Da Reset-Dialogues on Civilizations
(Yerevan) Quando il cielo è limpido Yerevan guarda il monte Ararat, cinquemila metri di altezza che salvarono Noè con la sua arca durante il diluvio universale, e che per gli armeni è ancora il luogo creato da Dio, il simbolo di un popolo forte, con una storia travagliata. A volte la cima, innevata anche d’estate, sembra appoggiata alle nuvole, quasi sospesa da terra. Non importa che quella montagna sia oggi parte della Turchia, e che in mezzo ci sia un confine chiuso, fatta eccezione per qualche volo da Istanbul di una sola compagnia turca.
«Il problema non è mai il popolo – spiega Vardan, medico che da vent’anni fa la spola fra la capitale armena e quella del Nagorno Karabakh, Stepanakert – qui la questione è tutta politica: c’è un negazionismo che non vuole guardare ai fatti storici, avvenuti un secolo fa, perché ammettere che ci sia stato un genocidio significherebbe anche dover cedere una parte del proprio territorio, fare un passo indietro, mostrare debolezza. Così l’Ararat resta il nostro faro, che guardiamo da lontano, e che non di rado diventa il nome di un nuovo nato, da queste parti».
Anna, studentessa universitaria, lavora al Matenadaran, il museo degli antichi manoscritti; parla quattro lingue (armeno, russo, inglese e italiano) e guida i visitatori fra i preziosi testi scritti e illustrati a mano, e qui restaurati e conservati.
«Una sezione dell’esposizione – racconta – la dedichiamo ai libri sacri recuperati all’epoca del genocidio, perché pure in un momento di fuga e di terrore, chi ha potuto ha cercato di salvare la storia. Anche se si trattava di un testo scritto in arabo, o in persiano, non importava. Oggi riceviamo molte visite da cittadini turchi, che si scusano col popolo armeno. È una cosa che apprezziamo molto, ma l’ufficialità del riconoscimento storico purtroppo è altra cosa».
Lo scorso anno, nel centenario del genocidio, sulle porte delle case, dei negozi, delle chiese, sono comparsi dei fiori lilla di carta, i non ti scordar di me, scelti come simbolo del ricordo. Molti a distanza di un anno non hanno ancora staccato quell’adesivo, come pure capita di vedere per le strade, in particolare nei pressi del Tzitzernakaberd Memorial, il memoriale del Genocidio, manifesti con due date, 1915 e 2015, e due disegni stilizzati, il fez, copricapo ottomano, e il baffo di Hitler, messi sullo stesso piano. Genocidio nel caso degli ebrei, genocidio nel caso degli armeni.
In meno di trentamila chilometri quadrati l’Armenia racchiude una storia millenaria di resistenza, spiritualità e identità. Gli armeni hanno dovuto combattere contro grandi imperi, perso gran parte dei territori originari, hanno rivendicato la propria cristianità, vissuto uno sterminio che ancora oggi è una ferita aperta, fatto parte dell’Unione Sovietica, e tutt’ora attraversano una profonda crisi economica ed una situazione di incertezza a causa del conflitto con l’Azerbaijan per il Nagorno Karabakh, che contribuisce ulteriormente all’ isolamento forzato di una nazione piccola, costretta a dipendere principalmente dalla Russia, e dalle rimesse della diaspora.
Secondo i dati della Banca Centrale d’Armenia, la disoccupazione all’inizio del 2016 è scesa al 18% dal 19,6% dell’ultimo trimestre del 2015, fra una popolazione che ha un’età media di 34 anni e un livello di istruzione piuttosto alto. La ripartizione della ricchezza è uno dei problemi più evidenti: il benessere è concentrato nelle mani di pochi oligarchi che da soli fanno quasi il 50% del Pil; poco meno della metà della popolazione invece, fuori dal centro della capitale, sopravvive con l’equivalente di meno di due dollari al giorno.
Un docente universitario guadagna non più di 250, al massimo 300 dollari al mese.
«Ho studiato all’estero e a breve tornerò in Italia per un incarico all’università – racconta Frunze, docente di linguistica comparata – a Yerevan si vive bene perché offre tanto ed è una città sicura, ma senza dubbio sono parecchie le cose che non ci si può permettere. La macchina, per esempio: è più facile muoversi a piedi, o in alternativa anche in Taxi (tariffa fissa 600 Dram, circa 1,10 euro per le corse urbane). Sicuramente più economico che mantenere un’auto».
Per arrotondare fa lezioni private e quando non insegna, nel periodo estivo, lavora anche come guida turistica, per poter praticare le lingue straniere.
«I turisti ci sono – dice – ma abbiamo ancora bisogno di valorizzare il nostro splendido patrimonio e renderlo sempre più fruibile».
«Tanti qui fanno due, anche tre lavori per mantenersi, soprattutto vivendo in città – dice Haik, impiegata nel reparto marketing di una compagnia telefonica – lavoro in questo palazzo con le vetrate, e il mio lavoro mi piace. Collaboro anche con un amico videomaker. Si vive bene qui – assicura – anche se gli stipendi non sono alti, non mi lamento. Ho studiato e viaggiato in Europa, negli ultimi anni tutto il sistema della comunicazione ha vissuto un boom incredibile, ed oggi ci sono un sacco di mezzi di informazione, sono nati nuovi canali, l’uso dei social network è cresciuto in maniera esponenziale. In città ci sono sempre più posti dove trovi una connessione libera. Non succede ovunque».
