Da Reset-Dialogues on Civilizations
Possiamo accettare un mondo ipocrita che predica valori che non mette in pratica? Possiamo accettare dittature sanguinarie per salvaguardare i nostri interessi economici e politici, e professarci democratici?
Con queste domande si apre il nuovo libro di Shady Hamadi Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza, madre italiana e padre siriano, che dopo La felicità araba riprende il racconto sulla sua Siria, attraverso l’esilio personale, quello dei suoi familiari, e la tragedia di un popolo sempre più spesso dimenticata.
L’autore ripercorre l’infanzia, la sua identità di italo-siriano, cresciuto nel sincretismo fra cattolicesimo e islam, che si delinea lentamente, attraverso le preghiere della nonna, la scoperta della storia del padre, passato attraverso le torture nelle carceri del regime e poi costretto a lasciare il suo paese. Nel 2001 visita la Siria per la prima volta, ma sarà il viaggio del 2009 a fargli capire davvero quale sarebbe stato il suo ruolo, da “esiliato”, per il suo paese:
Compresi che dovevo trasformarmi in un ponte di comprensione, per favorire il dialogo fra queste grandi religioni, nel tentativo di far riscoprire il percorso comune che siamo chiamati a fare. Il sentimento che è cresciuto in me è quello di chiedere giustizia. Giustizia per le torture subite da mio padre; giustizia per l’esilio patito; giustizia per le occasioni negate e perdute per sempre. Ma questa richiesta di giustizia personale si è ben presto trasformata nella lotta per una giustizia collettiva, di massa.
Hamadi prova a descrivere cosa vuol dire essere testimoni della guerra e doverne scappare, fisicamente, ma senza mai abbandonarne i ricordi: racconta un continuo spaesamento, comune a chi ha interiorizzato la distruzione e la morte del proprio popolo, e che in paesi “altri” coglie invece l’indifferenza verso l’ingiustizia e la tragedia che si sta consumando.
Ho conosciuto siriani che sono arrivati in Europa e sono voluti tornare subito indietro perché la guerra era dentro di loro, talmente radicata da creare un richiamo così potente da far provare repulsione verso qualsiasi altro posto che non fosse la realtà da cui erano fuggiti. Scappavano fisicamente, ma non potevano fuggire da loro stessi, dai ricordi. La guerra ha colpito anche i siriani che, come me, vivono fuori dal paese, perché ci ha risucchiato nel vortice dell’orrore mischiato alla sensazione di squilibrio che crea il fatto di vivere la preoccupazione e lo strazio in un paese in pace, indifferente. Questi sentimenti si scontrano con la realtà di abitare più o meno lontano e di essere circondati da una società che non è interessata a quello che accade in Siria.
Il racconto personale lascia anche spazio ad analisi di ampio respiro, sulla situazione del paese, e sull’origine, pacifica, delle manifestazioni dei cittadini che volevano riforme, non guerra, ma che hanno finito col prendere le armi sotto il peso schiacciante della repressione. Nei primi mesi di proteste la caratteristica comune a chi scendeva in piazza, nel racconto di Hamadi, era l’eterogeneità confessionale, che si è poi persa nel tempo, a causa dell’azione deliberata del regime di Assad di riportare il conflitto nelle maglie della contrapposizione religiosa, unito all’immobilismo delle forze internazionali.
L’emancipazione, voglio ripeterlo, non arriva solo con il cambio di regime, ma con il percorso che ogni individuo deve affrontare per eliminare il totalitarismo che gli è stato inculcato. Dentro ognuno di noi, noi siriani, c’è una dittatura da abbattere. L’inerzia della comunità internazionale e la mancanza di un movimento di massa europeo in supporto ai giovani, insieme al palesarsi del ruolo preminente di Russia e Cina nel sostegno al governo siriano, crearono l’insieme dei fattori internazionali che facilitarono il dissolvimento della protesta popolare e l’inizio della guerra.
L’autore individua nella strage di Houla del 25 maggio 2012 l’atto simbolico che segna la fine del movimento pacifista e l’inizio di una nuova fase, in cui oltre alle forze di opposizione riunite attorno al Coordinamento nazionale cominciano a manifestarsi anche le prime formazioni radicali, mentre a livello internazionale emergono in maniera sempre più chiara l’attivismo russo nei confronti di Assad e la sponsorizzazione dei gruppi anti-regime da parte di Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Un’altra data cruciale è il 21 agosto dello stesso anni, quando nella piana di Ghouta, periferia di Damasco, vengono lanciati i primi missili contenenti il gas sarin, provocando la morte di 1300 persone, all’indomani del discorso di Obama sull’uso delle armi chimiche in Siria, che avrebbe segnato un punto di non ritorno. Così non è poi avvenuto, per ragioni interne agli Usa (un’opinione pubblica contraria ad un intervento di terra in Siria) ed internazionali (opposizione di Francia e Gran Bretagna). La riluttanza degli Stati Uniti è diventata terreno fertile per la Russia di Putin che invece non ha esitato ad entrare nella partita siriana: una situazione politica che per Hamadi risente dell’antiamericanismo che accompagna le vicende mediorientali, e che nell’immaginario collettivo richiama sempre l’insuccesso iracheno.
