Da Reset-Dialogues on Civilizations
Shady Hamadi nasce a Milano nel 1988 da madre italiana e padre siriano. Figlio di un perseguitato politico poiché membro del Movimento Nazionalista Siriano, gli sarà proibito entrare in Siria fino al 1997. Nel 2009 riesce a raggiungere il paese di suo padre e di suo nonno riscoprendo le sue origini e la sua famiglia paterna. In seguito alla rivolta scoppiata nel marzo 2011 contro il regime di Bashar al-Assad, decide di schierarsi contro il regime e diventa un attivista per i diritti umani. Oggi è il punto di riferimento per la causa siriana in Italia. Ha pubblicato, con ADD Editore, La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana (2016) ed Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza (2016).
Oltre che dalle tue origini, da che cosa nasce la tua determinazione nell’abbracciare la causa siriana?
È innegabile che siano le mie origini a spiegare quell’impulso che mi spinge verso la Siria. Con origini non intendo solo l’identità nazionale ma anche l’insieme delle esperienze che un individuo vive, nel mio caso: l’esilio, l’ingiustizia e le occasioni negate che si sono accumulate nella mia storia personale che può rappresentare la storia di molti. La Siria, suo malgrado, ha cominciato a incarnare questioni morali e politiche che coinvolgono tutti noi. Che senso hanno oggi le parole democrazia, libertà e illuminismo – tanto rivendicate dalla nostra società europea all’indomani di Charlie Hebdo – di fronte alla tragedia dei migranti; ai bombardamenti aerei russi e il consequenziale immobilismo della società civile, anche italiana, incapace di provare reale empatia verso i giovani del mondo arabo?
Il dramma che sta vivendo ormai da anni il popolo siriano suscita nell’opinione pubblica un sentimento di preoccupante indifferenza. Quali sono, a tuo avviso, le motivazioni dietro questo sentimento?
L’indifferenza si crea quando c’è incomprensione: “non si capisce nulla della Siria, allora mi allontano e mi disinteresso” così nasce l’indifferenza. È fondamentale dire che un grande problema è causato dalla propaganda martellante del regime siriano e poi da una mancanza del giornalismo. Non si può pensare di raccontare il mondo arabo senza parlare l’arabo. Non si può raccontare la Siria senza conoscerne la storia. Dobbiamo sapere cosa è successo negli anni cinquanta in Siria e come ha influito nella società il colpo di stato del 1963 del partito Ba’th, altrimenti come facciamo ad analizzare il presente? In aggiunta, c’è da dire che esistono preconcetti diffusi sul Medio Oriente. Parlano di questione mediorientale, pensando che i problemi in Iraq siano uguali a quelli in Libano o a quelli in Egitto. Dobbiamo decostruire molte categorie che non ci aiutano a comprendere le società del mondo arabo. Prendiamo per esempio un fatto: non era una notizia che migliaia di giovani, nel 2011, scendessero in piazza pacificamente per chiedere un cambiamento radicale in Siria, una apertura verso una transizione democratica. Questi pacifisti siriani ricevevano come risposta la repressione, le pallottole. Qualcuno, anche fra gli esperti di Medio Oriente, diceva che “doveva per forza esserci qualcuno che pagava questi giovani per scendere a manifestare nelle strade”. Si era abituati all’immobilismo del mondo arabo e per questo non è stato compreso quello che accadeva. Oltre all’assenza di un movimento civile europeo che sostenesse la Siria, si è palesata la vergognosa assenza di una classe intellettuale europea, in particolare italiana, pronta a mettersi in dialogo con gli intellettuali siriani, aiutandoli e facendoli conoscere alla nostra opinione pubblica. Paradossalmente, c’è una élite culturale araba più attiva (disposta a farsi torturare e imprigionare in nome dei suoi ideali) di quella italiana che, invece, vive in una bellissima torre d’avorio.
La questione dei rifugiati e, più in generale, l’immigrazione è oggi un tema molto caldo in Italia. Cosa pensi non sia stato fatto e cosa invece si dovrebbe fare per gestire al meglio questo fenomeno?
