Da Reset-Dialogues on Civilizations
Golpe militare in Turchia. Per anni è stato un binomio indissolubile, sembrava. Ancora nel 2007, quando si ritornava alle elezioni politiche, la stampa straniera, italiana inclusa, si era riversata per seguire il voto e paventava un colpo di Stato. Niente. Le continue vittorie elettorali dell’Akp, il partito di Erdogan, erano un segnale di stabilità e di un percorso democratico che pareva avesse annullato il pericolo di interventi militari che fino a pochi anni prima avevano caratterizzato la storia turca.
Tre golpe in tre decenni (1960, 1971, 1980) poi il cosiddetto colpo di Stato postmoderno nel 1997 che aveva messo fine al governo del partito per cui Erdogan era allora diventato sindaco a Istanbul. Successivamente, nei primi anni Duemila una minaccia costante, presunti piani sventati, noti in Turchia con i nomi delle organizzazioni che vi erano dietro – Ergenekon, Balyoz. Strutture interne ai corpi militari, che coinvolgevano anche i più alti ranghi accusate di voler delegittimare l’azione del governo Akp, generare il caos nel paese per quindi compiere un colpo di Stato. Contro di loro sono avviate operazioni di larga scala con arresti di generali e comandanti, ma anche di politici, docenti universitari e giornalisti, come Ahmet Sik, il cui libro su Fethullah Gülen (“L’esercito dell’imam, İmamın Ordusu) veniva messo al bando.
Queste operazioni promosse dal governo hanno effetti immediati oltre agli arresti: il clamore che le accompagna, derivato soprattutto dalla portata dello scandalo che investe l’esercito, contribuisce a quel ridimensionamento dell’autorità e dei poteri dei militari, sancito ulteriormente dalla riforma costituzionale approvata con il referendum del 2010. Si riduce sostanzialmente la capacità di influenza delle forze armate nella sfera politica, viene abolita l’immunità di cui godono i militari responsabili del golpe del 1980, si restringe più in generale l’autonomia giudiziaria delle forze armate, limitando il ricorso ai tribunali militari solo per i reati compiuti e imponendo il giudizio dei tribunali civili. la revisione costituzionale sembra risolvere il conflitto aperto con le autorità militari che aveva segnato da sempre la politica dell’Akp.
Con il gravoso passato politico di un regime democratico che era sembrato sussistere solo grazie alla perenne vigilanza e all’intervento dei militari, da sempre baluardo dei valori laici della nazione e dello stesso ordine democratico, il cambiamento viene salutato come un passo importante nella democratizzazione del paese, il segnale di una svolta determinante verso l’attuazione effettiva di uno Stato di diritto. Anche se deriva da operazioni e misure giudiziarie controverse, come si è poi rivelato dopo, quando in anni più recenti non solo centinaia di persone sospettate e accusate di aver pianificato il golpe sono state via via rilasciate ma poi, lo scorso aprile, l’Alta corte di appello ha messo anche in dubbio, per mancanza di prove, l’esistenza dell’organizzazione clandestina Ergenekon.
Balyoz, Ergenekon e l’operazione Struttura Parallela – con cui solo qualche settimana fa sono stati emessi degli arresti contro poliziotti accusati di far parte dell’organizzazione Fethullah Gülen, che secondo il governo è perniciosamente insidiata nelle istituzioni e complotta contro il governo – sono servite per denunciare l’esistenza permanente di strutture apparenti al cosiddetto Stato Profondo, una derivazione di quelle organizzazioni Stay behind promosse dalla Nato negli stati membri dagli anni della Guerra fredda. Allo stesso tempo hanno giustificato l’intensificazione di misure restrittive, della necessità di un pugno di ferro per garantire la stabilità politica – ed economica – che ha colpito anche la stampa e la società civile, quando accusata di affiliazione terroristica.
Intrighi, complotti imperversano nella storia politica dell’Akp. Ciononostante nessuno immaginava si potesse verificare un golpe. Le prime notizie che parlano di F16 che sorvolano i cieli, della chiusura dei ponti sul Bosforo lasciano sgomenti. Alcuni credono che siano esercitazioni militari contro il terrorismo internazionale. è tra l’altro quello che sostengono alcuni dei soldati che si consegnano alle forze di polizia quando il golpe è sventato. Il comunicato proclamato dal canale della televisione di Stato, la TRT, occupata dai militari nelle prime ore del tentativo di rovesciamento, motiva l’intervento militare per ristabilire l’ordine democratico. Vecchie parole in un contesto nuovo, di un paese che attraversa di sicuro una crisi politica, accusato di crescente autoritarismo, ma che ha un riconoscimento internazionale e sta rilanciando in questi ultimi mesi un nuovo assetto delle proprie relazioni diplomatiche.
