Da Reset-Dialogues on Civilizations
“La guerra era una cosa presente, l’inaudito era divenuto quotidiano, e come tutto ciò che è quotidiano ci apparteneva nella carne e elle ossa e non nel pensiero.”
(Il grande futuro, Giuseppe Catozzella)
Emergenza, dal latino emergere, composto di e (fuori) e mergere (affondare, tuffare). Ciò che esce all’improvviso dalla superficie calma delle acque, che diventa reale, concreto, urgente. Le dimensioni temporale e processuale vengono meno. Ciò che prima non poteva essere visto, pensato, esce ed ha un impatto devastante. I risvolti potenzialmente positivi del cambiamento, che all’origine del termine emergenza erano importanti tanto quanto quelli negativi? Niente, andati perduti.
Si perde da questa prospettiva il percorso, la storia di vita che porta qui le persone che incontriamo e che spesso ha impatti traumatici e devastanti. Manca poi il processo che da qui le riporta ad un progetto di vita altrimenti impossibile.
Prende vita qualcosa che irrompe, non esisteva prima, e corre il rischio di tornare nuovamente nel mondo dell’invisibile. L’emergenza e il lavoro nell’urgenza infatti, seppur fondamentali, spesso rappresentano una bolla in cui le persone, così come i numerosi servizi che se ne occupano, diventano visibili solo per un attimo, diventano realtà che sembrano non avere un futuro, non hanno ancora un piano per continuare a vivere, ma hanno sicuramente una storia.
Il Servizio di Etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano è un punto di riferimento nel territorio milanese e lombardo per la sua capacità di rispondere ai bisogni socio-sanitari di una popolazione straniera estremamente vulnerabile e senza un riferimento territoriale. Fino alla fine del percorso di regolarizzazione dei documenti, troppo spesso lungo e non facile, l’accesso ai servizi di salute mentale e di sostegno sociale è garantito infatti quasi esclusivamente dai servizi dedicati ai migranti. Nasce nel 2000 all’interno del D.S.M. dell’Ospedale Niguarda, grazie alla passione e alla volontà dello psichiatra Carlo Pagani, tuttora responsabile del servizio. La spinta iniziale all’apertura del servizio fu data dall’aumento dell’utenza straniera ed ha visto inizialmente la messa in opera di un progetto pilota rivolto a giovani immigrati con disagio psichico.
Il Servizio di Etnopsichiatria opera attraverso un’equipe multidisciplinare, composta da 2 Psichiatri, 2 assistenti sociali, 4 psicoterapeuti e 4 psicologi insieme a 9 tirocinanti che li affiancano nei percorsi con l’utenza. Nonostante il gran numero di persone coinvolte, il monte ore limitato garantito ai professionisti dai vari progetti con cui il servizio è finanziato e gli spazi dedicati risultano inadeguati rispetto alle richieste del territorio.
La metodologia di lavoro prevede l’utilizzo di un setting transculturale, grazie anche all’ausilio di mediatori culturali non sempre facili da reperire, e di un lavoro di rete sul territorio che mira a ricostruire un tessuto sociale e di sostegno andato perduto spesso con il percorso migratorio. Tale modalità di lavoro implica una presa in carico bio-psico-sociale del paziente, in sintonia con la matrice culturale di riferimento, tenendo in alta considerazione sia la provenienza geografica ma anche il processo migratorio, con particolare riferimento alle vittime di traumi estremi e torture. Sempre più spesso infatti il coinvolgimento del servizio, in collaborazione con la medicina legale, viene richiesto al fine di certificare l’impatto degli aspetti traumatici, sia fisici che psicologici, nelle manifestazioni di disagio di queste persone.
I progetti attivi attualmente riguardano: Il Progetto Migranti (capofila U.O.N.P.I.A. Fondazione Irccs Ca’ Granda – Ospedale Maggiore ), il Progetto Sprar Disagio Mentale (Sistema di protezione per Richiedenti Asilo), il Progetto Diogene (Cooperativa Novo Millennio) ed il Progetto Homeless (con il Comune di Milano).