Credo che ci sia una mancanza culturale, proprio a causa dell’assenza di una classe intellettuale italiana che aiuti a far capire che “l’altro” è come “noi”. Con questo intendo che gli immigrati vengono visti solo come dei disgraziati e non come portatori di una cultura e di una testimonianza viva, di carne, della guerra. Vengono usati come un capro espiatorio da alcuni partiti che ci dicono che tutti i mali che affliggono le nostre vite sono imputabili a loro. A questa retorica dell’odio non c’è una vera opposizione, altrimenti non si potrebbe spiegare l’ascesa in tutta Europa di partiti di estrema destra. Concretamente, non credo che si debba lavorare per i corridoi umanitari. Dobbiamo impegnarci a monte: risolviamo le cause che provocano il conflitto. Siamo stufi di sentir parlare di pace da chi vende armi ai regimi autoritari e a milizie fondamentaliste. Usciamo da questa politica ipocrita e costruiamo una via comune: quella del rispetto dell’altro e del dialogo. Dire “scappano dalla guerra” non significa nulla, la guerra non è una malattia: esistono colpevoli e innocenti, cause ed effetti. Lo stesso vale per la parola pace: non c’è pace senza giustizia, altrimenti chiamiamola tregua.
Nel saggio “L’identità”, lo scrittore libanese Amin Ma‘alouf, definisce l’identità come “la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra”. Che cos’è per te l’identità e quanto è importante per il popolo siriano?
L’identità è l’accumulazione delle esperienze e delle vite dei nostri avi. Sono d’accordo con Ma’alouf quando dice che l’identità è fluida e che siamo, in definitiva, tutti diversi. Per i siriani l’identità è una questione fondamentale. Ne ho parlato poco tempo fa con Khaled Khalifa, scrittore siriano, che mi ha detto “questo è il tema centrale di oggi”. Un siriano di Homs sarà capace di tornare a vivere con uno di wadi al-nasara o non lo reputerà più un siriano? Un aleppino come si relazionerà con un siriano curdo dell’Hasaka? Abbiamo bisogno di costruire una cittadinanza comune capace di prevalere rispetto all’appartenenza settaria o territoriale. Altrimenti non ci sarà una Siria di tutti ma una per pochi. Siamo di fronte a una sfida che è quella del vivere insieme ma per tornare a convivere dobbiamo esercitare, noi siriani, una critica radicale verso il passato e su noi stessi.
Nel tuo ultimo libro “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza” scrivi: “Dentro ognuno di noi, noi siriani, c’è una dittatura da abbattere”. Quale è stato il peso di quarant’anni di dittatura in Siria?
Con quella frase intendo che c’è una difficoltà di collaborazione fra i siriani stessi. Dai campi profughi alle sedi della diplomazia internazionale ci sono molti, troppi siriani che vivono e lavorano seguendo un’ottica individualista e cinica. Questo è comprensibile ma non è più accettabile. Quarant’anni di dittatura hanno creato una sfiducia profonda nello Stato. Lo Stato, la patria, era di qualcuno e cioè del clan al potere. Non c’è una vera legge che sanzioni o protegga il cittadino. Così, non essendo esistito per mezzo secolo uno Stato e una legge per i quali tutti sono uguali si è tornati a fidarsi solo della propria famiglia non potendo contare su nessuno. Alla lunga, ciò ha prodotto una società molto individualista dove il forte vince. È chiaro che quello che ho appena detto non va generalizzato ma spiega un fenomeno che esiste. Quando dico che dobbiamo abbattere la dittatura che c’è in noi voglio dire che dobbiamo affrontare una rivoluzione culturale: smettere di pensare al proprio clan familiare, al proprio prestigio individuale e pensare alla comunità. Quando vedo siriani all’estero, anche in Italia, che sono più preoccupati di ricoprire cariche politiche o di fotografarsi per mettere le foto su Facebook capisco che abbiamo un lavoro enorme da fare. È proprio dei siriani all’estero che mi stupisco di più. Molti di loro abitano da decenni fuori dal paese e dovrebbero essere disposti alla collaborazione, al bene della comunità, in quanto hanno vissuto in società libere dalle quale trarre esempio. Invece sono impegnati ognuno a suo modo, a coltivare il culto della propria persona, siano essi dalla parte del regime o dell’opposizione. In Siria, dobbiamo costruire una cultura del dialogo e del rispetto delle idee, per farlo avremo bisogno del sostegno della società civile europea.
Con l’avvento dell’ISIS si sono accesi i riflettori anche sul popolo curdo. Quanto è importante la questione curda per comprendere il quadro geopolitico internazionale di quella regione?
