Da Reset-Dialogues on Civilizations
Una significativa novità negli studi sull’India contemporanea, che coniuga due distinte scuole di pensiero, una tedesca e una inglese. E Un validissimo aiuto anche per chi vuole approfondire il background storico, politico e sociale della filmografia bollywoodiana ma, soprattutto, del cinema indiano indipendente. E, ancora, una lezione per cui lemmi quali razza, casta, religione, hanno assunto, durante gli ultimi due secoli, significati differenti. Sono questi i punti salienti per un libro che ancora è un unicum nell’ambito delle scienze sociali e politiche, perché finora nessuno ha mai intrapreso un’impresa simile. Si tratta di Key Concepts in Modern Indian Studies, dizionario a più mani pubblicato nel 2015 ed edito da Gita Dharampal – Frick, Monika Kirloskar – Steinbach, Rachel Dwyer e Jahnavi Phalkey per la New York University Press.
Il libro è strutturato secondo quattro aree tematiche (storia sociale, filosofia, media studies, storia della scienza), con un ampio approccio multidisciplinare, con lemmi di lunghezza standard, tranne alcuni (come democrazia, ambiente, economia politica, nazionalismo e religione) che richiedono spiegazioni più dettagliate. Ciascuna voce ha una succinta bibliografia per chi volesse approfondire la materia.
Come già anticipato, si sono incontrate, per la redazione del volume che, a detta degli stessi autori, subirà molti aggiornamenti successivi data la complessità degli argomenti trattati, due scuole di pensiero. La sua ideazione è infatti cominciata indipendentemente a Londra e a Heidelberg, anche se con propositi molto simili. E se il progetto originale della SOAS, Università di Londra, era per saggi più lunghi (circa 3.000 parole) e online, molti autori non hanno aderito preferendo il cartaceo: un’iniziativa simile stava nascendo a Heidelberg e i due progetti si sono incontrati con successo, con apporti anche di altri esperti internazionali.
Solo la voce di Rachel Dwyer è destinata espressamente alla cinematografia (Bollywood), anche se moltissime altre ci aiutano a capire il suo funzionamento e i problemi politici, culturali ed economici ad essa sottesi. Così, si apprende poco di cui già la vulgata non abbia tramandato su Bollywood: che il termine è nato negli anni Settanta o Ottanta per diventare la denominazione standard a livello giornalistico, e che nei circoli accademici è di solito ristretto agli ultimi vent’anni, quando il cinema diventa parte di una più ampia industria dell’intrattenimento. In ogni caso, nonostante le varie interpretazioni, Bollywood denomina, secondo molti, il cinema popolare indiano. La Dwyer nomina poi il cinema parallelo, detto anche middle cinema o new cinema che ha come suo massimo esponente Shyam Benegal (nato nel 1932), e il multiplex e “hatke” (“differente, indipendente”) dei giorni nostri. Non manca, infine, la grande produzione realistica di un grande del cinema di tutti il tempi come Satyajit Ray (1921 – 1992). Infine, il lemma contiene una breve storia circa la diffusione del cinema indiano nel mondo, con il suo scarso appeal verso gli occidentali fino agli anni Novanta quando, oltre agli indiani della diaspora, sta registrando anche un successo di nicchia.
Sempre da altre voci del dizionario si apprendono informazioni sui fenomeni dell’intrattenimento di massa. Per fare un esempio, sotto la voce religione si afferma che questa entra come messaggio in molti media: immagini religiose, musica, film, canali televisivi, e nuove forme di devozione popolare attraverso nuovi media, come Internet.
Sempre sotto questo lemma si dice che essa concerne la storia della colonizzazione e della post – colonizzazione, ma che tocca anche temi relativi alla modernità e alla modernizzazione che tanta parte hanno nel cinema hindi popolare e nel cinema indipendente. Così, anche un blockbuster del 1977 come Amar Akbar Anthony (“Amar Akbar Anthony”) di Manmohan Desai, dove tre fratellini divisi alla nascita vengono allevati da un hindu, un islamico e un cristiano, può essere letto alla luce della religione come indicatore di identità sociale e di dilemma tra fedi ancora presente e ampiamente spiegato nella voce.
Ma forme moderne di politicizzazione della fede hanno portato anche a fenomeni come il comunalismo e il fondamentalismo, come è ben identificato in Dev (“Dev”), film del 2004 di Govind Nihalani che parla di violente ritorsioni contro una comunità islamica inerme.
Tuttavia altre voci concernono film e mass media: la metropoli nell’epoca nehruviana era strettamente legata al suo hinterland rurale, e i film hindi dell’epoca la ritraevano come un luogo di immigrazione e di opportunità per i poveri (si vedano la Trilogia di Apu di Satyajit Ray (1955 – 1959) e Deewar “Il muro”, film del 1975 di Yash Chopra). Al contrario, attualmente il cinema hindi ha analizzato la città come entità culturale autonoma: tre esempi per tutti, Delhi – 6 (“Delhi – 6”) di Rakeysh Omprakash Mehra (2009), Dev. D (“Dev. D”) di Anurag Kashyap (2009) e Dhobi Ghat (“Dhobi Ghat”) di Kiran Rao (2011).
Il nucleo familiare come unità multigenerazionale, dove risiedono più nuclei, è definita nella cultura popolare dell’India del Nord (cinema o serie televisive) con il termine Khandaan (di qui il lemma), e tanta parte ha nelle trame sia del cinema indipendente che di quello mainstream. Anche qui si mostra come il termine abbia innumerevoli definizioni a seconda di come lo si veda. In ogni caso, il nucleo familiare è considerato spesso come l’unità fondamentale della società, ed è stato studiato soprattutto da storici, sociologi e antropologi. Non bisogna poi dimenticare la differenza tra famiglia e nucleo familiare, in quanto la prima comprende solo i congiunti. Pur in questa difficoltà di definizioni la famiglia nel cinema hindi popolare rimane generalmente un caposaldo (matrimoni combinati, rispetto delle regole da parte dei giovani, sottomissione delle donne), anche se le cose stanno gradualmente cambiando.