Basta uscire da Yerevan infatti. Nella periferia sono stati relegati i numerosi night club dai nomi esotici, con le insegne luminose a intermittenza, raffiguranti sagome di ballerine di lap Dance. Per il resto ci sono ancora i segni del periodo sovietico, nella semplicità e a volte decadenza di alcuni edifici residenziali, o negli scheletri arrugginiti delle fabbriche in disuso.
In questo Gyumri è la città capofila. Secondo comune del paese dopo Yerevan per estensione e numero di abitanti, era considerata la capitale industriale dell’Armenia, almeno fino al terremoto del 1988 che l’ha colpita molto seriamente, facendo 50 mila vittime, con case e fabbriche andate distrutte. Ancora oggi la città, nonostante gli sforzi fatti nella ricostruzione, fatica a risollevarsi.
«Sono arrivato qui dopo una missione in Russia dove ero entrato in contatto con una nutrita comunità armena – racconta Padre Rafael, prete polacco oggi parroco della Chiesa di tutti i Martiri, nel centro della città – non è un territorio facile, molti sono andati via a causa della disoccupazione, e sono rimasti soprattutto gli anziani. Si sopravvive: le grandi industrie non ci sono più, la chiesa cerca di dare assistenza come può, ma se non si rilancia l’economia questa comunità non potrà mai ripartire».
Qui ha scelto di vivere anche un italiano, Antonio Montalto, che oggi è console onorario d’Italia in Armenia. Arrivato per portare aiuti dopo il sisma, ha deciso di fare impresa qui, nel settore turistico e nell’artigianato.
«Un progetto in continua evoluzione, come tutti i progetti devono essere – ricorda – in un paese che offre e merita tanto, ma che come tutta l’ex Unione Sovietica, è stato di fatto privatizzato dagli interessi di pochi».
Nonostante gli investimenti di fondazioni private, come Idea Foundation, nello sviluppo di progetti internazionali, come la riqualificazione di siti Unesco, uno per tutti il complesso di Tatev, nel sud del paese, dove una funivia oggi porta dritto all’omonimo complesso monastico, l’Armenia sconta l’isolamento politico ed economico di un paese che si ritrova due confini su quattro chiusi (quelli con Turchia e Azerbaijan), un unico aeroporto internazionale, strade interne di montagna molto difficili da percorrere, soprattutto d’inverno, una carenza di materie prime che la condanna alla dipendenza energetica, principalmente dalla Russia; non senza qualche perplessità da parte di chi oggi legge in modo ambiguo il suo ruolo, nel conflitto fra armeni e azeri, per gli investimenti in armamenti che ricollegano Baku a Mosca.
Lo sbilanciamento dell’economia e della ripartizione delle risorse fra i pochi ricchi e i tantissimi poveri è in parte compensata dalle rimesse della diaspora. Basti pensare che gli abitanti della Repubblica d’Armenia sono circa 3 milioni, e almeno altri sette vivono nel resto del mondo: in Francia sono almeno 450 mila, negli Usa quasi un milione e mezzo, in Argentina circa 130 mila, in Libano 140 mila; fino all’inizio della guerra quasi 200 mila vivevano anche in Siria. La comunità più numerosa risiede in Russia, dove gli armeni sono due milioni e 200 mila.
Ogni armeno della diaspora mantiene un legame con il suo paese, e spesso manda aiuti alla famiglia, o alle comunità che hanno bisogno di sostegno. E’ il caso di Theresa, che vive in Svizzera, a Zurigo, da ormai vent’anni e che più volte all’anno torna in Armenia. Nel giugno scorso, ha organizzato il banco alimentare.
«Mi sono messa in contatto con l’organizzazione italiana e ho deciso di sperimentare questa raccolta di cibo anche qui. In una giornata abbiamo messo insieme 10 tonnellate di prodotti da distribuire alle famiglie bisognose. Non importa che siano nostri parenti o meno. Per noi il concetto di aiuto, e di festa, è la condivisione. Anche a Natale, preferiamo non farci regali tra noi che abbiamo tutto, ma pensare a chi non ha nemmeno il necessario».
Ora sta lavorando ad un altro progetto, la realizzazione di un pollaio per una famiglia con quattro bambini che vive nel nord est, nella provincia di Tavush. Non assistenzialismo, dunque, ma strumenti e possibilità di lavoro da mandare avanti nel tempo, in autonomia.
Se l’allevamento e l’agricoltura restano alla base dell’economia, soprattutto nei piccoli centri, in Armenia non mancano le eccellenze nel campo della ricerca e dell’istruzione. A Yerevan il Tumo Center sembra arrivare direttamente dalla Silicon Valley: postazioni computer all’avanguardia, una sala di incisione, un laboratorio di robotica, uno spazio di sviluppo per 3D, una sezione dedicata alla fotografia, al montaggio video e al web design. Il tutto rivolto agli adolescenti dai 12 ai 18 anni che possono usufruire degli spazi e dei workshop gratuitamente, versando solo una cauzione di 20 mila Dram, meno di 20 euro, che al termine del progetto viene restituita. Presto sarà aperto un nuovo polo anche a Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, realizzata in collaborazione con Agbu, Armenian General Benevolent Union, una delle più antiche organizzazioni della diaspora.
Foto di copertina: Credits David Mdzinarishvili, Reuters
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