Da Reset-Dialogues on Civilizations
Una location diversa, al Teatro Argentina per la serata inaugurale, al Teatro India per il resto, con la programmazione di oltre quarantacinque film. Una edizione che vede solo tre opere indiane ma, in compenso, mostra le altre cinematografie, qualitativamente altrettanto valide, del subcontinente. E, quest’anno, un focus particolare sulla Mongolia. Infine, la serata finale, il due ottobre, ispirata alla giornata mondiale della non violenza e dedicata a Gandhi, con un’ospite d’eccezione, Tara Gandhi, la nipote del Mahatma. Sono questi i tratti salienti della 17^ edizione di Asiatica Film Mediale, che si è tenuta a Roma dal 17 settembre al due ottobre, sempre curata dal regista Italo Spinelli, grande esperto di cinematografie asiatiche.
Nella rassegna che, come anticipato, quest’anno si rivolge come nazione privilegiata alla Mongolia, è quasi del tutto assente la cinematografia indiana, tranne che per il documentario Nabarun di Q (2015), per il film The Head Hunter, di Nilanjan Datta (2015), nonché per una breve clip di due minuti, Buddhas Within, di Satish Gupta (2012), che illustra la monumentale scultura di Buddha realizzata da Gupta stesso, artista e scultore. Nabarun parla dello scrittore bengalese Nabarun Bhattacharya, andando dal documentario alla fiction: dello stesso regista Asiatica Film Mediale ha presentato anni fa Gandu, un film che rappresenta la new wave del cinema bengalese, in particolare di Calcutta.
The Head Hunter racconta invece di un gruppo che deve intervenire in una foresta e che all’interno di questa scopre un uomo che ancora appartiene alla tribù dei tagliatori di teste e che tra l’altro ha un dialetto poco comprensibile ai bengalesi se non per via di un personaggio che è in grado di decifrarlo, e che parla anche quella lingua. In seguito tale aborigeno viene convinto a visitare la città, e si muove attraverso essa con difficoltà e con grandi scoperte per poi, al momento di ritornare nella sua foresta, scoprire che quella natura che ha lasciato si è trasformata. “Si tratta di un film originale, molto ben recitato, ha detto Italo Spinelli a ResetDoc, con una persona che appartiene veramente alla tribù dei Wancho, ed è un film che il pubblico ha apprezzato.” Ma l’Asia non è soltanto India, e copre tantissime realtà diverse. “Il continente asiatico, ha proseguito Spinelli, è molto vasto, quest’anno abbiamo avuto una tenuta di 16 giorni, con film dalla Turchia fino al Giappone, alla Mongolia, al Kazakistan, al Kyrgyzstan, alla Cina, e a tanti altri paesi, quindi non possiamo tutti gli anni privilegiare una cinematografia piuttosto che un’altra. Molto probabilmente l’anno prossimo saremo più presenti con la cinematografia indiana. Inoltre, la nostra rassegna non è particolarmente interessata al colosso Bollywood.”
Al contrario, in questa edizione del festival ci sono film e documentari provenienti da zone limitrofe, come il Bangladesh, il Pakistan e il Nepal. Tutto questo può sembrare strano, soprattutto se si pensa che l’India almeno a livello quantitativo è senz’altro superiore ad esse. “Una delle vocazioni di Asiatica Film Mediale, ha detto sempre Spinelli, è quella non solo di favorire la conoscenza di nuovi talenti, ma anche di presentare delle cinematografie che altrimenti rimarrebbero, almeno per quanto riguarda l’Italia, sostanzialmente invisibili. Inoltre, se a livello quantitativo e anche qualitativo l’India è molto valida, vi sono altre cinematografie del subcontinente indiano che qualitativamente lo sono lo stesso. Dal Pakistan per esempio abbiamo avuto sorprese con il film Manto, di Sarmad Sultan Khoosat (2015), che nulla ha da invidiare al cinema dell’alta produzione indiana di Mumbai.” Questo film racconta della vita di Saadat Hassan Manto, uno scrittore molto controverso, che ha parlato di prostituzione, di alcolismo e che, per anni rivendicato all’India, pur essendo nato in Pakistan, ora viene “restituito” a questa nazione con un film che nulla ha da invidiare alla cinematografia indiana dal punto di vista tecnico, della recitazione e della spettacolarità, con una forte impronta sociale e politica, nel senso che lo scrittore Manto ha subito degli arresti, delle denunce per ciò che scriveva, ed è stato addirittura sottoposto a un trattamento psichiatrico.
Queste cinematografie del subcontinente indiano al di fuori dell’India sono fortemente impegnate da un punto di vista sociale e politico: per esempio ci sono documentari relativi alla condizione femminile come il pakistano è A Girl in the River: the Price of Forgiveness, di Sharmeen Obaid (2015), un documentario che ha vinto l’Oscar nella sua categoria, che è un atto di denuncia rispetto alla pratica del delitto d’onore. Il tema della condizione femminile è molto trattato anche in Nepal. Interessante è poi il film del Bangladesh Under Construction di Rubaiyat Hossain (2015), che è la storia di una giovane borghese che sta recitando Tagore e che, attraverso la sua cameriera, una giovane che la segue dappertutto, essendo lei borghese e ricca, scopre la realtà di una condizione economica molto più difficile e problematica. Invece, il Nepal dei corti che abbiamo presentato è un Nepal post terremoto, fondato sulle sue conseguenze.
L’ultima giornata del festival è dedicata al Mahatma Gandhi, in occasione dell’anniversario della sua nascita. Tutto questo però non va in controtendenza con la scelta di sottorappresentare cinematograficamente l’India. “Quanto alla serata conclusiva della rassegna, ha concluso Spinelli, non mi sembra che ci sia nessuna contraddizione con il fatto che vi siano solo due film indiani. Infatti appunto in questa giornata la nipote del Mahatma, Tara Gandhi, ha tenuto un discorso relativamente al valore della non violenza, e tutto ciò in occasione della giornata mondiale della non violenza e nella ricorrenza della nascita di Gandhi.” Infine, anche un italiano ha omaggiato Gandhi: si tratta di Massimiliano Troiani, regista e fotografo che, con il suo documentario Le ceneri di Gandhi (2001), proiettato la serata finale, ha illustrato la vita del grande statista attraverso spezzoni e filmati inediti nonché con testimonianze come quelle di Gino Strada e di Mario Luzi.
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