Da Reset-Dialogues on Civilizations
Polvere, macerie, quartieri rasi al suolo: così si presenta oggi Ramadi, città sunnita capoluogo della caldissima provincia di Anbar. Liberata dall’esercito iracheno alla fine dello scorso anno, oggi sembra una città fantasma. A dare la misura della devastazione sono le foto satellitari pubblicate in questi giorni dall’Associated Press: oltre tremila edifici distrutti, 400 strade seriamente danneggiate, ponti polverizzati, infrastrutture al collasso.
A Ramadi sono morti 800 civili e la sfida ora è politica. Cuore della comunità sunnita, la provincia di Anbar è stata fin dall’invasione statunitense il teatro della ribellione sunnita prima contro l’occupazione Usa e poi contro il nuovo governo sciita affidato all’allora premier al-Maliki. Oggi a Baghdad spetta una ricostruzione che prima che fisica sia sociale, economica, politica: reintegrare i sunniti nel panorama decisionale del paese.
Un obiettivo non certo facile soprattutto in un periodo di aperta crisi politica: il governo è allo sbando e il premier al-Abadi è incapace di imporre al parlamento il rimpasto ministeriale e le riforme istituzionali promesse da mesi. A reagire, allora, è la base. Un movimento popolare, per lo più sciita ma non solo, mosso dal movimento sadrista scende in piazza da mesi per fare pressioni su al-Abadi e chiedere nuove legislazioni anti-corruzione. La protesta ha toccato il suo apice sabato 30 aprile: la folla ha distrutto i muri di cemento che da oltre un decennio separano la Zona Verde dal resto di Baghdad, 4 km quadrati in cui la comunità internazionale e il governo iracheno hanno chiuso ambasciate straniere, sede del parlamento, uffici ministeriali. Il cuore politico dell’Iraq separato dal resto del paese e dal suo popolo.
I manifestanti, qualche migliaio, hanno invaso la Zona Verde e fatto irruzione in parlamento, al grido di “Vittoria per l’Iraq”. I deputati presenti si sono dati alla fuga in auto, bersagliati dalle pietre scagliate dai manifestanti. Solo il giorno dopo se ne sono andati su espressa richiesta di Moqtada al-Sadr, leader religioso sciita. Protagonista della resistenza contro l’occupazione Usa attraverso il potente Esercito del Mahdi, nel 2014 ha annunciato il ritiro dalla scena politica. Pochi mesi dopo, però, è tornato indossando altre vesti: dopo aver convertito l’Esercito del Mahdi nelle Brigate della Pace, ha preso parte alla lotta contro l’Isis mantenendosi a distanza dalle milizie legate all’Iran per poi farsi promotore di un movimento popolare in chiave anti-corruzione, piaga che impedisce al paese di risollevarsi e ricostruirsi dopo decenni di conflitto quasi ininterrotto.
Oggi ha in mano un’occasione d’oro: cambiare alla radice il sistema politico iracheno e vincere definitivamente quei settarismi che stanno sgretolando il paese. Ne è convinto Salah al-Nasrawi, giornalista iracheno che collabora con Ap, Bbc e Al-Ahram. Lo abbiamo raggiunto al telefono: «Moqtada al-Sadr è stato in grado di dare vita ad un movimento popolare di massa che non si limita ai confini sciiti: le migliaia di persone che scendono in piazza da mesi non sono solo sadristi. Sono persone scontente e tra loro ci sono anche sunniti e ex baathisti, diversi strati della società che hanno oggi l’occasione di cambiare il regime imposto dall’occupazione Usa».
«È una situazione simile a quella delle primavere arabe in Nord Africa: un movimento popolare che chiede un cambiamento scevro da interferenze esterne e dai diktat delle élite – continua al-Nasrawi – Al-Sadr ha la possibilità di abbandonare le vesti del leader religioso sciita per diventare un leader popolare e nazionale».
Esattamente l’opposto dei piani strategici occidentali: dal 2003 gli Usa puntano alla divisione federale dell’Iraq secondo innaturali separazioni settarie, un paese in cui ogni comunità – la sciita, la sunnita e la kurda – si amministri in autonomia. Nella pratica, una frammentazione che renderebbe l’Iraq schiavo delle influenze esterne, dal Golfo all’Iran. L’eventuale nascita di una piattaforma sunnita-sciita, dalla base, avrebbe effetti devastanti per un simile piano e travolgerebbe anche l’attuale sistema politico, formato da partiti settari che puntano a mantenere il controllo dei ministeri, sola fonte di legittimazione in un paese schiavo di corruzione, clientelismo e voto di scambio.
«La lotta di potere è molto complessa. Sembrerebbe che la battaglia sia limitata alla formazione di un nuovo governo – aggiunge al-Nasrawi – Ma è un’analisi limitata: in gioco c’è sì la distribuzione di poltrone messa in pericolo dall’intenzione del premier al-Abadi di formare un governo tecnico non legato alle diverse fazioni; ma in ballo c’è anche il futuro dell’Iraq e la crescente paura delle fazioni politiche della cosidetta maggioranza silenziosa. Quella che oggi è in piazza. Un esempio: nel 2014 solo il 30% degli sciiti aventi diritto al voto parteciparono alle elezioni mentre il 70% le boicottarono per i dubbi che avevano sulla legittimità della classe politica. Tra due anni si va al voto e i partiti temono che avvenga lo stesso. Stanno usando l’Isis per terrorizzare la popolazione e farsi rieleggere, ma non sta funzionando».
In tale contesto il movimento sadrista non ha fatto altro che incrementare la crisi politica dei partiti tradizionali e ampliare la lotta interna tra fazioni, non più solo quella tra sunniti, sciiti e kurdi, ma anche quella tra sciiti: alcuni parlamentari sciiti hanno ufficialmente dichiarato di sostenere la strategia di al-Sadr e lo stesso hanno fatto deputati sunniti, trasportando dentro il palazzo quell’abbozzo di piattaforma sunnita-sciita che sta attraversando anche la popolazione di Baghdad.
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