La specifica attenzione, dal punto di vista diagnostico, volta a differenziare patologie legate a traumi estremi o continuativi da patologie psichiatriche differenti permette di considerare l’impatto e il ruolo dei contesti di provenienza sul benessere psicofisico di queste persone. Non solo professionalmente infatti, ma anche culturalmente e umanamente, la necessità di fare chiarezza, aiutando a diluire un’associazione ormai troppo consolidata tra disagio psichico e pericolosità sociale, si fa importante. Il monito rappresentato dal lavoro di Basaglia, Frantz Fanon e come loro di altri, dovrebbe metterci in guardia dal rischio di riproporre la medesima dinamica espulsiva, da ghetto, rischio che rimane alto se relegato al mondo dell’inconsapevole.
Rappresenta certamente un limite, del servizio e dei percorsi, la mancanza di luoghi istituzionali garantiti, a volte proprio di luoghi in cui operare, in cui attivare percorsi di cura idonei e non dipendenti da bandi e progetti precari. Una precarietà e dei non-luoghi che se da una parte ci avvicinano a ciò che i nostri utenti sperimentano, dall’altra rischiano di riproporre un contesto in cui ricominciare sembra impossibile. Rimane tuttavia un luogo di ponte tra situazioni di marginalità, esclusione sociale, ed il contesto più ampio. Una possibilità di ricostruire reti per chi ha perso oltre che i riferimenti familiari, anche l’accesso diretto ai valori culturali di riferimento, un luogo in cui esistere ed essere, nella quotidianità, e che a volte passa per richieste concrete con significati profondi.
Favorire la reale emergenza del problema, non reale solo nel periodo di maggiore drammaticità, permetterebbe finalmente la percezione di sicurezza e prevedibilità del contesto. La mancanza di ciò, oltre a rappresentare la motivazione che spinge spesso queste persone a lasciare i loro paesi rischiando la vita per lasciare luoghi dove la vita non è più possibile, rischia infatti di ricreare un ambiente pericoloso, o vissuto come tale e dunque nuovamente traumatico. Questo proprio per le sue incertezze, i cavilli legali, la lunghezza dei tempi di presa in carico e di riconoscimento dello status, per legge garantiti dal diritto internazionale a chi chiede asilo.
Anche l’essere percepiti come pericolosi, quando il vissuto è proprio quello di essere stati vittime di pericoli e di essere inermi davanti a ciò, rischia di enfatizzare vissuti traumatici, in contesti che non sono in grado di costituirsi come protettivi.
Sembra sempre più necessario unire a tutto ciò un ultimo, ma non meno importante, piano, più ampio, differente. La prospettiva di chi accoglie. Quali sono i bisogni profondi che spingono le persone, noi, a guardare dall’altra parte anziché farsi carico di orrori giustificati da ideologie o necessità? Forse solo accogliendo anche questi bisogni la necessità di incanalare frustrazioni, rabbia, paure verso scelte così nette verrebbe meno; allontanando così, come la storia ci insegna, le conseguenze devastanti di quelle che in passato ed oggi sembravano essere le uniche scelte possibili.
Le autrici dell’articolo Eleonora Bolla e Paola Cesari sono psicologhe del Servizio di Etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano
Vai a www.resetdoc.org
Chiarissimo il contenuto espresso con empatia rara.
Encomiabile servizio!
Vorrei guardare questo lavoro da un vertice diverso, sottolineando il rischio enorme delle persone che si dedicano al problema dei migranti. Trovo importante far emergere anche le difficoltà psicologiche degli operatori, lo stress quotidiano, e il rischio ,come detto, di essere invisibili e senza luogo come le persone accolte. Il non luogo ed il non tempo che accomuna tutti sono pericoli che devono essere affrontati per non perdere l’identità e lavorare sul Riconoscimento da entrambe le parti, operatori e persone accolte. Lavoro molto interessante , dove si percepisce il desiderio di aiuto in chiave psicologica, non è solo dare, ma anche “pensare”.