Le notizie si susseguono, con carri armati che si riversano nelle strade, fuori all’aeroporto internazionale di Istanbul, lo stesso che a fine giugno è stato scenario di un tragico attentato. Il sindaco di Ankara, Melih Gökçek, per primo comincia a incitare la popolazione a scendere in piazza invece di chiudersi in casa. Il Primo ministro insiste nel dire che si tratta solo di ammutinamento. Il Presidente della Repubblica Erdogan compare sullo schermo di un telefonino per una prima dichiarazione via FaceTime alla Cnn turca e in qualità di capo supremo ordina di riversarsi nelle strade, accusa una minoranza che si è ammutinata, che ricorre a una struttura parallela e che pagherà a caro prezzo. Nel frattempo i media internazionali lo danno in volo per i cieli europei alla ricerca di un paese che lo accolga. La mattina dopo, all’alba, il suo aereo atterra a Istanbul, accolto da una folla esaltata. Poco prima che alcuni F16 colpiscano il parlamento di Ankara, nella notte, il golpe è già sventato. Cominciano gli arresti di alcuni capi militari e dei soldati. Girano scene in cui si vedono soldati senza uniforme ammanettati e inginocchiati. Altre immagini mostrano il linciaggio da parte di quei gruppi che su invito del presidente sono scesi per difendere la democrazia e il governo regolarmente eletto.
L’ex Presidente della Repubblica, Abdullah Gül, annuncia che l’indomani sarà un giorno nuovo per la democrazia. In linea con le sue parole il primo ministro Binali Yildirim nella prima conferenza stampa del mattino dopo la lunga notte del golpe non esita a definire il 15 luglio come ‘giorno di festa per la democrazia’. Vengono promesse misure durissime contro i golpisti mentre gli arresti continuano. Nel pomeriggio è indetta una riunione straordinaria del Parlamento, mentre si è già riunito il Consiglio superiore della magistratura. Dopo qualche ore estromette dall’incarico 2.745 giudici, ne espelle 5. Emessi anche mandati di arresto anche per 140 giudici delle Alte corti di appello e 48 membri Consiglio di Stato. Loro come gli ufficiali golpisti segnalati in un elenco che gira sui social network sono accusati di far parte dell’organizzazione di Fethullah Gülen (FETÖ), “un’organizzazione terroristica che cerca di spingere il paese in una guerra” nelle parole di Yildirim, e mandante ufficiale del golpe secondo tutti gli organi di stampa ufficiale.
Intanto il bilancio provvisorio è gravissimo: 161 vittime (‘martiri’ nelle parole del primo ministro), 1.440 feriti mentre sono 2.389 i militari arrestati, compresi alte cariche dell’esercito. In serata i morti risultano 265, di cui 124 sono definiti golpisti.
Tutti i partiti presenti in parlamento hanno subito preso le distanze, condannando il golpe e nel pomeriggio presenteranno una dichiarazione congiunta. È un segno di unità nazionale ma non rassicura considerati i livelli di polarizzazione e divisione sociale che si sono raggiunti in Turchia nell’ultimo anno, e in particolare modo dopo le ultime elezioni politiche. La frase ‘Siamo una sola bandiera, una sola nazione e un solo Stato’, come ha ribadito il capo del governo Yildirim, riecheggia il vocabolario ultra-nazionalista e di sicuro ha fatto tremare una larga fetta della popolazione. Riuniti in sessione straordinaria gli esponenti dei quattro partiti politici hanno ribadito l’importanza di essere uniti e, in particolare il leader del partito kemalista Chp e il portavoce del partito progressista Hdp, hanno ribadito la necessità di rispettare le regole democratiche, e di risolvere questioni aperte nel paese.
Così se intanto il controllo è ritornato nelle mani del governo, la situazione non sembra affatto rassicurante. Il ministro dell’Interno sostiene che bisogna stare per strada anche stanotte (16 luglio), perché come ribadisce il ministro della Difesa se il golpe è stato impedito, è presto per dire del tutto che non ci sono più rischi.
Ma è soprattutto l’angoscia per la piega estremamente repressiva che viene ora invocata a inquietare molti. Si ritorna a parlare di pena di morte, abolita nel 2004. Se queste rimangono per ora voci solitarie, le misure prese nelle prime ore delineano un quadro preoccupante: migliaia di arresti, non solo nell’esercito, ma anche nella polizia e persino il vicepresidente della Corte costituzionale, Alparslan Altan.
La stabilità ha un prezzo, e in Turchia si è visto in modo chiaro, anche solo nel corso di quest’anno, che a pagarlo è la società, le cui libertà si vedono costrette in uno spazio sempre più ridotto. Se la minaccia di complotti e tentativi di golpe sembravano essere già sufficienti a legittimare interventi repressivi nei confronti delle libertà fondamentali, all’indomani di un golpe effettivo e sventato ci si chiede quali altri costi dovrà pagare il paese in nome della democrazia e dell’unità nazionale. Tanto più che la riaffermazione della democrazia è stata accompagnata da tutta una retorica nazionalista che l’ha paragonata alla guerra di indipendenza, tra i miti fondativi della repubblica turca.
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