Un prestito relativamente recente dal sanscrito, samachar, significa informazione a mezzo stampa. Il fatto che l’inglese fosse parlato da una minoranza ristretta faceva sì che le parole news e samachar si riferissero ciascuna a uno strato distinto della società indiana, una delle quali parlante lingue regionali e quindi con media ad hoc. Dall’Indipendenza, l’importanza dell’inglese nei media è aumentata, anche se solo pochi indiani la parlano. Attualmente, tra i dieci maggiori quotidiani, solo uno, il Times of India, è in inglese, e le parlate regionali si stanno affermando sempre più con i media elettronici. Tuttavia, l’inglese è ancora oggi un mezzo di comunicazione universale che le lingue regionali non possono avere.
Quelle citate sopra sono le voci che hanno più o meno attinenza diretta con i media, ma ve ne sono molte altre che forniscono un quadro socio – politico per comprendere eventi significativi per la cinematografia indiana. Oltre alle voci casta e intoccabili (Dalit), che tanta parte hanno in molte pellicole (basti pensare al recente Masaan (“Crematorio”), dell’esordiente Neeraj Ghaywan (2015), che parla, tra l’altro, dell’amore tra un giovane ingegnere di casta bassa e una ragazza di casta alta) ve ne sono altre, come La rivoluzione verde, i Non – Resident Indian e la liberalizzazione che toccano nervi scoperti della cinematografia degli ultimi decenni. La rivoluzione verde, la pianificazione familiare/controllo della popolazione, l’emergenza, sono tutti temi che colpirono l’India negli anni Settanta e che si riflettono profondamente nei blockbuster dell’epoca e anche nei documentari più recenti.
La rivoluzione verde, intesa come sfruttamento intensivo del terreno tramite pesticidi, irrigazione estensiva e infrastrutture complementari come elettricità portata nelle campagne per far crescere riso, mais e grano, iniziò negli anni Sessanta con conseguenze che si rivelarono drammatiche. Molti contadini, come testimoniano documentari di cineasti indipendenti, si indebitarono per comprare le sementi e poi il terreno divenne via via meno fertile, spingendo alla fame intere famiglie e ad un “suicidio sociale” i capifamiglia.
L’emergenza e la pianificazione familiare/controllo della popolazione sono temi che incidono profondamente anche nei blockbuster degli anni Settanta, come Deewar, dove si parla di Maa, una donna lasciata dal marito che, immigrata a Mumbai, tira su da sola due bambini, uno dei quali, poliziotto, ucciderà l’altro, diventato un fuorilegge. Sono anni duri: nel 1975 il presidente dell’India, Fakhruddin Ali Ahmed, dichiara lo stato di Emergenza dando poteri illimitati a Indira Gandhi, allora Primo Ministro. La donna lancia lo slogan “Indira is India” e Maa, la madre in Deewar, come famiglia rappresenta Indira come Stato. Non va infine dimenticato che Sanjay Gandhi, figlio di Indira, tra varie misure, lancia una campagna di sterilizzazione forzata per il controllo delle nascite con esiti disastrosi, portando alla morte di quasi duemila persone.
Anche la dote è un argomento controverso. Alcuni documentari denunciano il cosiddetto bride burning (“bruciamento della sposa”) o dowry murder (“omicidio per dote”), anche se milioni di matrimoni, come afferma Werner Menski, redattore del lemma, non finiscono in violenti disastri a causa di tale pratica. Comunque, come scrive sempre Menski, «mentre non c’è necessaria diretta correlazione tra dote e violenza di genere, timori a proposito del divorzio rimangono strettamente implicati in “omicidi” per dote”».
Infine i concetti di liberalizzazione e di classe media che tanta parte hanno avuto nella cinematografia indiana post – liberalizzazione. Dopo l’Indipendenza, l’India con Nehru e i suoi successori aveva optato per un’economia pianificata, che aveva portato a un’industria debole e supportata dallo Stato, mentre i poveri non avevano ricevuto i benefici sperati. Nel 1991 il governo indiano viene costretto a prendere un prestito dall’estero e di conseguenza ad aprire le frontiere ai mercati esteri, a investimenti stranieri, a importare beni di consumo, come pure a privatizzare imprese statali. Nasce la nuova classe media, anche se ancora minoritaria, mentre con l’ulteriore indebolimento del welfare state si allarga la forbice tra Stati, classi, caste, e generi. Ed è a questa classe media che si rivolgono i media, i film, ed è sempre lei che li domina, così come è anglofona, mentre sempre i media fomentano forme di integralismo religioso hindu. Proprio in questo periodo si sviluppa in televisione e nel cinema hindi una nuova ideologia veicolata sempre dai media, l’”essere indiano”, che è globalmente smaliziata e spesso culturalmente conservatrice. E, infine, la vulgata bollywoodiana con la liberalizzazione strizza l’occhio anche ai NRI (Non – Resident Indian) che, con le loro rimesse e il loro potere d’acquisto, costituiscono un mercato parallelo a quello domestico e attento a nuovi contenuti e a una migliore qualità cinematografica anche del prodotto indiano mainstream.
Nella foto di copertina: cineasti indiani girano un film in uno studio di Bollywood
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Titolo: Key concepts in modern Indian studies
Autore: Dharampal-Frick et alii
Editore: Oxford University Press/New York University Press
Pagine: 344
Prezzo: 53 €
Anno di pubblicazione: 2015