Qualsiasi altro intervento, esterno all’Occidente in un conflitto di un Paese terzo, non viene considerato intervento militare: quando la Federazione Russa decise di intervenire direttamente nel teatro siriano a settembre del 2015, dichiarando che i bombardamenti sarebbero stati contro l’Isis, nell’idea collettiva doveva essere così. I russi non erano gli americani, le bombe che sganciavano dovevano per forza col-pire i terroristi. Dovetti spiegare – e mi capitò spesso, in molte occasioni – che eravamo contro l’intervento militare esterno, ma un intervento militare in Siria, concreto e mai preso in considerazione, era già cominciato, ed era quello iraniano, russo e dei Paesi del Golfo.
In realtà gli schemi di destra e sinistra, secondo l’autore, hanno fornito una visione distorta di quanto stava e sta accadendo in Siria, e per spiegarlo riprende le parole di padre Paolo Dall’Oglio, che in un articolo pubblicato pochi giorni prima del suo rapimento, avvenuto il 29 luglio del 2013, argomentava il fatto che Assad riscuotesse un successo ad ampio spettro.
Con la destra: in comune c’è il disprezzo per la democrazia in quanto giogo e umiliazione dei forti e degli dei. Poi si è assieme in un profondo antisemitismo che si espande in islamofobia. Il regime siriano, insieme al suo alleato libanese, Hezbollah, e al padrino iraniano, rifulge di un antisemitismo radicato nell’immondizia nazista e debitore degli attrezzi propagandistici zaristi fomentatori di pogrom. Logicamente e perversamente ciò si accompagna al “negazionismo” più sfrenato, sicché è verità solo ciò che concorre all’affermazione violenta della propria identità, ed è menzogna il resto. Con la sinistra: è figlio di un grande socialista baathista pro-sovietico, mai rinnegato nonostante la sua deriva liberal-mafiosa. I rumorosi accenti anti-imperialisti, retoricamente e strumentalmente pro- palestinesi, innamorano i collettivi no-war del pacifismo finanziato a Mosca. Attira la sua inimicizia senza compromessi nei confronti di Israele, anche quando si rivela più propagandistica che altro. Piace l’alleanza con la Corea del Nord, il castrismo e il chavismo. Vittima designata dell’aggressione complottista della Nato, nettamente Bashar è dei nostri, un eroe! Devoti di Bashar sono poi i cristiani identitari (alcuni chiaramente tradizionalisti, fascisti e negazionisti).
Una riflessione a parte è dedicata alla nascita – e alle conseguenze – dello Stato Islamico, che ha raggiunto l’obiettivo di ricreare l’ordine precedente alle primavere arabe, con il ritorno o il consolidamento di regimi brutali, che si riaccreditano a livello internazionale nella comune lotta al “nemico di tutti”.
Il regime di Assad per lungo tempo non ha bombardato né combattuto lo Stato islamico per diversi motivi. Il primo è che un’avanzata e un’esplosione del fenomeno mediatico dello Stato islamico erano funzionali a far dimenticare le colpe del regi- me e a vendersi, a un Occidente impaurito, come protettore dei cristiani. Un altro motivo è che la crescita di questa organizzazione andava a scapito delle forze autoctone della rivoluzione che fin dall’inizio sono state combattute dall’Isis mentre venivano bombardate dall’aviazione siriana. Un Iraq e una Siria stabili, avviati verso la costruzione di una democrazia autonoma, sarebbero una sconfitta per tutti i Paesi dell’area che opprimono le loro società adoperando l’argomento religioso per nascondere meri interessi politici ed economici. Gli Stati Uniti di Obama, insieme all’Europa, con l’Isis hanno trovato un alibi per non mettere mano alla politica estera, intendo dire per non affrontare le reali cause che stanno alimentando la guerra in Siria e Iraq.
Nella foto di copertina: un particolare della copertina del libro di Hamadi
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Titolo: Esilio dalla Siria. Una lotta contro l'indifferenza
Autore: Shady Hamadi
Editore: ADD Editore
Pagine: 141
Prezzo: 13 €
Anno di pubblicazione: 2016