Iraq: proteste nella Green Zone
tra crisi politica e divisioni sciite

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 30 aprile, dopo 13 anni in cui è rimasta off limits per gli iracheni, la Green Zone di Baghdad è stata violata, assaltata dai manifestanti sciiti che si sono introdotti fin dentro il Parlamento per chiedere ancora una volta riforme contro la corruzione. Con quell’onda di persone che si è riversata in un luogo normalmente blindato, cuore pulsante del potere e della presenza di forze e organizzazioni internazionali nella capitale, l’Iraq come Stato si è mostrato in tutta la sua debolezza.

Già alla fine di febbraio i sostenitori di Moqtada al-Sadr, leader sciita fondatore dell’esercito del Mahdi nel 2004, che oggi si dichiara vicino agli sciiti delle classi popolari, avevano cominciato a scendere in piazza per chiedere che i ministri di Haider al-Abadi fossero ridotti e sostituiti da un gabinetto di tecnocrati, in modo da frenare la corruzione dilagante nell’apparato statale. Un tentativo di riforma, poi bloccato in Parlamento per ben tre volte, era stato avviato nell’agosto 2015, quando Abadi aveva promesso di tagliare le spese di rappresentanza ed eliminare il sistema delle quote per la nomina dei ministri. Il premier non è stato in grado di mantenere alcuna promessa, perché nessuno dei partiti al governo è mai stato davvero disposto a rinunciare ad uno o più incarichi pubblici.

La crisi irachena si manifesta su più livelli, e la lotta allo Stato Islamico per la ripresa dei territori finiti sotto il suo controllo, e in particolare delle province di Ninive e Anbar, non è che l’aspetto più evidente di una fragilità che coinvolge l’economia e la politica di un paese diviso dal settarismo, e minato nello sviluppo anche da un apparato burocratico che non è in grado di far fronte alle necessità della gente.

In questo momento l’Iraq sconta la flessione del prezzo del greggio, che secondo l’Agenzia Internazionale dell’energia continuerà a scendere fino al prossimo anno: anche se il petrolio resta la prima entrata, il governo avrà sempre meno fondi per pagare i suoi 7 milioni di dipendenti pubblici, fra militari e amministrativi, come già sta avvenendo da tempo nella Regione Autonoma del Kurdistan, dove i peshmerga al fronte nella parte settentrionale del paese, lamentano ritardi di mesi sugli stipendi. L’ex Primo Ministro sciita Nuri al Maliki, rimosso dall’incarico nel 2014 proprio a seguito dell’avanzata dello Stato Islamico, nello stesso partito, Dawa, dell’attuale primo ministro Abadi, è fra i primi che frenano sulle riforme perché ha tutto l’interesse a mantenere in piedi un sistema corrotto. D’altro canto il suo successore non può disconoscere la sua stessa parte politica, se vuole avere una chance per non essere defenestrato.

L’altro sciita, carismatico leader che negli anni dell’occupazione americana guidò la resistenza anti Usa e creò l’esercito Mahdi, una milizia che fu una spina nel fianco per gli Stati Uniti, è Moqtada al Sadr, che oggi arringa le folle contro la corruzione, e nel frattempo ha spostato il centro operativo da Najaf a Baghdad. Il suo blocco politico al Arar nelle elezioni del 2014 aveva conquistato 34 seggi in Parlamento, decretandone la legittimità politica e istituzionale. Pur non avendo mai chiesto le dimissioni di Abadi, sta alimentando le pressioni sul governo affinché porti avanti le riforme promesse, consapevole che con il Parlamento attuale non riuscirà mai ad approvarle: il suo obiettivo dichiarato è quello di eliminare il sistema delle quote, finora utilizzate in modo improprio per arricchire i titolari di incarichi pubblici ed estendere la rete del clientelismo.

Se dalla prospettiva statunitense e britannica l’urgenza è quella di contenere lo Stato Islamico, da quella irachena lo spettacolo che va in scena è il fallimento di un primo ministro e di un governo impossibilitato a garantire servizi, lavoro e lotta alla corruzione, prima ancora che unità territoriale. Ovviamente le problematiche sono interconnesse, perché la fragilità del governo e la settarizzazione del paese, anche e soprattutto delle milizie, impatta sulla lotta allo Stato Islamico e sul futuro dei territori che un domani dovessero essergli sottratti, oltre che su quelli di già contesa gestione, come accaduto nell’area a sud di Kirkuk, a Khurmatu, dove ultimamente curdi e milizie al-Hashd al-Shaabi si sono scontrati per il controllo del territorio.