È evidente che l’ISIS ha distolto lo sguardo da molte cose. Da quando l’ISIS è diventato un nostro (intendo occidentale) problema, soprattutto a causa del fenomeno dei foreign fighters che è un fenomeno che può essere spiegato attraverso motivazioni sociali europee, Asad è diventato il male minore e una certa sinistra si è innamorata acriticamente dei curdi eleggendoli a salvatori e “buoni”. La questione curda in Siria va discussa. Io sono dell’idea che bisogna parlare dell’indipendentismo curdo. Se esso sia da realizzare attraverso la creazione di una federazione siriana o la costituzione di uno stato vero e proprio, francamente non ho risposta. Il dato di fatto è che l’ISIS fa comodo a tutti, specialmente a chi lo combatte. Nel mio libro, “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza” ho dedicato un ampio capitolo proprio a questo. Grazie all’ISIS oggi i curdi hanno portato la loro causa all’attenzione mondiale. Ci si è concentrati su Kobane, come se il resto della Siria non esistesse. Gli unici crimini sono quelli dell’ISIS. Non si parla della pulizia etnica compiuta dal PYD ai danni della popolazione siriana-araba nel territorio che oggi si chiama Rojava. Centinaia di miglia di persone sono state spinte verso i territori del califfato o verso quelli non sotto il controllo curdo. I nomi delle località da arabe prendono il solo nome curdo: è la cancellazione della storia. Chi oggi simpatizza per i curdi, magari perché è andato a fare una escursione a Kobane (Ayn al-Arab era il nome di questa località fino al 2013) vede quello che vogliono mostrargli. In pochi, soprattutto fra gli attivisti italiani pro-curdi, si ricordano del massacro del 2004 a Qamishli, dove centinai di curdi morirono, uccisi dall’esercito siriano a seguito di tumulti scoppiati durante una partita di calcio. Non sanno chi era Mashaal Tammo, politico curdo assassinato nell’ottobre 2011, vero simbolo dei curdi siriani ma oggi completamente rimosso, proprio dal PYD. Lo sforzo che bisogna fare oggi è quello di guardare le cose in maniera critica e costruttiva, uscendo dall’ottica della tifoseria da stadio, soprattutto quando questa è fatta da Milano o Roma e non da Aleppo o qualsiasi altra città bombardata.
Come tu stesso scrivi nel tuo ultimo libro, la Siria è il paese da cui si è diramato l’islam e il cristianesimo dialogante. Non è condivisa da tutti la realtà di un islam aperto al dialogo. Che cosa rispondi a questa provocazione?
Con alti e bassi l’Islam siriano, insieme a quello levantino, è riuscito a convivere con il cristianesimo e non solo per oltre 1400 anni. In Siria sono passati i veri califfati e se l’Islam non fosse stato conviviale, aperto al dialogo e non al proselitismo, probabilmente i cristiani in Siria sarebbero scomparsi da secoli. Invece, l’Islam è riuscito a preservare Maaloula, città dove si parla ancora l’aramaico. Se l’interpretazione del Corano portasse davvero alla violenza probabilmente Maaloula non esisterebbe da molto tempo e l’Islam si sarebbe autodistrutto da molto tempo, proprio a causa di questa supposta natura violenta. Possiamo dire che è nell’Islam locale che troviamo gli anticorpi storici per non aver paura del futuro e per sconfiggere il fondamentalismo. Penso che a questo Islam locale debbano avvicinarsi i musulmani europei, anche italiani, che troppo spesso hanno privato la fede di tutto il significato mistico, tradizionale e storico abbracciando una fede fatta solo di simboli: il velo, la barba lunga e una ortodossia che non appartiene neanche ai loro genitori. Solo preservando l’Islam locale salveremo l’Islam in occidente.
Rimanendo sul tema del dialogo islamo-cristiano, anche tu ti definisci come Padre Paolo Dall’Oglio, “un credente dell’islam, innamorato della misericordia di Gesù e di Dio”. Quanto è fondamentale secondo te oggi la misericordia per il futuro della Siria?
La misericordia è necessaria per poter perdonare. Abbiamo bisogno del perdono dopo che verrà fatta giustizia. Credo che oggi di misericordia ce ne sia poca, come in ogni guerra. In apertura ad ogni Sura del Corano c’è scritto “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso” e questa frase è una dichiarazione che ci dice che Dio è buono, è clemente ed è misericordioso (entrambi sono anche due dei nomi che si danno a Dio). Se nel Corano c’è scritto questo, prima di ogni Sura, allora non possiamo tradire questo Dio comportandoci male e non provando misericordia verso gli altri.
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