contributo a gettare un forte discredito sul funzionamento del sistema democratico tout court. Il malessere sociale che ha investito significative fasce di popolazione delle democrazie consolidate ha poi spesso trovato una risposta politica in movimenti e forze che mostrano un certo disinteresse – fino anche ad arrivare ad un’aperta ostilità – verso le procedure democratiche e quel set di valori – uguaglianza, rispetto, tolleranza – che costituiscono l’humus naturale dei regimi liberaldemocratici stessi. La democrazia sembra così aver perso la propria spinta propulsiva non solo nell’attrarre nel proprio campo regimi non-democratici, ma anche nell’essere percepita come il miglior e più efficiente sistema in quei paesi dove sembrava aver impiantato solide radici. Il caso ungherese è, al riguardo, emblematico. Dopo essere stato archiviato come uno dei casi più positivi di democratizzazione negli anni novanta, il paese ha recentemente subito un sensibile deterioramento delle libertà politiche e civili, scivolando all’interno delle cosiddette ‘democrazie illiberali’. Non meno timori ha poi destato l’affermazione di Donald Trump nelle presidenziali statunitense, così come la svolta isolazionista della Gran Bretagna che ha votato per abbandonare l’Unione Europea.
Alleanze tra regimi
Il secondo inquietante segnale è una ritrovata spregiudicatezza sullo scacchiere internazionale da parte dei regimi autoritari. Le cronache degli ultimi anni ci segnalano infatti come, soprattutto a livello regionale, nuovi e vecchi autoritarismi stiano cercando di affermare i propri interessi con grande determinazione e dinamismo. In specifici contesti, i regimi autoritari sono giunti alla creazione di veri e propri network di supporto e sostegno reciproco, mettendo in comune, ad esempio, le proprie esperienze di contenimento delle proteste. Il caso del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) è probabilmente il più noto. Guidato informalmente dall’Arabia Saudita, il CCG riunisce sei petromonarchie dell’area mediorientale, note per rating bassissimi in materia di diritti politici e civili. Altri autoritarismi hanno invece mostrato una ritrovata capacità di propensione offensiva in termini militari, come plasticamente dimostrato dall’intervento russo in Siria. Certamente, i regimi autoritari presenti sulla scena mondiale non sono uniti da una comune ideologia e spesso – basti pensare alle continue tensioni tra Riad e Teheran – non mancano accese rivalità. Al tempo stesso, il venir meno di un mondo rigidamente diviso in blocchi ideologici contrapposti ha reso il valzer delle alleanze decisamente meno organico e più imprevedibile. I venti di guerra che spiravano tra la Turchia di Erdoğan – ormai definitivamente sprofondata tra i paesi ‘non liberi’ – e la Russia di Putin ha rapidamente lasciato spazio a una ritrovata collaborazione, mentre il matrimonio tra i militari egiziani ed i principi sauditi, dopo una promettente luna di miele, sembra toccare proprio in questi mesi il suo minimo storico.
Come appare evidente da quanto scritto fino ad esso, la maggioranza dei regimi autoritari sono stati rentier – ovvero, dipendono largamente dall’estrazione e dalla vendita di materie prime (idrocarburi in primis). La più importante eccezione al riguardo è certamente quella cinese: unico esempio che combina una stabile forma di autoritarismo con un’economia produttiva e competitiva. Probabilmente, sarà proprio la futura dinamica seguita da Pechino che determinerà in buona parte la battaglia tra democrazia ed autoritarismo. Dovessero le striscianti ed evidenti contraddizioni dell’impetuoso sviluppo cinese tracimare in un vittorioso movimento democratico, il contraccolpo per gli altri regimi autoritari potrebbe essere significativo. Al contrario, se la continua ascesa ed affermazione della Cina a prima potenza economia mondiale non dovesse innescare un processo di democratizzazione, il suo assetto autoritario si candiderebbe a modello per tanti.
Insomma, sembra proprio che la partita resti ancora molto aperta, con la democrazia che, nonostante tutto, continua a beneficiare di una legittimità superiore. Al tempo stesso, il gap tra i modelli sembra essersi ridotto molto nell’ultimo decennio e la caduta di una democrazia consolidata segnerebbe probabilmente il più tremendo contraccolpo per la causa democratica stessa. Al riguardo, sembra proprio che i paesi della periferia europea – sia quella meridionale (Grecia e Portogallo) sia quella orientale (Ungheria e Polonia) – rappresentino il test più interessante ed importante nei prossimi anni.
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