La crisi fra gli sciiti al governo ne mette in definitivo pericolo la tenuta, mentre sul campo gli ultimi attacchi dello stato islamico, uniti ai continui attentati suicidi che continuano a colpire i civili, completano un quadro preoccupante del paese. Secondo i dati delle Nazioni Unite, nel solo mese di aprile sono rimaste uccise 741 persone, 410 civili e 331 membri delle forze di sicurezza; i feriti sono stati 1374. Baghdad resta la zona meno sicura del paese per il rischio di attentati (232 vittime e 642 feriti), seguita dalla provincia di Ninive dove il territorio è quasi interamente controllato da daesh. Proprio nel Nord, nella base curda di Telskol a trenta km da Mosul, il 3 maggio scorso è rimasto ucciso un militare americano, il terzo dal 2014, impegnato nella missione di addestramento e assistenza sul campo ai peshmerga, nell’ambito dell’operazione Inherent Resolve. Negli ultimi due mesi e mezzo, da quando anche l’esercito iracheno è arrivato a poche decine di km da Mosul, non ci sono stati sostanziali passi avanti verso la seconda città del paese sotto il controllo di daesh; al contrario, gli attacchi si sono intensificati lungo la linea del fronte che divide il territorio controllato dai peshmerga da quello in mano allo Stato Islamico. In questo senso, chi ha in mano le proteste sciite ha tutto l’interesse a negoziare anche sulla sicurezza del paese, visto che le milizie sono state spesso utilizzate al fianco o al posto dell’esercito ufficiale nella lotta contro l’Isis.

La galassia delle milizie sciite

Le attuali stime sul numero di sciiti che in Iraq fanno parte di gruppi armati organizzati (qui quelle della Federation of American Scientist) parlano di 110/120 mila persone: alcune delle milizie fanno capo direttamente all’Iran o lavorano di coordinamento con le forze di sicurezza irachene, e tutte vengono indicate come Unità o Forze di Mobilitazione Popolare (PMF o PMU) o Hashd al-Shaabi; ricevono un budget dal governo e anche fondi statali e parastatali da Teheran.

Col passare del tempo, soprattutto negli ultimi due anni, questi eserciti paralleli e i loro leader hanno acquisito sempre più potere ed influenza sulla scena irachena. In particolare, la loro fortuna politica si deve al fallimento dell’esercito regolare nella difesa di Ramadi, nel maggio del 2015, quando la città finì sotto il controllo dello Stato Islamico. Da allora i comandanti dei gruppi più forti  hanno cominciato a fare pressione sul primo ministro Abadi per ottenere maggiori fondi e creare un ministero a parte che sovrintendesse alla gestione delle PMF.

In questo contesto si inserisce la figura di Moqtada al Sadr, che nel 2004 fonda l’esercito del Mahdy e si schiera contro l’occupazione americana a Najaf, Kerbala, Bassora e Sadr City. Questa milizia si scontra con le truppe statunitensi fino al 2008, incontrando lo stesso obiettivo dell’Iran, ossia il completo ritiro degli Usa dall’Iraq. Lentamente molti esponenti di quell’esercito sono stati integrati nel processo politico, e solo dopo la presa di Mosul da parte dell’Isis nel 2014, l’ormai ex esercito del Mahdy si è riorganizzato come Salaam Brigade, il cui numero di uomini si stima sia di circa 15 mila.

Gli altri gruppi armati organizzati di derivazione sadrista sono Asa’ib Ahl al-Haq e Kata’ib Hezbollah. Il leader di Asa’ib al Haq è Qais al Khazali, già leader dell’esercito del Mahdy fra il 2006 e il 2007. Alleato di al Maliki nel 2014, ha riorganizzato anche le attività militari dopo il 2014 e la caduta di Mosul. Il leader di Kata’ib Hezbollah, circa 20 mila miliziani, è Abu Mahdi al Muhandis, che oggi ha interrotto i rapporti con Sadr.

La maggiore milizia sciita che non è di derivazione sadrista e non ha combattuto contro la presenza americana dopo il 2003 è la Badr Organization, il braccio armato dell’Islamic Supreme Court of Iraq, il partito sciita di Ammar al Hakim. Disarmata dopo Saddam e integrata nel processo politico, è servita a consolidare il potere degli sciiti, ed è composta da 20 mila uomini.

Ma altre milizie si sono formate in tempi più recenti, dopo il ritiro degli americani: il Nujaba Movement è nato nel 2013 per combattere in Siria in supporto al regime di Assad, e il Mukhtar Army, formatosi per aiutare il governo a reprimere le proteste sunnite interne. Infine ci sono stati anche dei civili che si sono organizzati con le armi rispondendo alla chiamata dell’ayatollah al Sistani contro lo Stato Islamico, conosciuti come la Milizia della Fatwa, stimata intorno alle 40 mila unità.

Secondo i dati raccolti dal Pew Research Centre fra il 2011 e il 2014, il 51% degli iracheni si identifica con lo sciismo, il 42% con il sunnismo, e l’acuirsi della crisi politica potrebbe definitivamente compromettere qualsiasi strategia di tenuta per il paese, tenendo conto che anche il problema della corruzione è reale, se il paese si trova al 161° posto su 168 secondo il Transparency International.

Se le frange sciite dovessero trovare un accordo formare un unico blocco, forti anche dei numeri, e delle azioni sul campo, dei rispettivi gruppi armati, potrebbero incrementare la politica di estromissione dei sunniti, con gravi conseguenze anche nella lotta contro lo Stato Islamico, ammesso che la sua eventuale disfatta non crei in futuro altri problemi interni nel controllo e nell’amministrazione del territorio. D’altro canto, un ulteriore percorso di frammentazione non fa che continuare ad allontanare l’una dall’altra le aree curda e sunnita del paese, dove lo Stato centrale è un’entità da tempo mal tollerata.

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